Dossier migrazioni 1/Il ruolo dell’Italia in Africa

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Questo è il primo di una serie di articoli che intende ragionare sul fenomeno migrazioni. Saranno concentrati quasi esclusivamente sull’Africa, un fatto in linea di principio poco coerente con lo scopo in quanto, contrariamente ai luoghi comuni, la maggior parte dei migranti in Italia proviene da altre zone del pianeta. Tuttavia, forse intervenire sulle percezioni distorte è il modo migliore per riprendere contatto con la realtà.

In questa prima puntata cerchiamo di comprendere il ruolo del nostro paese nel continente africano.

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Prima di entrare nel merito, è bene ricordare che l’Italia, al pari di altre nazioni occidentali, è legata a doppio filo all’importazione di materie prime fondamentali per mantenere una società industriale avanzata. Nel 2017, tralasciando la voce di spesa più consistente (gli autoveicoli, per un totale di  33,3 miliardi di euro), compaiono merci molto significative:

Non vantando trascorsi coloniali paragonabili a quelli di altre nazioni europee, nell’immaginario di molti connazionali l’Italia non occupa un ruolo di primo piano nelle vicende africane. Nulla di più falso: nel 2016 il nostro paese è stato il terzo maggior investitore nel continente con 11,6 miliardi di dollari (di cui ben 8,1 da parte di ENI), dietro solo a Cina ed Emirati Arabi, mentre nel 2017 sono stati importati beni per 18,5 miliardi di euro, due in più rispetto a quelli dall’America Settentrionale.
Ecco la panoramica complessiva degli scambi Italia-Africa:

 

Trattasi della perfetta raffigurazione di un rapporto di tipo neocoloniale: il paese periferico esporta  principalmente materie prime grezze, quello centrale le lavora e le esporta a sua volta sotto forma di prodotti raffinati e macchinari; alla vecchia dominazione diretta si sostituisce la dipendenza tecnologica ed economica (e quindi per forza di cose politica).

ENI, SAIPEM e la grande caccia agli idrocarburi

Considerata la natura delle principali importazioni, non sorprende che la parte del leone sia ricoperta da ENI, la multinazionale dell’energia a maggioranza di capitale pubblico ma dietro alla quale si celano anche potenti interessi privati internazionali. Un’intera sezione del sito Web dell’azienda è dedicata alle attività in Africa, di gran lunga l’area geografica più importante nel comparto estrattivo per un totale di 3380 persone occupate (senza specificare però se siano tutti lavoratori locali); sono enfatizzati i progetti di collaborazione e sviluppo con le nazioni ospitanti, in stile Mattei.

Se le notizie riportate da ENI suonano assolutamente encombiabili, altre fonti descrivono una situazione meno idilliaca, ad esempio corruzioni multimilionarie in Repubblica del Congo e Nigeria nonché pratiche estrattive poco rispettose dell’ambiente e della salute delle popolazioni. Inoltre, a livello mediatico ENI sottolinea la gravità del global warming e la necessità della transizione alle rinnovabili, ma per ora tali preoccupazioni in Italia si sono limitate a una centrale fotovoltaica da 1MW in provincia di Pavia, mentre è costantemente impegnata in giro per il mondo alla ricerca di giacimenti di petrolio e gas, nonostante i consumi nazionali stiano progressivamente calando.

In una lettera aperta pubblicata sul Corriere della Sera, il professor Vincenzo Balzani ha puntato il dito su di un’altra impresa semipubblica impegnata nel settore idrocarburi, SAIPEM, reduce dalla sottoscrizione di contratti relativi all’estrazione di petrolio e metano in varie zone del globo, fra le quali Congo, Uganda e Nigeria: si denuncia l’evidente contraddizione tra la condotta dell’azienda e i solenni impegni presi dal suo maggiore azionista (lo stato) alla conferenza sul clima di Parigi COP 21 per una massiccia riduzione nell’uso dei combustibili fossili. Al di là della partecipazione pubblica maggioritaria, le strategie commerciali di queste aziende ‘ibride’ non sembrano differire da quelle delle corporation totalmente private.

