Se votassi negli USA, immagino che mi asterrei frequentemente dalle consultazioni elettorali: Repubblicani e Democratici, infatti, non sono altro che due fazioni dell’onnicomprensivo partito unico degli affari (il vero deep state, per usare un’espressione tanto abusata), per il quale non provo la benché minima simpatia. Mi esprimerei in favore di uno dei candidati solo se giudicassi molto più pericolosa una possibile affermazione dell’avversario.
Prendendo in considerazione gli ultimi quarant’anni, nel 1984 avrei votato per Walter Mondale contro Ronald Reagan, nel 1988 per Michael Dukakis contro George Bush sr, nel 2004 per John Kerry contro George Bush jr e oggi lo farei per Joe Biden contro Donald Trump. Le ragioni per cui un fautore della decrescita agisca così mi sembrano evidenti, ma forse è meglio spiegarle, dal momento che l’attuale presidente gode delle simpatie di tante persone che si dichiarano ecologiste, anticapitaliste e alternative al mainstream in genere.
Alla faccia della reputazione di ‘anti-sistema’, guadagnata con qualche chiacchiera sul protezionismo economico e tante frecciate anti-cinesi o contro membri dell’establishment a lui ostili, Trump incarna il business as usual più spinto e oltranzista. Ha ritirato gli USA dagli accordi sul clima, fatto a pezzi la legislazione ambientale e rilanciato le fonti fossili ridicolizzando ogni preoccupazione per il global warming e l’ecologia in generale; ha tagliato il welfare e promosso le manovre economiche più favorevoli ai super-ricchi della recente storia americana; ha smantellato le pur blande misure per regolamentare la finanza varate da Obama; ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele, cosa che non si erano sognate neppure le amministrazioni ritenute più legate alle ‘lobby sioniste’; alla faccia del sovranismo, ha interferito nella politica interna di tante nazioni, penso ad esempio all’ingerenza ai danni del Sud Africa per bloccare qualsiasi proposta di redistribuzione delle terre agricole in favore della popolazione nera per riparare alle ingiustizie dell’apartheid, mossa escogitata per ingraziarsi i suprematisti bianchi in patria.
Chi ne esalta il ruolo di mediatore tra Israele ed Emirati Arabi Uniti nel regolarizzare i reciproci rapporti diplomatici tralascia che ciò rientra nell’ottica della costruzione di un fronte sunnita pacificato con lo stato ebraico in funzione anti-Iran, nuovo nemico giurato a causa della crescente vicinanza con la Cina (come dimenticare la provocazione del 3 gennaio scorso, ossia l’uccisione tramite un drone teleguidato del generale iraniano Qasem Soleimani a Baghdad?); il piano di Trump per risolvere la questione palestinese rappresenta in realtà la pietra tombale per qualsiasi legittimo desiderio di autodeterminazione nei territori occupati. Come se non bastasse, è stato capace di proporre aumenti delle spese militari superiori persino alle richieste del Pentagono, provvedimento che dovrebbe far riflettere seriamente chi pensa che una sua conferma alla Casa Bianca assicuri maggiori garanzie per la pace nel mondo rispetto a una presidenza democratica. A questo quadro già abbastanza a tinte fosche, aggiungiamo la non-gestione della pandemia da Covid-19, che fa degli USA attualmente il paese con maggior numero di contagiati ed è costata oltre 236.000 morti.
Premesso ciò, non ho aspettative particolarmente elevate verso Biden, dovrei anzi turarmi non poco il naso per elargirgli il mio voto. Rappresenta sicuramente un segmento dell’élite preoccupato per i rischi che catastrofe climatica e acuirsi delle disuguaglianze possono produrre sulla tenuta generale del sistema, timoroso soprattutto per le istanze socialisteggianti e critiche verso il capitalismo che stanno emergendo persino all’interno del moderatissimo Partito Democratico. In tale ottica, in caso di elezione è lecito attendersi per lo meno qualche timido segnale di discontinuità: non il tanto decantato Green New Deal (ammesso e non concesso che un programma del genere sia realmente attuabile) o l’avvento della socialdemocrazia, ma qualche misura a favore dell’ambiente e delle classi più disagiate è probabile.
Ricordiamoci che, nel contesto di una nazione delle proporzioni degli USA, interventi contenuti possono sortire grandi effetti: un taglio di qualche percentuale delle emissioni di CO2, ad esempio, equivarrebbe alla decarbonizzazione totale di un paese come l’Olanda; riducendo del 5% il bilancio del Pentagono si possono ricavare circa 35 miliardi di dollari. Certo, nel groviglio drammatico di crisi in cui ci troviamo imbrigliati (ecologica, sociale, economica, ecc.) una politica dei piccoli (e limitati) passi non costituisce una soluzione efficace.
Una presidenza ideale dovrebbe semmai gestire il declino USA con la medesima, serena rassegnazione con cui la Repubblica di Venezia nel Seicento abbandonò qualsiasi pretesa egemonica internazionale, preferendo godersi i frutti di anni di predominio e vivendo così una decadenza dorata: dagli oltre 700 miliardi annualmente spesi per alimentare la sovradimensionata macchina militare a stelle e strisce si potrebbero reperire risorse preziose per ambiente, giustizia sociale, cultura e innovazione tecnologica. Abdicare da una leadership mondiale oramai irrecuperabile per trasformarsi in una sorta di gigantesca nazione scandinava non mi pare una prospettiva poi tanto orribile.
Ovviamente, una svolta simile è lontana anni luce dal coacervo di interessi che sostiene Biden, il cui scopo è puntellare lo status quo con una strategia quasi certamente più gattopardesca che realmente riformatrice. Però, in questo momento storico, con tutti gli innegabili e preoccupanti difetti, rappresenta l’unica alternativa al disastro più totale e ciò oggi mi basterebbe per un voto del tutto asettico, privo di entusiasmi e senza impegno per il futuro.
(Fonte immagine in evidenza: Fanpage)