Riflessioni sulle elezioni europee

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Scrivendo Il manifesto per un’Europa decrescente nessuno di noi, ovviamente, pensava di influenzare l’esito delle imminenti elezioni europee, né tanto meno di fare propaganda per qualche partito o movimento, anche perché gli autori provengono da diverse culture politiche. Semplicemente volevamo impostare un discorso sull’Europa alternativo alle narrazioni stereotipate del mainstream mediatico che potesse servire da bozza di partenza per spunti futuri. Da questo punto di vista, le recenti elezioni per l’Europarlamento hanno confermato tutti i miei dubbi e tutte le mie paure sul destino che ci aspetta se non saremo capaci di allargare le nostre visioni oltre l’esistente.
Partiamo dalla constatazione principale: questa Unione Europea e i soggetti politici che vi concorrono scaldano talmente tanto i cuori dei popoli che solo il 43% degli aventi diritto al voto si è recato alle urne, con percentuali preoccupanti anche nelle nazioni di lunga tradizione liberale; 43,5% in Francia, 36% nel Regno Unito, 48,3% in Germania, 58,7% in Italia.
Un giornalismo onesto e obiettivo dovrebbe denunciare innanzitutto questa situazione, invece si è deciso di battere la grancassa esaltando fenomeni elettorali la cui portata è drogata dalla massiccia astensione. Eugenio Scalfari decanta il PD renziano annunciando solennemente che “per la prima volta nel dopoguerra il progetto riformista supera il 40 per cento”, ma la realtà dei fatti è che solo il 24% degli italiani si riconosce in tale ‘riformismo’, e che anzi Renzi ha catalizzato meno voti dell’Ulivo di Prodi del 2006 e addirittura meno del grande sconfitto e rottamato Veltroni nel 2008.
La discreta performance del nostro  premier fa però impallidire quella degli altri presunti trionfatori: solo un francese su dieci si riconosce nel Front National di Marine Le Pen, e più o meno lo stesso dato vale nel Regno Unito per l’UKIP di Nigel Farage; un esiguo 17% dei tedeschi ha rinnovato la fiducia nella CDU di Angela Merkel; Alexis Tsipras ha portato al successo Syriza con il 15,8% dei consensi dei greci.
Ovviamente esporre la situazione nei termini reali costringerebbe tutti gli opinion makers a riflettere seriamente sulla tenuta democratica delle nostre istituzioni, per cui è meglio presentare una una visione distorta della realtà con il forte rischio, fuorviando i cittadini, di creare delle profezie che si auto-avverino, trasformando ad esempio le tigri di carta della destra francese e britannica in partiti con un seguito di massa.
Se ciò è negativo, ancora peggio è il dibattito  che si sta creando intorno all’Europarlamento, dove i mass media dipingono questo quadro (che temo essere molto più veritiero) delle dinamiche che lo animano: la ‘grosse koalition europeista’ Popolari-PSE contro i ‘populisti euroscettici’, con questi ultimi considerati da molti un possibile stimolo di cambiamento.
Si possono portare vari argomenti a sfavore dell’abbraccio mortale tra Beppe Grillo e Nigel Farage, ma in questa sede credo che il più importante è avvisare i Cinque Stelle di essersi fatti irretire dalla narrazione mediatica dominante, cosa parzialmente vera anche prima dell’incontro con l’UKIP. Una critica che va estesa a tutti i presunti movimenti alternativi.