Cemento e dighe

Le imprese di costruzione nostrane stanno facendo lauti affari in un mercato che rappresenta più del 20% del portafoglio commesse, con lavori che vedono impegnati quasi 200 cantieri per un valore superiore ai 20 miliardi di euro, concentrati in particolare in Etiopia (6 miliardi circa), Nigeria e Sud Africa (pressapoco un miliardo a testa), con CMC e Salini Impregilo principali protagoniste.

 

L’Africa ha sicuramente bisogno di infrastrutture, adatte però alle esigenze della popolazione e adeguate sul piano dell’impatto ambientale. Troppo spesso reti stradali e ferroviarie ricalcano, in puro stile coloniale, le esigenze logistiche delle aziende che estraggono ed esportano risorse; vengono poi riproposti progetti che già in altre parti del mondo si sono rivelati fallimentari, come quelli delle maxi-dighe, opere faraoniche la cui costruzione richiede miliardi di dollari, costringe migliaia di persone a sfollare e ha basse o nulle ricadute positive sulla popolazione locale; secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), in un contesto come quello africano, a bassa densità di popolazione, sarebbero più congeniali reti di piccole dimensioni e progetti di rinnovabili decentralizzate, molto meno onerosi. Salini Impregilo, come consultabile dal suo sito Web, ha partecipato alla realizzazione di numerosi sbarramenti fluviali in Africa, attualmente è coinvolta nel contestatissimo progetto della  Grand Ethiopian Renaissance Dam Project sul Nilo Azzurro (se costruita, sarà la più grande diga dell’intero continente), che ha suscitato le vibranti proteste egiziane, a causa dei gravi effetti che può comportare sulla portata delle acque del Nilo (si paventa il rischio di perdere fino al 60% delle terre coltivate).

Land grabbing

Se le attività precedentemente descritte trovano qualche eco sui media, passa decisamente sotto silenzio la complicità italiana al fenomeno del land grabbing, ossia l’accaparramento di terre agricole nei paesi del sud del mondo. Stando ai dati più aggiornati di Land Matrix, soggetti riconducibili al nostro paese hanno acquistato in Africa oltre 1 milione di ettari di terreni, una superficie paragonabile a quella dell’Abruzzo.

Armi

Se finora si è parlato esclusivamente di importazioni, è arrivato il momento di trattare della forma di esportazione sicuramente più scabrosa, quella della armi. Grazie alle legge 185 del 1990, la presidenza del consiglio annualmente deve relazionare sulle operazioni di controllo riguardo a importazioni, esportazioni e transito delle armi; la normativa ne vieta inoltre la vendita quando in contrasto con i fondamentali interessi della sicurezza del nostro Stato e della lotta contro il terrorismo, nonché quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali. Secondo la relazione del 2017, ecco gli acquirenti delle armi italiane distribuiti per area geografica e singole nazioni africane e mediorientali:

Questo è un quadro del mercato legale, è noto però che quello ‘non ufficiale’, specialmente per quanto attiene alle armi leggere, è molto fiorente. Diversi stati che rientrano nella categoria ‘Africa settentrionale-Medio Oriente’ (cioé i maggiori compratori), sono sospettati di compiere triangolazioni commerciali in favore di paesi nella black list o formazioni paramilitari. Ad esempio, è abbastanza singolare che la piccola nazione degli Emirati Arabi Uniti abbia speso in 6 anni, solo con l’Italia, più di 900 milioni di euro in armamenti (di cui ben 304 nel 2014): nel 2017, quattro parlamentari del M5S hanno rivolto un’interpellanza al ministero degli esteri sulle notizie riguardanti la cessione di elicotteri, blindati e altro materiale dallo stato arabo alle milizie libiche di opposizione al governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Non meno sospetti sono gli scambi intercorsi nel medesimo periodo per oltre un miliardo di euro con l’Arabia Saudita, da sempre sospettata di finanziare il terrorismo islamista.

Tra i fatti di cronaca accertati a livello giudiziario, ricordiamo la condanna a quattro anni di reclusione comminata nel 2015 all’ex consigliere regionale della Lombardia Pier Gianni Prosperini, reo di aver favorito il rifornimento di armi e munizioni al dittatore eritreo Isaias Afewerki.

