Le Terra brucia. I mass media hanno dato risalto alle centinaia di migliaia di ettari di foreste perduti negli incendi devastanti Siberia, Alaska ed Amazzonia, ma anche in Africa centrale la situazione è critica; tutto ciò si aggiunge all’ordinario disboscamento perpetrato in ogni parte del mondo nel nome di sviluppo e progresso. Tra le tonnellate di CO2 rilasciate e il potenziale fotosintetico andato in fumo, la già grave crisi climatica si complica ulteriormente.
Non sono mancate aspre polemiche, sia perché spesso non sono stati profusi particolari sforzi per contrastare le fiamme (in Russia, al di fuori delle cosiddette ‘zone di controllo’ – circa il 90% di quelle attualmente interessate dai roghi – non è obbligatorio per legge adoperarsi per lo spegnimento), sia perché in taluni casi è palese l’intento di lasciar progredire la distruzione per ricavare nuove aree da destinare ad agricoltura, allevamento o edificazione. Il caso brasiliano è eloquente.
Già a maggio, prima che i fuochi divampassero, la deforestazione in Amazzonia aveva raggiunto livelli record, a causa del via libera allo sfruttamento indiscriminato promosso dal presidente Jair Bolsonaro, il quale, dopo tanto tempo perso lamentando la mancanza di mezzi e accusando ONG e contadini, alla fine ha mobilitato l’esercito di fronte al dilagare della protesta interna ed esterna al Brasile, unitamente alla minaccia di sanzioni economiche da parte della comunità internazionale.
Tuttavia, se è doveroso indignarsi per il comportamento sciagurato del leader sudamericano, lo è un po’ meno fare le anime ingenue limitandosi allo sdegno facile da social network. Il giornalista ambientale Sergio Ferraris ha pubblicato sul suo blog un post dal titolo fortemente provocatorio (Amazzonia: Bolsonaro ha ragione), dove ha spiegato tanti aspetti che si finge di non vedere:
La regione con la sua foresta è considerata il “polmone” del pianeta che ha uno svantaggio: sorge su una risorsa sovrana chiamata suolo. E che come tutte le risorse sovrane è disponibilità dello stato a cui appartiene. Come lo sono il petrolio per l’Arabia Saudita e la Norvegia e il carbone per la Germania. Risorse che vengono utilizzate, nello schema dell’ecologia classica, ai fini dello sviluppo delle singole nazioni (ricche) o delle multinazionali.
In questo quadro il presidente del Brasile Bolsonaro si muove rispetto alla propria risorsa, il suolo dell’Amazzonia, con una perfetta coerenza rispetto al resto del mondo, che produce l’84% della propria energia da fonti fossili.E le condanne arrivano principalmente da quelle nazioni che fondano il proprio benessere dalle fonti fossili, a cominciare da Norvegia e Germania che hanno annunciato la chiusura del loro finanziamento al governo Brasiliano per l’Amazzonia – rispettivamente le vertiginose cifre di 30 e 35 milioni di dollari l’anno. Con la Norvegia che utilizza i proventi del petrolio del Mare del Nord per alimentare il welfare dei propri cittadini – che sono 5,3 milioni – mentre la Germania usa il carbone per produrre il 50% della propria elettricità.
E a ciò bisogna aggiungere le emissioni procapite. La Norvegia emette 9,2 tonnellate di CO2/procapite annue, la Germania 8,9 tonnellate di CO2/procapite annue, l’Italia 6,7 tonnellate di CO2/procapite annue e il Brasile 2,2 tonnellate di CO2/procapite annue.
In pratica ogni norvegese o tedesco emette gas climalteranti quanto quattro brasiliani e pretende che il Brasile rimedi a queste emissioni gratis in nome di un “bene comune”. È un classico dell’economia capitalista: privatizzare i profitti e collettivizzare le perdite.
Ora è sacrosanto scandalizzarsi per la distruzione dell’Amazzonia – che assorbe 2 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno per tutto il Pianeta – , cosa che porterà a conseguenze su scala planetaria specialmente per le generazioni future che non hanno alcuna colpa. Ma strepitare solo in una direzione, senza parlare di carbon tax, – ossia di mettere mano ai propri portafogli – solo quando c’è un’emergenza ambientale e mediatica appare francamente ipocrita. Oltre a portare a risultati pari allo zero.
