Diritto di replica #1

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Luca Simonetti

(qui l’articolo oggetto di commento)

Allora, come promesso rispondo qui di seguito alle osservazioni di DFSN sul mio libro. Siccome però il tempo a disposizione è breve, e lo stesso lavoro di DFSN non è ancora stato tutto pubblicato online, andrò un po’ per volta.

Innanzitutto voglio ringraziare DFSN perché (come del resto avevo auspicato io stesso tempo fa, in risposta a un post di Giussani) ha deciso di mettere per iscritto le proprie critiche, invece di limitarsi alla critica più semplice di tutte, che è il silenzio. Inoltre un confronto con dei seguaci della decrescita mi è particolarmente utile in quanto mi consente di chiarire meglio un pensiero che magari a me sembra chiaro e non problematico, ma può non esserlo affatto. Lo stesso, naturalmente, vale per DFSN. Quindi, ben venga il dialogo.

Mi fa anche piacere che Giussani dica di condividere varie delle cose che scrivo, e in particolare che sia stata fin dall’inizio opinione di DFSN che lo spreco sia questione non di morale, bensì di politica. Questo è un punto davvero cruciale, rispetto al quale quasi tutto il resto diventa secondario. Mi sembra una buona base di partenza per un dialogo fruttuoso.

Mi fa meno piacere invece che il discorso di DFSN si concentri sulla questione dei limiti della crescita, che – contrariamente a quel che molti credono – è in realtà del tutto secondaria. Infatti, anche nel caso che il modello World3 fosse corretto (e secondo me ed altri non lo è) e che i dati che vi vengono inseriti fossero anch’essi corretti (e ad oggi non lo sono stati), continuerebbero a non derivarne comunque tutte le conseguenze “radicali” che molti sostenitori della decrescita vorrebbero farne discendere. Avrei trovato molto più interessante, invece, approfondire la distinzione merci/beni di Pallante, la teoria della natura di Shiva, la teoria dei bisogni di Illich e dei suoi discepoli, la teoria di Latouche dell’economia. Ma magari ricapiterà l’occasione.

Mi consentirete altresì di rilevare, via via, le inesattezze, le forzature o le incomprensioni che riscontrerò nel vostro modo di riportare le mie parole. Ad esempio, quando Giussani scrive “per tranquillizzare il suo autore sul pericolo che la decrescita presenti gli ‘elementi culturali necessari per la nascita del fascismo’ (pag. 229) oppure che i suoi sostenitori siano ‘grotteschi e velleitari’ alla maniera dei primi adepti del nazismo (pag. 223)” sta facendo un montaggio un po’ tendenzioso di quel che ho scritto: ad essere (o meglio, a sembrare) grotteschi e velleitari erano i partecipanti ai primi raduni nazisti, non i decrescenti. Certo, non ho difficoltà a riconoscere che, quando il signor Mercalli (o la signora Savioli, o il signor Schillaci, e potrei continuare molto a lungo) scrive dei suoi concittadini che sarebbero “buoi”, con “pochi neuroni”, privi di capacità critica, intontiti dalla TV, una “mandria cieca e sorda”, io un po’ mi preoccupo: ma magari è che faccio parte anch’io della mandria cieca e sorda, eh (o forse non ho la sana dote di limitarmi a farci su una bella risata e dimenticarmene). E quanto poi agli elementi culturali necessari per la nascita del fascismo, notate che non li ascrivo affatto alla decrescita, bensì a “tante posizioni contemporanee” (p. 229), tra le quali rientra anche la decrescita. La decrescita non è certo l’unica di queste correnti contemporanee e, mi duole dirlo, neppure la più importante; ma di certo, anche se mostra di molti di quegli elementi culturali, non li possiede tutti quanti insieme: non è la decrescita l’incunabolo di un nuovo, futuribile fascismo. Insomma, va bene accusarmi di faziosità, ma vedete di non essere faziosi voi per primi.