Impronta ecologica

L’impronta ecologica è la quantità di territorio fertile necessaria per produrre le risorse e assorbire i rifiuti e le emissioni generati dai consumi di un popolo. Sono oramai più di cinquant’anni che la popolazione italiana vive al di sopra della propria biocapacità, dopo lo scoppio della crisi del 2008 la pressione è leggermenta calata ma parliamo comunque di un’impronta quattro volte e mezzo eccessiva.

Se tutti gli abitanti del mondo adottasero lo stile di vita italiano, sarebbero necessari 2,5 pianeti terra.

Ma che significa tutto ciò al di là di freddi numeri? Essenzialmente due cose: che si stanno sovrasfruttando risorse rinnovabili oltre il tasso di rigenerazione (trasformandole di fatto in non rinnovabili) e che si sta attingendo dalla biocapacità di altre regioni del globo. Finché si tratta di un fenomeno contenuto non è preoccupante, ma un debito ecologico da più di due di pianeti Terra suona come una dichiarazione di guerra al mondo ed è certamente un atto che provoca serie conseguenze, in Africa come altrove.

Tirando le somme

Senza differenziarsi in questo dal resto dell’Occidente (e dalla Cina), la condotta del nostro paese in Africa tende ad accentuare le problematiche che provocano le migrazioni:

  • è evidente lo scambio commerciale di stampo neocoloniale volto a mantenere la distanza gerarchica centro-periferia;
  • le aziende italiane impiegano un numero relativamente modesto di forza lavoro locale e sono impegnate soprattutto nell’export di materie prime, attività che non favorisce un reale sviluppo. In particolare, non avviene alcun concreto trasferimento di know-how: negli anni Cinquanta l’Egitto aveva bisogno di ENI per sfruttare le riserve di metano e oggi di nuovo per attingere al giacimento di Zohr, forse la riserva più grande al mondo; Impregilo nacque nel 1955 da un patto tra più aziende per la costruzione della diga di Kariba sul fiume Zambesi e ancora oggi è tra le protagoniste indiscusse in Africa nel settore insieme ad altre compagnie occidentali e cinesi, con i locali ridotti a comprimari;
  • l’imprenditoria nostrana appoggia la realizzazione di lucrose grandi opere che stuzzicano l’ego (e talvolta anche i conti corrente) dei governanti africani ma che recano pochi o nulli vantaggi alle popolazioni rurali, che si vedono anzi estremamente danneggiate da maxi sbarramenti fluviali e massicce colate di cemento. Tali opere inoltre gravano sui già malmessi bilanci degli stati africani (vedi prossima puntata), a danno dei programmi di assistenza e promozione sociale;
  • le ingenti esportazioni dichiarate di armi in Africa e Medio Oriente lasciano sospettare che parte di esse finisca in mani sbagliate e che forse esista addirittura un flusso parallelo illegale;
  • intrattenere rapporti economici con paesi governati da regimi di chiare tendenze autoritarie (è il caso di Algeria, Ciad, Congo ed Etiopia) o contrassegnati da gravi disordini interni (vedi la Nigeria, paese più pericoloso del continente sebbene ufficialmente non in guerra) significa appoggiare implicitamente una fazione contro le altre, con tutto ciò che può comportare nel causare rifugiati politici e profughi;
  • stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità perché stiamo sfruttando anche quelle di altri.

Forse è opportuno chiudere rispondendo anticipatamente alle critiche dei buontemponi di turno che, leggendo contributi come questo, se ne escono con commenti assurdi del tipo “allora sei per l’immigrazione indiscriminata?” e stupidaggini analoghe. Simili accuse andrebbero semmai rispedite al mittente: desiderare la botte piena di partecipare alla globalizzazione in posizione privilegiata e la moglie ubriaca di non subirne le conseguenze negative è un atteggiamento infantile che, sul mommento, può sembrare realistico adottando una dose massiccia di repressione e qualche vago ‘aiuto a casa loro’, ma è fatalmente destinato al disastro.

Fonti non esplicitamente linkate nell’articolo:

 

 

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

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