Poco più di un mese fa, l’IPCC diramava l’ultimo, allarmatissimo rapporto sul clima, in cui si prospettano non più di diciassette anni per mitigare gli effetti del riscaldamento globale. Per tutta risposta, i 7 punti programmatici del M5S e i dieci di Tsipras si sono concentrati esclusivamente su temi economici contro le politiche di austerità – permanenza nell’Euro, Fiscal Compact, vincoli di bilancio, ecc. – senza dedicarne neanche uno all’ecologia, mentre i Verdi favoleggiano il green new deal (l’estrema destra semplicemente tende a al negazionismo climatico). Si è invece esplicitamente accettato l’assunto per cui la problematica principale è la stagnazione economica, e si propongono l’uscita dalla moneta unica e il ritorno alla completa sovranità nazionale senza vincoli europei come metodi migliori per favorire la crescita.
Trovo davvero puerile la giustificazione secondo cui è importante allacciare alleanze pragmatiche con i ‘sovranisti’ per contrastare il carattere sempre più autoritario della UE. Certo, gente come Farage ha espresso dichiarazioni poco felici in materia di diritti civili e immigrazione, è liberista e sostiene a spada tratta il nucleare, ma a differenza della troika europea non pretende di imporre le sue scelte al di fuori della propria nazione; peccato solo che questo apparente ‘internalismo politico’, di fatto, non sia altro che imperialismo camuffato. Le radiazioni dei reattori rispetteranno i sacri confini della terra di Albione, in caso di incidente? E un cittadino britannico, che consuma l’equivalente di 1,7 pianeti terra e ciononostante viene ritenuto bisognoso di ulteriore crescita, restituirà il maltolto agli altri popoli bisognosi?
Alla fine gli ‘europeisti’ e i loro progetti sovranazionali e neoliberisti finiscono per essere, nelle loro totale insensatezza, molto più razionali. Malgrado le dichiarazioni pubbliche, devono aver compreso che l’epoca della ‘crescita robusta’ è finita per sempre, è che l’unica alternativa plausibile consiste nell’accelerare artificiosamente i ritmi di ‘distruzione creatrice’, come li chiamava Schumpeter. La balzana idea dell’Eurostat di calcolare nel PIL anche le attività criminose rientra chiaramente in quest’ottica: dopo la camicia di forze del rigore, ecco un modo per migliorare senza colpo ferire il rapporto deficit/PIL, alleviare la pressione dell’austerità e illudere che tutto possa tornare come prima.
Un’ultima considerazione che convalida le riflessioni del Manifesto per un’Europa decrescente. La parabola dei Cinque Stelle, che inizia con un programma sviluppato da Maurizio Pallante e approda alle posizioni anti-austerità, non è assolutamente dovuta a corruzione e/o assuefazione da potere, considerando il rigore quasi manicheo con cui i suoi rappresentanti combattono qualsiasi benefit derivante dalla politica. È ben più probabile invece che la decrescita e qualsiasi seria politica ecologica – cioé non volta esclusivamente al contenimento del danno ambientale – non sia associabile allo Stato e meno che mai ai sovra-Stati come la UE.
Questi infatti nascono come accumulazione di potere, e storicamente l’ideologia della crescita per la crescita è sempre stata seguita a braccetto da quella del potere per il potere (la governabilità, parola oggi tanto di moda); mentre la decrescita si propone come autolimitazione economica e conseguentemente politica, risultando quindi una narrazione fuori posto nelle sedi statali e sovranazionali. Il progetto degli Stati Uniti d’Europa è di una federazione accentrata abbastanza potente da trattare alla pari con USA, Cina e Russia, rappresenta insomma una volontà di dominio; mentre l’Europa bioregionale si basa sul confederalismo, l’autosufficienza e l’interdipendenza. Le istituzioni capaci di soddisfare queste aspirazioni possono già trovarsi in nuce da qualche parte oppure (come il municipio) essere già esistenti, ma sicuramente non abitano a Strasburgo o Bruxelles.