1) La definizione di decrescita. Veniamo adesso al primo appunto reale che mi muovete, cioè che a) inserirei nella decrescita autori (come Zerzan o Fabris) che in realtà sarebbero sempre stati critici accaniti della decrescita, laddove b) avrei omesso di considerare autori ben più significativi, come Bardi o “Richard Eisenberg” (??? forse volevate dire Richard Heinberg?).

Sul punto a). A me pare in realtà di aver spiegato diffusamente cosa intendo per decrescita: un insieme di teorie poco o nulla coerenti fra loro, che è anche difficile classificare (come dimostra il tentativo di classificazione di Van den Bergh, che riporto all’inizio del libro). Ho chiarito ripetutamente che non tutte le tesi di cui tratto sono condivise da tutti i “decrescenti”, e l’ho fatto anche a proposito dei primitivisti. Sono anche a conoscenza delle critiche (o almeno di alcune critiche) che alcuni autori della decrescita muovono ad altri. Ciò non vuol dire però, ovviamente, che certi tratti comuni non esistano; anzi è proprio questa la tesi del mio libro. Chiarito questo, è senz’altro probabile che Zerzan o Manicardi non si definiscano decrescenti, anzi che si considerino degli oppositori radicali della decrescita (e viceversa): tuttavia, (i) da un lato, non c’è dubbio che il primitivismo, così come formulato da questi autori, rientri in alcune delle definizioni comunemente accettate della decrescita (visto che anche questi autori propugnano la riduzione dei redditi e dei consumi, la limitazione dell’uso delle tecnologie e delle scienze, il ritorno alla vita in comunità più piccole e autosufficienti, ecc.) e (ii) dall’altro lato, se autori come Savioli e Schillaci, che di sicuro si considerano decrescenti (e i cui libri sono pubblicati e prefati da Pallante medesimo) condividono molte delle teorie di questi autori, come del resto fa persino Latouche, allora non riesco a capire per quale ragione non dovrei ricomprendere anche loro – sia pure con le loro specificità, che non ho sottaciuto – nell’ambito della decrescita. In ultima analisi, ritengo più importante quel che un autore dice rispetto a ciò che è convinto di dire.

Sul punto b). A parte che Bardi lo cito anch’io, anche se poche volte (il suo libro è fondamentalmente un testo compilativo, quindi utile ma non cruciale), mi chiedo in effetti perché mai sarei tenuto a menzionare gente come Bardi o Heinberg (che, correggetemi se sbaglio, mai si sono qualificati come decrescenti) mentre non potrei farlo per Fabris, che ha formulato alcune teorie assai simili a quelle di Latouche (e che comunque ho citato solo pochissime volte, e mai come un portavoce della decrescita). D’altra parte, poi, ho anche citato ben poco due autori come Peter Victor e Tim Jackson, che pure sono senz’altro due teorici della decrescita. Il che si spiega con molte ragioni: un po’ per motivi di spazio, un po’ perché da noi sono poco noti (sfortunatamente), e un po’ perché – almeno nel caso di Victor – personalmente sono d’accordo con moltissime delle cose che sostiene, solo che non vedo in che modo le sue proposte (alcune condivisibili, altre no) possano avere una qualunque valenza “rivoluzionaria”: sono tutte perfettamente compatibili con la società attuale. E l’ho anche scritto (a p. 151).

