Erano i primi anni ‘60. D’estate, noi bambini, a Santa Caterina giocavamo a tuddhri, facevamo ventagli di stecchi di gelato ed altri semplici giochi autarchici. Tutte cose che a me riuscivano poco bene. In compenso ero completamente rapito dalla passione per il mare in tutte le sue espressioni, mi affascinavano la pesca, i suoi personaggi, le barche e le storie che cominciai inconsciamente a registrare insieme ai nomi dei pesci, degli attrezzi e delle tecniche di pesca. A quell’epoca non esistevano i G.P.S. e gli ecoscandagli; e le carte nautiche e le bussole era come se non ci fossero, per non parlare delle dotazioni di bordo. Ogni conoscenza veniva tramandata oralmente da chi l’aveva acquisita con faticosa esperienza. Rimanevo ore ad ascoltare incantato i discorsi dei vecchi pescatori, che già allora mi sembravano personaggi fuori dal tempo. Il più vecchio che io ricordi era compare Cosimo Capu ti Ceddhru, segaligno, pantaloni pesanti neri e camicia bianca, estate e inverno perennemente rimboccati. Si accompagnava per via della debole vista con una canna usata a mo’ bastone; sembrava uno di quei vecchi pescatori di spugne che popolano, come fantasmi, le sperdute isole greche. Altri pescatori, all’epoca già anziani, ma ancora in attività erano: Gino Cardillu e Compare Izzarieddhru. Il più organizzato era Ugo Carrino; quello che lo era meno, Giacinto Felline, con le sue barchette a remi tutte rattoppate. Nel porticciolo di Santa Caterina, allora c’era solo il vecchio scalo, e vi erano appena una decina di barche di pescatori ed un pugno di barche di dilettanti. La barca più grande era Marcella, di Ugo Carrino, che montava un potente Mercedes; la più veloce ed elegante era la bianca San Vito, dalla innovativa prora oceanica, apparteneva ai fratelli Capoti, montava un Lombardini monocilindrico di 10 cavalli e aveva, sempre ridipinto di fresco uno sgargiante “asso di bastoni” sul mascone di prora. Fra le barche dei dilettanti, l’unica degna di considerazione era il Konkiki, ovvero, il barcone da pesca ingentilito di don Nino Del Prete, pioniere, tra le altre ludiche occupazioni, della pesca con l’autorespiratore. Un po’ esibizionista, antesignano degli odierni pescasportivi, era considerato un guru, dispensatore di sapere e di racconti fantastici che lasciavano letteralmente a bocca aperta anche gli astanti più colti. Aveva un magico, unico, modo di raccontare enormi balle che da grande brillante burlone quale era, esasperava sempre di più senza che mai alcuno se ne avvedesse. Memorabili, ma solo per citarne alcune, la balla delle sigarette che diceva di fumare sott’acqua e quella dell’aeroplano che si era incastrato fra le nuvole. Una cosa era vera, don Nino possedeva un aereo che pilotava personalmente, o almeno così diceva, nei cieli di Santa Caterina. Le restanti barche di dilettanti, si potevano contare sulle dita di una mano: erano delle piccole lance di legno di tre-quattro metri, a remi o aventi come propulsore i primi prototipi di fuoribordo marini. Ricordo il mitico “Seagull” scheletrico e con il curioso serbatoio cilindrico, il “Mac” di colore bianco sporco, che faceva bestemmiare ogni volta che si doveva avviare, anche se quando partiva non si fermava più, i “Ducati” ed infine i “Carniti”. Questa micro flotta dissipava la passione di qualche decina di pescasportivi, allora il mare era poco affollato, ma le barche, in compenso, lo erano un po’ troppo. Il primo equipaggio di cui ho stabilmente fatto parte era composto dai fratelli Dino e Fabio Vaglio e dal maestro Alfredo D’Alessandro, con una lancetta di poco più di tre metri si usciva all’alba, sospinti dal Mac (quando partiva) e si puntava la prora in direzione Nord-Ovest procedendo sino a quando, da dietro l’altipiano d’Uluzzo, spuntavano le bianche sagome delle due uniche case che si trovavano in contrada Rinaro. Era un segnale chiaro: si era giunti sul fondale da pagelli, ed iniziava la pesca con le “togne”. Allora i pesci erano ancora di bocca buona, si pescava con le cozze o addirittura con le cozze lessate e con i latterini. Io non pescavo. Consumavo la merenda: una frisella con il pomodoro, inzuppata nell’acqua di mare, bevevo, sudavo e rimettevo, distrutto dal mal di mare causato dal ponentuolo e dalla puzza d’acqua stantia e di pesce marcio che esalava da sotto il pagliolato. Oltre che di tanti ambiti pagelli, le sporte si riempivano, e si riempivano sempre, d’ogni sorta di varietà di pesci: tanute, menole, perchie, tracine, gallinelle, pesci pettine ed altro. Dopo qualche anno venne costruito lo scalo nuovo e fu allungato il molo foraneo; comparvero le prime barche di plastica e le Archetti, straordinarie barche marine a fasciame sovrapposto, interamente di mogano. Fecero la loro comparsa anche i primi fuoribordo affidabili. Il porticciolo di Santa Caterina si cominciò a riempite di barche ed io, che avevo già 10 anni approdai a S. Isidoro, fu come fare un salto indietro nel tempo, ma questa, è un’altra storia…