PS: i giudizi politici espressi in questi articolo sono personali dell’autore e in nessun caso devono essere considerati posizioni ufficiali di DFSN.

(Le immagini utilizzate in questo articolo sono tratte da Wikipedia e Wikimedia commons)

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

6 Commenti

  1. Raramente mi è capitato di condividere una riflessione in modo così pieno. Quello che Igor scrive in questo articolo è calzante e demoralizzante ad un tempo.
    Alla vigilia del voto mi son ritrovato a cenare con amici che stimo e che, con le dovute differenze, appartengono alla mia stessa area cultural-politica. Abbiamo discusso accanitamente su chi votare. Chi vedeva il pericolo populista anti-europeista avanzare, sosteneva che comunque era preferibile scegliere la “modernità”, ovvero rafforzare il progetto europeista del socialista Martin Schulz. A sostegno di questa tesi aggiungevano che dietro agli euroscettici si nasconde la destra xenofoba e reazionaria. Qualcun altro, ed io tra questi, sosteneva che una scelta europeista oggi non può prescindere da alcune doverose puntualizzazioni, per di più eticamente fondate, del tipo: quale Europa ? Con che prospettive ? Con che visione del futuro ? Con quali scelte di fondo sul piano economico, ambientale, sociale ? Suscitando un certo scalpore tra i presenti ho buttato lì, con un po’ di voluta provocazione, che esser pro o contro l’Europa per me pari era senza una preventiva definizione dei temi e del terreno su cui si gioca questa partita.
    Tornando all’incipit del commento mi rendo conto che devo spiegare l’uso dell’aggettivo demoralizzante. Nasce dal fatto che per chi crede nelle ragioni della Decrescita non c’era schieramento politico per cui votare. I 5stelle, ai quali va sicuramente riconosciuto di aver espresso fin’ora la maggiore attenzione alla Decrescita, sembra quasi che si vergognino di sostenere pubblicamente il loro appoggio ai temi che ci stanno a cuore. Grillo da Bruno Vespa ha abilmente schivato un’abbraccio troppo forte col movimento della Decrescita, temendo probabilmente di spaventare il pubblico moderato di Porta a porta. Il risultato elettorale dovrebbe indurlo a riflettere…
    Nel programma della lista Tsipras, sostenuta per altro da persone che stimo oltremodo, non c’era un solo punto che ponesse l’accento sull’ emergenza ambientale.
    Il PD di Renzi, come tutti sanno, è tutto proteso alla ripresa della crescita e dei consumi, convinto che una politica efficace per il lavoro e per il riscatto della nostra povera Italia passi solo di lì.
    Insomma a me sembra che nell’immediato non ci siano alleati, che l’attenzione e gli spostamenti degli attuali equilibri siano tutti da conquistare con le nostre sole forze e con la capacità, tutta da dimostrare, di portare le nostre ragioni in ogni piazza ed in ogni contesto. Sulla scarsa visibilità mediatica della Decrescita mi sono già espresso a parte, per cui non mi faccio illusioni. Invece mi attizza quel 41,3% che in Italia non è andato a votare. Un politico determinato mirerebbe soprattutto a questo enorme bacino. In una visione etica della lotta politica, che è quella che dovrebbe distinguere i sostenitori della Decrescita, l’attenzione all’ampia fascia dell’astensione fa la differenza rispetto a chi si crogiola del proprio 40%.

  2. Sarebbe operazione ingenerosa e, peraltro, scorretta, affermare che “tanto sono tutti uguali”.
    Destra e sinistra, popolari e socialdemocratici, proattivi e euroscettici, non dicono tutti la stessa cosa: le differenze ci sono e non da poco.

    Tuttavia tutte, al fondo, hanno un denominatore comune: la crescita.
    Tutte affidano i destini del vecchio continente alla possibilità di portare piu’ in su l’asticella dei consumi.
    I piu’ deludenti, come sottolinea Igor, sono quei movimenti, come i Cinque Stelle che, partono con Pallante e approdano a crisi covulsive da deprivazione.

    Tutte le forze politiche in campo, senza eccezione alcuna, pensano che i “mali” dell’Europa risiedano nella perdita di efficienza, nel fatto che i burocratismi abbiano rallentato lo sviluppo e che tale ritardo dipenda anche dagli effetti delle politiche monetarie.

    Dunque, chi piu’ chi meno, ciascuno con le proprie “ricette”, pensa che, o recedendo dall’Europa per tornare a politiche nazionalistiche , oppure “accelerando” lo sviluppo, si possa superare la crisi.

    Non c’è una sola riga autocritica nei programmi dei partiti e delle coalizioni.
    C’è in questo, oltre al resto, un grande deficit culturale e la totale mancanza di senso critico verso le politiche di questi decenni.

    Io però , Igor, sarei cauto nella lettura del “non-voto”.
    Non è detto che chi non si è recato alle urne sia compatto nel sostenere ragioni “altre” non rappresentate dall’offerta politica in campo.
    Una buona percentuale di non votanti rappresenta lo “zoccolo duro” storico dell’area dell’astensione.
    Un’altra percentuale non crede nella politica come strumento per governare i destini collettivi.
    Non illudiamoci: solo una minima parte non ha votato perchè convinta che, tutto sommato, l’offerta politica basata su progetti di crescita sia in antitesi alle proprie convinzioni.