2) La legittimità della critica storica. Qui c’è un passaggio che devo citare per intero: “[meglio] dimenticarsi che la parola ‘decrescita’ esiste solo dal 2002 e cercarne i precursori in pensatori della destra di inizio XX secolo, come Evola e Prezzolini, a cui nessun decrescente si è mai sentito accomunato, per quanto ne sappia.” In altre parole, il fatto che la parola “decrescita” sia nata negli anni Duemila impedirebbe di ricercare i precursori della decrescita (intesa come cosa, non come parola che la designa); e bisogna anche stare molto attenti a non attribuire ai decrescenti precursori che essi non hanno mai considerato affini alle proprie tematiche. Entrambe le pretese qui esposte mi sembrano, per dirla eufemisticamente, singolari. Anche la parola “fascismo” è nata solo nel primo dopoguerra, ma questo certo non ha impedito, e non può impedire, allo studioso che desideri farlo di ricercare gli antecedenti teorici del fascismo. Né d’altronde un seguace del fascismo se la potrebbe prendere a male per esser accostato a un precursore come Joseph de Maistre, anche se questo accostamento è arrivato ben dopo la caduta del fascismo e verosimilmente nessun fascista “si è mai sentito accomunato” a de Maistre. Ancora una volta, quel che conta non è quel che si crede di aver detto, ma quel che si è detto; non l’autorappresentazione, ma la realtà. Vale per me, ma vale anche per la decrescita.

3) Il PIL e Pallante. Qui in sostanza DFSN mi accusa di aver usato cavillosità estrema e ingiusta, di voler “salvare capra e cavoli” e insomma di scorrettezza e acrobazia nei confronti del povero Pallante, quando questi afferma che i beni autoprodotti non rientrano nel PIL.

Bene, qui devo fare una premessa. In origine, il libro conteneva altri tre capitoli in cui parlavo del PIL, del suo significato, degli equivoci che spesso genera, e dei suoi numerosi difetti. Purtroppo, esigenze di brevità (non mie, ma dell’editore) hanno imposto di espungere questi capitoli dalla versione finale. Il che è un peccato, perché, come dimostra la discussione che su questo punto fa DFSN, alcuni passaggi logici sono saltati e non tutti sono in grado di interpolarli. Quindi, prendiamola molto lentamente; e scusate per la lunghezza.

L’acronimo “PIL” designa due cose diverse: a) l’insieme fisico dei beni e servizi prodotti in un dato periodo di tempo in un dato paese, ma anche b) il valore monetario di a). L’insieme di cui ad a) costituisce il reddito, il numero espresso da b) ne è solo la misura. Sfortunatamente, la parola “PIL” designa entrambe le cose, il che di norma non accade in casi analoghi (la misura dell’altezza di una montagna non si chiama come la montagna: la montagna è fatta di pietra, non di metri, e a nessuno verrebbe mai in mente di scambiare le due cose). Questo genera parecchie confusioni.

Ora, la ragione per cui il PIL-a) viene misurato col denaro (il PIL-b) è ben nota, e assai ragionevole: siccome non si possono sommare mele, pere e gioielli (e viaggi aerei, cure mediche, istruzione ecc.), cioè le cose che costituiscono il reddito, occorre un medio che renda possibile la somma, e questo medio è il denaro. E siccome la stragrande maggioranza dei beni e servizi vengono per l’appunto scambiati con del denaro, ecco che il PIL-b) finisce per misurare quasi solo i beni che vengono scambiati sul mercato. Ma quest’affermazione necessita di due importanti chiarimenti.

In primo luogo, esistono dappertutto beni e servizi che il PIL-b) non misura al prezzo di scambio, per l’ottima ragione che essi non vengono scambiati ad alcun prezzo. DFSN ricorda correttamente il caso degli immobili abitati dal proprietario; ma ci sono molti altri esempi (strano che Gallino non li menzioni…) Per esempio, molti dei servizi pubblici, erogati gratuitamente agli utenti, vengono valutati a un prezzo figurativo. E tutti i correttivi che vengono correntemente utilizzati per tener conto del deprezzamento di alcuni asset cruciali, come per es. l’ambiente o certe risorse non rinnovabili, si basano anch’essi su stime (i c.d. shadow prices), non sui prezzi.

