Glifosato pericoloso? Sì, no, forse
Notiziona della settimana scorsa: la FAO e l’OMS hanno diramato un comunicato secondo cui il glifosato è “improbabile che sia cancerogeno”, una decisione che ha suscitato grande entusiasmo nei sostenitori dell’agro-industria e invece reazioni stizzite da parte di chi contesta la salubrità di questo potente erbicida. In molti si sono chiesti: ma come, l’OMS non è lo stesso ente che qualche tempo prima aveva messo in guardia sugli effetti collaterali per la salute dell’ex brevetto Monsanto? Perché ora questo voltafaccia? Dietro questo paradosso si cela una realtà molto semplice ma che sfugge ai più.
L’OMS, per esprimere un giudizio sulla eventuale nocitivà di una sostanza, si basa sulle valutazioni fornite da enti che non compiono ricerche operative sulle problematiche in esame, ma vagliano la letteratura scientifica esistente per poi trarre una conclusione. E’ così accaduto che, dopo questo lavoro preliminare, la International Agency for Research on Cancer (IARC) abbia deciso di classificare il glifosato tra i ‘probabili cancerogeni umani’ mentre il Panel of Experts on Pesticide Residues in Food and the Environment abbia dato un parere assolutorio perché, si legge nel documento della FAO, “la grande maggioranza delle prove scientifiche indica che la somministrazione di glifosato e di prodotti derivati a dosi fino a 2000 milligrammi per chilo di peso per via orale, la più rilevante per l’esposizione con la dieta, non è associata ad effetti genotossici nella stragrande maggioranza degli studi condotti su mammiferi… Qualche studio ha evidenziato un’associazione positiva tra l’esposizione al glifosato e il rischio di linfoma non Hodgkin. Tuttavia l’unico studio, condotto con una grande coorte e di grande qualità, non ha trovato evidenza di una associazione per nessun livello di esposizione”.
Che cosa dobbiamo concluderne, che il Panel of Experts on Pesticide Residues in Food and the Environment è ‘migliore’ della IARC e che quindi bisogna dare maggior peso al suo giudizio? Ovviamente no, almeno limitandosi alle informazioni diramate dai media. Bisognerebbe conoscere i criteri con cui sono stati selezionati gli studi esaminati, le competenze e gli eventuali conflitti di interesse dei giudicatori nonché la prevalenza assegnata al principio di precauzione o alla ‘evidenza scientifica’ al momento di formulare le valutazioni; si tratta di operazioni molto complesse dove bisogna possedere profonde competenze disciplinari, non accessibili a tutti. Ci troviamo quindi nel campo dell’opinabile? In una certa misura sì, come del resto accade in tutte le questioni scientifiche di carattere probabilistico. Per quale ragione, ad esempio, un solo studio è stato ritenuto “di grande qualità” e quindi preferibile rispetto a uno pubblicato su Lancet Oncology, una delle più prestigiose riviste di oncologia e dall’altissimo impact factor? Al momento sono questioni aperte. Possiamo chiudere allora il capitolo glifosato con qualche certezza al riguardo? Direi almeno un paio.
La prima è che, per quanto possa apparire bizzarro, in natura esistono piante con proprietà erbicide alcune delle quali presentano una composizione chimica simile al glifosato e da cui sono stati ricavati prodotti poi introdotti sul mercato (vedi il Bialaphos). La seconda è che la sua produzione è altamente energivora, non proprio un buon biglietto da visita in un contesto post-picco petrolifero, dove del resto la difficoltà nel sintetizzare erbicidi potrebbe essere il minore dei problemi.