    Io ho votato, ed ho votato a sinistra: convinto, perlomeno, che da questa parte possa venire una redistribuzione della ricchezza a vantaggio degli strati piu’ poveri della popolazione.
    L’ho fatto con grande sofferenza; proprio perchè anche la sinistra, Tsipras compreso, ha sposato la tesi della crescita come soluzione ai mali europei, contro l’idea dell’austerità.
    A mio avviso, invece, la sinistra avrebbe dovuto stravolgere il significato della parola “austerità” a cui la Merkel, e non solo, hanno dato una precisa connotazione, assai distante dall’idea espressa, negli anni ’70 da Enrico Berlinguer.
    Qui sta il limite: avere lasciato in mano alle destre la grande intuizione dell’austerità come occasione di cambiamento e di averla rifiutata, tout court, senza averla rielaborata come propria.

    La crisi, per dirla con Berlinguer, poteva essere “occasione di cambiamento” e, invece, anche nella sinistra, è divenuta una iattura da cui uscire con novellati progetti di crescita.
    Anzi, “progetti” è una parola grossa: sarebbe meglio parlare di speranza e di tentativi ( spesso malriusciti e contraddittori) per ripartire.

    Al non-voto ho preferito fare una scelta di campo, coerente col mio vissuto.
    Non per questo rinuncio alla convinzione che la sinistra vada profondamente ripensata

    • Non penso che tutta l’astensione abbia visioni ‘alternative’, semplicemente ho scritto che i presunti trionfatori delle elezioni sono decisamente sovradimensionati rispetto alla loro reale entità. Quanto al ‘grande deficit culturale e la totale mancanza di senso critico’, questo si spiega solo in parte, perché ad esempio ci sono i comuni virtuosi che praticano importanti misure di decrescita, e spesso sono governati dalle stesse forze politiche che troviamo blaterare di crescita a livello nazionale ed europeo; e lo stesso Berlinguer, pur segretario nazionale, non è riuscito a improntare il partito che guidava alle sue idee.
      L’ipotesi che trovo sempre più confermata – specialmente dalla involuzione del M5S – è che la decrescita non possa convivere con istituzioni statali e sovrastatali tradizionali; in qualche modo sembrano legate a doppio filo alla narrazione della crescita e dello sviluppo. Per cui è bene cercare di influenzare questi organismi (avere governi che sostengono le trivellazioni o le energie rinnovabili non è la stessa cosa, tanto per dirne una) ma penso che l’applicazione di misure concrete di decrescita venga dalle istituzioni locali e da altre ancora in fase di abbozzo.

  3. La storia è sempre stata caratterizzata da cosmopolitismi e particolarismi.
    Come non apprezzare lo stupore di Marco Polo per le meraviglie viste nella terra del Cane; oppure come non apprezzare il desiderio, in età moderna, di dimostrare che la Terra è sferica e navigando da occidente si possa giungere ugualmente alle Indie?
    Aprirsi agli altri, farsi “contaminare” sono forse i desidei piu’ “alti” insiti nella vocazione dell’uomo quale animale sociale.

    Parimenti sono degne di considerazione le tradizioni, l’attaccamento alle proprie radici, il riconoscersi nelle usanze del proprio villaggio, condividerne i progressi e perfino battersi per difenderle.

    Il problema sta nell’equilibrio verso queste istanze contrapposte.
    Quando prevale il cosmopolitismo, soprattutto se si traduce in sterili burocratismi, vengono mortificate le istanze locali, le peculiarità e le vocazionalità dei singoli luoghi.
    Viceversa, quando prevalgono i particolarismi, c’è il rischio della frammentazione, della separatezza, della incapacità di comprendersi ed accettarsi l’un l’altro.

    Eppure se si vuole essere cosmopoliti, cioè pensare al mondo come la Grande Patria, come aggregato di tante Piccole Patrie, allora è bene partire dai luoghi.
    Un “luogo” non è solo uno spazio geografico individuabile mediante coordinate; è molto di piu’.
    E’ la somma di culture, processi identitari, produzione di beni materiali e immateriali.
    E’ la manifestazione dell’originalità e della microsocialità.
    Ciò che ha fatto dell’Italia un paese così unico nel consesso europeo e mondiale è il fatto di essere stata, al tempo stesso, potenza imperiale e culla del localismo.