In secondo luogo, il PIL-b) ha notoriamente molti difetti. Uno di questi, e non dei minori, è precisamente quello di non tener conto dell’autoconsumo, cioè dei beni e servizi che non vengono scambiati sul mercato: nei Paesi sviluppati, si tratta principalmente di alcuni servizi alle persone, in particolare di quelli resi dalle casalinghe. Il PIL-b) non li prende in considerazione, per molte ragioni soprattutto pratiche (su quelle teoriche non mi dilungo perché mi sembrano superate almeno a partire dal momento in cui i servizi, a differenza di quel che pensavano gli economisti classici, sono stati ricompresi nel reddito): da un lato, farne una stima accurata è difficile (ma non impossibile: è, del resto, quel che gli storici dell’economia fanno continuamente per determinare il reddito nazionale del passato, quando buona parte dei beni e servizi prodotti non passava attraverso il mercato), dall’altro, è in effetti vero che si tratta di una porzione minoritaria del reddito nazionale. Certo, se fossero invece una parte preponderante del reddito, occorrerebbe stimarli, visto che altrimenti il PIL-b) finirebbe per non dare un’idea nemmeno approssimativamente corretta del PIL-a): ma questo, oggi, in linea di massima non accade.

Torniamo adesso a Pallante. Se si limitasse a dire che il PIL (cioè il PIL-b) non tiene conto dei beni autoprodotti e autoconsumati, avrebbe senz’altro ragione. Ma ahilui, Pallante non si ferma qui: lui aggiunge che se accresco l’autoproduzione e l’autoconsumo (i beni-non-merci della sua teoria) sto riducendo il PIL. Qui fate attenzione: è vero che se autoproduco e autoconsumo un pomodoro potrei1 far decrescere il PIL-b) del valore del pomodoro (che non ho comprato dal contadino ma mi sono coltivato da solo), ma di certo non sto facendo decrescere il PIL-a) (che invece è aumentato, precisamente di un pomodoro). Di cosa parla qui Pallante, del PIL-b) (la misura) o del PIL-a) (il reddito)? Dell’Everest fatto di metri, o di quello fatto di pietra?

Ad essere rilevante, a tutti i fini – non solo economici – è il PIL-a), non il PIL-b). Mi pare del resto di ricordare – correggetemi se sbaglio – che moltissimi decrescenti, incluso Pallante, ironizzano sul PIL-b) proprio perché questo non tiene conto dei beni e servizi autoprodotti. E’ un po’ strano che le stesse persone decidano improvvisamente di guardare al PIL-b) e credano che solo le variazioni di quest’ultimo siano importanti, e non quelle del PIL-a). Il che è ancor più bizzarro se si considera che i decrescenti hanno delle preoccupazioni (in gran parte fondate) circa l’inquinamento, il consumo di terra, l’esaurimento delle risorse, che chiaramente non hanno nulla a che fare col PIL-b), ma che hanno semmai a che fare col PIL-a). Insomma, il punto è: cos’è che conta realmente, la misura o l’entità da misurare? Di cosa è fatto l’Everest, di metri (8.848) o di pietra? E il PIL di cosa è fatto, di soldi o di beni e servizi? Se la preoccupazione di Pallante e di DFSN2 è l’impatto ambientale della produzione del reddito, allora mi spiegate cosa diavolo cambia, da questo punto di vista, se del denaro passa da una mano a un’altra assieme al pomodoro o se a passare da una mano all’altra è solo il pomodoro?

E il bello è che, dopo aver allegramente sterzato dalla produzione materiale al piano del suo valore in denaro, dal piano concreto a quello astratto, mi tacciate pure di Donferrantismo!

4) Il significato della critica ai Limiti della crescita (d’ora in avanti, “LTG”) Qui mi duole dover smentire quanto avete scritto. Non è affatto vero che “le contestazioni mosse alla sobrietà, al riuso, all’agricoltura tradizionale, al dono, al comunitarismo, alla produzione e alla critica del consumismo, si basano infatti sulla ‘dimostrazione’ operata in quella sezione, ossia che la fissazione dei decrescenti ‘a prendere per necessità ineluttabili cose che sono, al più, dei rischi, raggiunge livelli parossistici’”. I capitoli che seguono, nel mio libro, non si basano in nessun modo sul capitolo su LTG (che tra l’altro, per ragioni che credevo di aver spiegato ma comunque cercherò di chiarire ulteriormente, è del tutto marginale e non è affatto cruciale né pro né contro la decrescita). Le critiche che muovo a sobrietà, riuso, agricoltura di sussistenza, dono ecc. ecc. si fondano esclusivamente su debolezze, contraddizioni, errori propri di quelle dottrine, e solo di esse. Possono essere critiche fondate o meno, ma non dipendono affatto dalle obiezioni che muovo a LTG.