OGM promossi, agricoltura bocciata
L’ultima volta che ho provato a parlare di OGM commentando negativamente la puntata di Presa Diretta dedicata all’argomento per l’eccessiva parzialità – nonostante dichiarassi esplicitamente la mia stima per Riccardo Iacona, condannando chi lo bollava come asservito alle multinazionali – è scoppiato un vero e proprio putiferio, dove sono intervenuti due professori universitari – uno che mi lasciò il beneficio del dubbio, l’altro che si permise di darmi del “baro” (successivamente declassato a “ingenuo”) solo perché avevo citato uno studio di una rivista scientifica a suo giudizio truffaldino; il tutto condito da commenti a raffica di vigliacchi digitali capaci solo di sfoderare il peggior repertorio dei troll, in una vera e propria shitstorm da cui gli accademici si sono guardati bene di prendere le distanze. Vediamo cosa succede ora ritornando sull’argomento.
Un rapporto della National Academies of Science, Engineering and Medicine, intitolato Genetically Engineered Crops: Experiences and Prospects ha espresso il proprio parere sulla modificazione genetica, che Repubblica ha così sintetizzato: “Che gli Ogm non siano né mostruosi Frankenfood né la soluzione al problema della fame è conclusione che non stupisce nessuno, in primis gli agricoltori. Per la prima volta nel 2015 gli ettari coltivati con semi ingegnerizzati sono diminuiti nel mondo, passando dai 181 milioni del 2014 ai 179 dell’anno scorso. Colpa anche degli ostacoli legislativi e dell’ostilità dei consumatori. Mentre gli studi sperimentali sulle prime piante ingegnerizzate parlavano poi di un aumento delle rese, il dipartimento americano dell’Agricoltura non ha mai registrato dati in questo senso. E anche se in alcuni casi i geni modificati sono “sfuggiti” verso i campi tradizionali, la contaminazione non si è mai propagata.
Dei tanti tratti del Dna modificati in laboratorio (per rallentare il deperimento o arricchire i cibi con sostanze utili alla salute come il beta carotene nel riso) nessuno ha poi preso davvero piede nei campi. La stragrande maggioranza delle coltivazioni Ogm oggi comprende mais, soia, cotone e colza ingegnerizzati per resistere agli insetti o agli erbicidi (liberi così di agire solo sulle piante infestanti). Ma il fenomeno della resistenza ai prodotti chimici da parte delle erbacce rischia sempre più spesso di annullare anche questo vantaggio per gli agricoltori, fa notare il rapporto”.
Se il contenuto testé riportato non vi aggrada, siete pregati di rivolgere le vostre rimostranze a Repubblica e non al sottoscritto, che si è limitato a una mera citazione (il rapporto è lungo più di 400 pagine, a un primo sguardo sembra un riassunto abbastanza calzante). Per quanto mi riguarda, rivedo alcuni giudizi che avevo espresso sulla base dello studio ‘incriminato’ e di altre fonti, ossia che gli OGM non garantiscono particolari aumenti delle rese in un contesto agricolo tecnicamente maturo (un parere condiviso persino da Monsanto) e che le cosiddette ‘super-erbacce’ si stanno facendo sempre più minacciose.
Voglio però spezzare una lancia in favore degli OGM, nel senso che non si possono pretendere da loro miracoli, anche perché da troppo tempo stanno facendo da parafulmine per quello che fondamentalmente è il vero problema, ossia il modello agricolo industriale, un’attività che contribuisce pesantemente al global warming e ad altre gravi forme di degrado ecologico, che ha pretese energetiche non compatibili con la transizione post-fossile (mediamente quattro joule di energia fossile spesi per ricavarne una di cibo) e che si trova alle prese con problemi – come le conseguenze dell’uso del fosforo nei fertilizzanti di sintesi – da lei stessa creati e ai quali è incapace di rimediare. Le vicissitudini correlate a OGM, glifosato e argomenti simili sono solo la punta affiorante di un iceberg di cui prima o poi dovremo trovare il coraggio di vedere anche la base nascosta, molto più imponente e minacciosa. Ostentare le medaglie della Rivoluzione Verde nel risolvere passati problemi di denutrizione (magari rinfacciando a chi scrive che senza di essa probabilmente non sarebbe neanche venuto al mondo) non è un modo costruttivo di affrontare la situazione.