    Oggi viviamo la fase in cui è vitale recuperare il senso del “luogo”, la capacità di vivere, lavorare, intrecciare relazioni di prossimità.
    Serve riscoprire l’importanza della microprogettualità in antitesi alle opere faraoniche, peraltro sporadiche e spesso decontestualizzate dal contesto locale.
    Nel momento in cui la mano pubblica soffre di gigantismo, pensa alle grandi opere come maniera di rilanciare la crescita e lo sviluppo, impiegare la filosofia del “bastarsi”, di rendere minima l’entropia, di utilizzare senza sprechi le risorse locali diventa pratica virtuosa ed indispensabile.

    Anche sotto il profilo umano quando una persona pensa ai propri affetti pensa alla mamma, alla moglie, ai figli, ai fratelli e sorelle, e poi al proprio villaggio. La Patria è distante: almeno quella Patria costruita dagli altri, calata dall’alto e spesso non richiesta e non voluta.

    Credo che, nel difficile equilibrio tra cosmopolitismi e particolarismi, possano avere grande spazio e ruolo le idee della decrescita.
    Partire dai luoghi, dai bisogni dei loro abitanti non è in contraddizione con l’idea della bellezza del comunicare dell’aprirsi agli altri
    Va anche aggiunto che una certa idea maramalda del gigantismo megalomane, non solo ha mortificato le vocazionalità dei territori ma ha dissipato grandi energie e buttato enormi risorse.
    Un territorio, per il modo stesso in cui è concepito, sa “bastarsi”,sa usare le risorse locali, valorizzadole, trasformandole persino in arte e bellezza.
    Le aggregazioni coattive spesso mortificano tutto ciò, sprecano, sottovalutano, disprezzano.
    Una progettazione centralistica, di per se non può che basarsi sulla standardizzazione: tutto deve andare bene per tutti.
    In questo modo si perde il fascino dei particolari, la bellezza dei colori e dei sapori.
    Ciò che deve andare bene per tutti, in fondo, non accontenta nessuno.

    Credo che su questi ragionamenti vada aperto non uno ma tanti “cantieri” per le idee della decrescita.

  4. Bellissimo commento, che avrebbe meritato di essere pubblicato come post a sé. Dato il mio passato/presente di musicista e musicofilo mi è tornata in mente una canzone di Jovanotti che all’epoca mi piacque molto, l’albero. Per chi volesse ripassare questo è il link https://www.youtube.com/watch?v=HxK3wer8zcs . Da parte mia pronto a far parte di uno dei tanti cantieri su questi ragionamenti.

  5. In provincia di Belluno le elezioni europee hanno visto il sucesso della Suedtiroler Volkspartei, che in Italia appoggia il PD, ma nel parlamento europeo fa parte del gruppo dei popolari (e già questo mi sembra interssante). Il motivo del successo è l’accordo tra il BARD (Belluno Autonoma Regione Dolomitica) e la SVP sostanzialmente in contrasto con la regione veneta. La Provincia di Belluno ha lanciato un progetto di biodistretto che paradossalmente piace ai sudtirolesi, ma da fastidio ai veneti (di pianura) che preferiscono spartirsi le risorse tra latifondisti e proseccari, entrambi legati all’agricoltura classica ricca di chimica e di profitti, invece di investire nei territori montani in cui sopravvive un’agricoltura integrata con il territorio e in grado di valorizzarlo se opportunamente potenziata. Queste son questioni locali, ma mi sembrava interessante portarle all’attenzione di tutti perchè rappresentano bene i processi in gioco: piccole realtà locali hanno individuato percorsi di sviluppo (e non di cerecita!) differenti, ma si scontrano con il potere politico dominante.
    Concordo con Igor: è oltremodo difficile scardinare il sistema puntando al centro, mentre è possibile farlo sfruttando i piccoli spazi di autonomia che ancora esistono. Per questo credo che le battaglie oggi possiamo condurle nei nostri Comuni e tanto più saranno battaglie parallele (e magari anche coordinate con scambio di esperienze), tanto più le vittorie locali permetteranno di contagiare anche altre comunità. E’ un processo senza dubbio lento, ma l’impatto reale che provoca nei territori può far crescere nuove consapevolezze che prima o poi dovranno trovare una rappresentazione anche in alto.

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