Se poi intendete sostenere che, se la teoria di LTG fosse vera, allora ne seguirebbe la verità di tutte le altre (o almeno di gran parte delle) tesi sostenute dalla decrescita, vi faccio subito notare che questa è una vostra tesi, ma non la mia, e io la ritengo infondata: in ogni caso, a voi la prova.

Il resto a una prossima puntata.

1 Potrei, ma la cosa non è per nulla scontata.
2 Come si evince da quel che scrivete poco dopo, quando richiamate “il fatto concreto – ossia il diverso ‘zaino ecologico’ tra insalata autoprodotta e venduta in busta dalla grande distribuzione, ad esempio”. Ma il diverso “zaino ecologico” non dipende mica dal fatto che i soldi passino da una mano all’altra, ma dipenderà semmai dalle diverse tecniche produttive impiegate! Questa è una delle molte ragioni per cui la distinzione pallantesca merci/beni non sta in piedi.

Fonte immagine in evidenza: Wikipedia

18 Commenti

  1. Volevo iniziare ringraziandoti (anche per il refuso Heisenberg/Heinberg!) e specificando che i toni polemici presenti nella decostruzione sono in risposta a quelli di Contro la decrescita, e per questo ho deciso di mantenerli: alla fine sarà il tuo libro a rimanere, mentre qualsiasi scambio proficuo alla lunga qui si perderà nel mare magnum del Web.
    Piccolo preambolo: la versione originaria del libro, con una lunga disquizione sul PIL e un capitolo sull’entropia, era sicuramente migliore di quella dove sono stati inseriti capitoli quali ‘I primitivisti, ovvero com’era bella la vita nella palafitte’, ‘come si stava meglio quando si stava peggio’: a meno che ovviamente non dovesse passare l’equazione decrescita=primitivismo. Non se sia stata una scelta tua o di Longanesi, sicuramente si è trattato di una scelta pessima.