Il ragionamento di Ferraris è ineccepibile: gli ultimi polmoni verdi della Terra rappresentano un bene comune dell’umanità che fruisce dei loro servizi ecosistemici, ragion per cui la preservazione non può rimanere un onere esclusivo delle singole nazioni ma va condivisa tra tutte, in maniera proporzionale al danno ecologico apportato al pianeta.
Una soluzione potrebbe consistere nell’obbligare ciascun paese a pagare una quota corrispondente ai quantitativi di CO2 che non riesce a sequestrare attraverso la propria biocapacità, demandando quindi implicitamente (e gratuitamente) il compito a terzi. I proventi andrebbero destinati a un fondo gestito da un organismo internazionale (ad esempio un’agenzia ad hoc in seno all’ONU) per due scopi: la formazione e il mantenimento di una task force sovranazionale di intervento rapido da affiancare ai soccorsi locali, dotata delle più avanzate tecnologie (soprattutto di una consistente flotta di aerei anti-incendio), unitamente alla creazione di un fondo vincolato destinato al benessere delle foreste. Per un’idea approssimativa di chi e quanto dovrebbe pagare o riscuotere, un buon riferimento può essere il debito/credito ambientale di ciascuna nazione calcolato rapportando l’impronta ecologica alla biocapacità (maggior intensità di verde: maggior credito; maggior intensità di rosso: maggior debito):
Fonte: Global Footprint Network
Gli stati ecologicamente creditori dovrebbero ricevere finanziamenti di entità tale da scoraggiare il disboscamento (quindi decisamente maggiori dei contributi già esistenti), preferendo invece l’opera di tutela. Occorre ovviamente progettare opportuni strumenti di vigilanza e rendicontazione, con l’eventuale violazione degli accordi che sarebbe perseguita dal Tribunale Penale Internazionale e sanzionata quale crimine contro l’umanità; la mancata adesione al trattato di conservazione sarebbe dissuasa dall’imposizione di pesanti dazi e altre penalizzazioni economiche.
Esaminiamo i principali vantaggi della proposta:
- ogni nazione sarebbe incentivata molto più di ora a rimboschire, ridurre le emissioni di gas serra e il consumo di suolo, al fine di diminuire l’ammontare della carbon tax da pagare;
- l’accordo contrarrebbe la disponibilità di risorse, costringendo così a intervenire sugli sprechi, incentivando al contempo il riciclo, insieme a tutte le misure capaci di contenere i consumi;
- l’impossibilità di ampliare le aree destinate ad agricoltura e pascolo accelererebbe la riforma del sistema alimentare (per i dettagli sugli interventi da eseguire, rimando alla serie di articoli Critica della ragione agroalimentare);
- si contrasterebbe la delocalizzazione produttiva, in quanto sarebbero penalizzati i paesi emergenti che basano la loro economia sulla manifattura da esportazione, accollandosi così le emissioni di altre nazioni;
- si creerebbero centinaia di migliaia di posti di lavoro a favore dell’ambiente, per effetti diretti e indiretti dell’accordo (la tutela della flora selvatica, ad esempio, si tradurrebbe in maggior attenzione anche per la fauna);
- siccome il disboscamento è spesso conseguenza della sovrappopolazione, i progetti di pianificazione familiare troverebbero finalmente la giusta considerazione laddove la natalità e eccessiva.
In estrema sintesi, con il provvedimento qui delineato, per la prima volta nella storia mettere un freno allo sviluppo sarebbe un’opportunità vantaggiosa. In un’epoca in cui il sogno dello ‘sviluppo per tutti’ si è trasformato nell’incubo dell’estinzione dell’umanità, per realtà come l’Africa si tratterebbe di una vera riparazione per i soprusi coloniali e per riacquistare dignità nella disparità centro-periferia dell’economia globale senza inseguire inutili e pericolose chimere di progresso, mentre per i paesi industrializzati la decrescita non sarebbe più un tabù ma un’opzione per alleggerire il carico della propria carbon tax.
Sono consapevole di quanto la mia proposta possa apparire utopistica e al contempo far storcere il naso, che possa trasudare di economicismo, essere vista come una sorta di privatizzazione del mondo naturale, ecc. In ogni caso, “la nostra casa è in fiamme”, per citare Greta Thunberg; e, quando la propria dimora va a fuoco, si tende a far poco gli schizzinosi e a osare di più.