Sostenere il TTIP, ovvero: il diavolo non è poi così brutto come viene rappresentato
Dopo che la sezione olandese di Greenpeace ha scoperto e diffuso la bozza dell’accordo tra USA e UE riguardo al TTIP, si è assistito a una mobilitazione mediatica dei sostenitori del trattato che, ugualmente alla questione glifosato/OGM, dovrebbe far decisamente riflettere i contestatori sulle strategie da adottare.
Ad esempio Stefano Feltri – con cui noi decrescenti abbiamo già avuto a che fare qualche tempo fa – in un articolo del suo blog ospitato sul Fatto online sfrutta l’attenzione concentrata quasi esclusivamente sulla tutela alimentare per sminuire le paure e presentare il ‘volto umano’ del TTIP. Pur riconoscendo che si tratta sostanzialmente della “NATO dell’economia”, non è vero, afferma, che si diventerebbe schiavi delle multinazionali statunitensi, anzi: la UE “recepisce molte delle indicazioni dei movimenti anti-Ttip. E per questo gli Usa l’hanno accolta con grande scetticismo, al momento non è affatto detto che passi, vedremo nel round negoziale di luglio. Le caratteristiche fondamentali di questo nuovo sistema Isds (ribattezzato Ics, Investment Court System) sono la creazione di una Corte apposita (invece degli arbitri scelti volta per volta) che prevede anche un grado di appello, i cui membri saranno scelti tra persone che rispettano gli stessi requisiti richiesti per la Corte internazionale di giustizia e il board di appello del Wto, l’organizzazione mondiale del Commercio. I limiti di ricorso di un investitore saranno molto definiti e c’è una corsia preferenziale per le denunce che si presentano fin dall’inizio come poco fondate. Nella corte ci saranno quindici giudici, cinque americani, cinque europei, cinque di altri Paesi.
La Commissione si impegna a garantire il “diritto di fare le regole” e restringe molto i casi di “espropriazione” che sono quelli più delicati. Cioè quando un Paese formalmente non ostacola l’impresa, ma alza a tal punto gli standard ambientali o sanitari da erodere tutto il potenziale margine di profitto del’investitore”.
Ma, soprattutto, “gli Isds non servono soltanto alle multinazionali americane, ma anche alle aziende europee che vogliono investire negli Usa”. Ed è proprio su questo tasto che i contestatori dovrebbero battere, facendo loro l’appello finale di Feltri, cioé evitare “prese di posizione ideologiche che rischiano di impedire un dibattito consapevole invece che favorirlo”. Che cos’è sostanzialmente il TTIP? Un tentativo di perpetuare a oltranza il business as usual, cioé quella cosa che viene comunemente chiamata ‘libero mercato’ o ‘globalizzazione’, un’ideologia che non solo antepone i margini di profitto delle imprese alla preservazione di salute e ambiente, ma le cui logiche dimostrano lo spregio di qualsiasi basilare legge della fisica, come dimostra lo scempio ecologico in atto a livello planetario. Nelle bozze non si trova alcun riferimento alla tutela del clima, malgrado gli impegni presi da USA e nazioni europee alla Conferenza di Parigi, come se il commercio internazionale fosse esente da responsabilità, mentre è uno dei principali imputati. Questo grafico, tratto da uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences e riproposto dall’ENEA, lo chiarisce in modo inequivocabile:
A fronte di un’argomentazione tanto forte e stringente, denunciante senza possibilità di appello le vere imposture ideologiche, ha senso – specialmente da parte della critica ambientalista – limitarsi a qualche vago accenno al rischio di un’importazione massiccia di carne agli ormoni o di cibo transgenico? Analogamente a quanto accade per glifosato e OGM, il TTIP rappresenta un velo da squarciare per svelare una realtà ben più complessa e inquietante.