    Per il resto, vedo che tu vuoi buttare tutto il discorso sulla doxa. Nella tua versione della decrescita i primitivisti ne fanno parte (anche se la detestano), ritieni che il primitivismo sia stato ispirato dalla decrescita (anche se è stato teorizzato una trentina di anni prima, quindi al massimo sarebbe vero il contrario)? Pensi che Fabris sia un decrescente malgrado li abbia riempiti di epiteti poco gentili in tutto il suo libro? Vuoi accomunare come ‘primitivisti’ antropologi come Sahlins e gente come Zerzan che vuole proprio tornare all’era delle caverne? E’ la tua opinione personale, non possiamo farci nulla. Così come la colpa di Pallante è sostanzialmente di occuparsi del PIL ‘realmente esistente’ (cioé quello che chiami PIL-b e che sinceramente ho trovato nei manuali di economia come PIL e basta: anche questa volta non hai citato alcuna fonte per la tua disquisizione, come avvocato non sei un auctoritas in materia economica, se mi permetti).
    Però ripeto quanto ho affermato nel mio articolo: queste dispute mi interessano poco. Mi interessa invece quando vuoi trasformare anche il discorso su LTG in fatto di doxa. Il tuo ragionamento è questo: io ho le mie fonti, voi le vostre, ognuno ha la sua tesi. No, qui non è più materia di doxa ma di sophia, e non si può più agire da avvocati.
    Precisazione molto importante: noi non ci permetteremmo mai di dire di aver scoperto la verità (che scopriremo solo vivendo). Quello che ci permettiamo di dire è che la tua critica di LTG e il modo in cui affronti il problema ecologico in genere è completamente privo di qualsiasi rigore scientifico, che è una cosa ben diversa. Se il futuro ti darà ragione (e ti assicuro che come decrescenti, viste le fosche prospettive, ce lo auguriamo vivamente) non sarà certo per le ragioni che esponi in Contro la decrescita, così come certi sacerdoti egiziani indovivano le eclissi non certo per il moro modello astronomico.
    Quanto al punto 4), si smonta facilmente con questo paragone. Se fossimo clienti di un transatlantico e causa un naufragio dovessimo salvarci tramite piccole scialuppe, non avrebbe molto senso lamentarsi del fatto che non sono yacht, perché sarebbero tutto quello che abbiamo.
    La crescita economica ha permesso la nascita dell’agricoltura industriale, il welfare state, la società dei consumi: se dovesse verificarsi il tracollo economico previsto in LTG, tutti questi subirebbero un brusco ridimensionamento e sobrietà, riuso, agricoltura di sussistenza, dono sarebbero l’unica al alternativa al darwinismo sociale. Nel tuo libro è evidente che si ragiona in questi termini: dopo aver ‘confutato’ LTG, poni le questioni dono vs economia commerciale, comunitarismo vs Welfare state, agricoltura sussitenza vs agricoltura industriale dando per scontato che il secondo componente di ciascun binomio sia perpetuabile senza problemi in futuro. Per tali ragioni la questione su LTG (ma non solo: anche quella di aver ridotto il problema ecologico solo a quello) è centrale e collegata a gran parte delle altre (se poi per la Shiva la natura è madre amorevole e per te matrigna penso che interessi poco). Quindi la veridicità di LTG costringerebbe tutti a ragionare in termini di decrescita necessaria: la nostra versione, la decrescita felice, è una di queste opzioni. Ma il business as usual non sarebbe più un’opzione possibile.

    Ultimissima cosa: chiedi alle altre correnti con ‘gli elementi culturali necessari alla nascita del fascismo’ di darti altrettanto spazio e diritto di replica. Poi ne riparliamo.

  2. Dunque, rispondo qua e più tardi al post di Uboldi, ma solo questa volta (non voglio generare nessun flame) e solo per chiarire la mia posizione.

    Non mi preoccupano affatto i toni polemici. Invece mi incuriosiscono le inversioni (o per dirla in freudiano, le proiezioni, cioè l’attribuzione agli interlocutori di atteggiamenti che sono invece propri). Nel tuo commento ce ne sono un paio di interessanti.

    Primo esempio. Scrivi: “Mi interessa invece quando vuoi trasformare anche il discorso su LTG in fatto di doxa. Il tuo ragionamento è questo: io ho le mie fonti, voi le vostre, ognuno ha la sua tesi. No, qui non è più materia di doxa ma di sophia, e non si può più agire da avvocati.” Questo è davvero curioso. Non so ancora se le vostre obiezioni al mio capitolo su LTG cambieranno natura rispetto a quelle che avete pubblicato finora, ma per adesso si limitano in sostanza a una critica delle mie fonti: qui dovevi citare Tizio, qua Caio o Sempronio non dicono quel che dici tu… Siete voi, che riducete tutto a un confronto di fonti, che ne fate una questione di “doxa”, mica io! Le mie critiche le ho chiaramente esposte e argomentate: World 3 è un modello sbagliato, fondamentalmente per tre ragioni spiegate nel libro (usa variabili troppo vaste e eterogenee; gli effetti di retroazione sono troppo rigidi e immotivati, oltre che in parte già chiaramente contraddetti dalla storia; non incorpora prezzi e costi). Se qualcuno la pensa come me, mi fa piacere; se no, pazienza. Resto ancora in fiduciosa attesa di una risposta a quelle critiche, anziché alla scelta delle mie citazioni.

    Secondo esempio. Scrivi: “Così come la colpa di Pallante è sostanzialmente di occuparsi del PIL ‘realmente esistente’ (cioé quello che chiami PIL-b e che sinceramente ho trovato nei manuali di economia come PIL e basta: anche questa volta non hai citato alcuna fonte per la tua disquisizione, come avvocato non sei un auctoritas in materia economica, se mi permetti).” Anche qui è evidente l’inversione: manco voi di DFSN siete auctoritates in materia economica: dove stanno le vostre citazioni? Perché le fonti le dovrei citare solo io? E Pallante, dal suo canto, forse che cita qualche fonte? Questo poi è tanto più paradossale in quanto quel che sto dicendo è una cosa elementare, che davvero trovate in qualsiasi manuale di economia, o se è per questo potrà dirvi qualsiasi economista a cui vogliate chieder lumi. Ad ogni modo, eccoti qualche citazione (così siete contenti). Puoi cominciare da C.L.Schultze, “Il reddito nazionale”, Bologna, Il Mulino, 1975, p. 38 ss., e magari continuare con D.Coyle, “GDP: A Brief but Affectionate History”, Princeton Un. Press, 2014, p. 24 ss.; o un normale manuale di economia come G.N.Mankiw, “Macroeconomia”, Bologna, Zanichelli, 2004, p. 14 ss.; oppure D.A.Moss, “A Concise Guide to Macroeconomics”, Harvard Business School Press, 2007, p. 7 ss. Da tutti questi testi scoprirete – oh sorpresa! oh miracolo! – che il PIL, cioè il prodotto interno lordo, misura … il prodotto interno lordo, cioè per l’appunto il PIL. Gli economisti sono ovviamente in grado di distinguere fra il reddito prodotto, che è fatto di cose, e la sua misura, che è fatta di denaro; ma nel linguaggio corrente le due cose si confondono. In ogni caso: no problem. Ammetti tu stesso che Pallante parla del PIL-b), cioè della misura del reddito, non del reddito: per me va benone, è proprio quel che volevo dimostrare fin dall’inizio. La teoria di Pallante, perciò, per come entrambi la intendiamo, equivale a sostenere che se riduco la misura del reddito, anche se quest’ultimo rimane tale e quale (o magari aumenta), sto perciò stesso facendo chissà cosa di significativo e utile per l’ambiente. E’ una teoria che non è nemmeno errata (“it’s not even wrong”, come avrebbe detto Wolfgang Pauli), è assurda. Se l’anno scorso ho prodotto dieci pomodori e li ho venduti e quest’anno invece di venderli me li mangio tutti quanti, ho forse ridotto il mio reddito (o il reddito nazionale)? No di certo. Ho ridotto solo la misura del mio reddito. Cambia qualcosa dal punto di vista dell’ambiente, delle risorse, dell’inquinamento? Certamente no, visto che tutte queste cose hanno a che fare con la produzione fisica (che è rimasta tale e quale), mica col denaro che viene scambiato.

    Quanto all’equazione decrescita=primitivismo: non so più come spiegarlo, ma ci riprovo perché vedessi mai che l’evidenza non finisca con l’imporsi. Non c’è nessuna equiparazione del genere, né nel mio libro, né nelle mie intenzioni, né tantomeno in quelle dell’editore (che io non so quali fossero e non capisco neppure come faccia tu a divinarle). Fra tutte le teorie di cui parlo nel libro vi sono moltissimi elementi comuni, il che però ovviamente non vuol dire che tutti i decrescenti siano primitivisti. Dopodiché: sarà pure vero che Zerzan vuole tornare all’era delle caverne e i decrescenti no, e che gli uni e gli altri si criticano reciprocamente, ma se Schillaci (che, faccio notare, scrive libri pubblicati da Pallante) sostiene che dovremmo recuperare i valori e le istituzioni del Paleolitico, parla con ammirazione dell’”era assiale” e dei cacciatori-raccoglitori che erano il fiore di ogni virtù, e ripete tutte le stupidaggini sui Paleolitici raccontate dai vari Zerzan e Manicardi; se Latouche (che non credo abbia bisogno della vostra patente per esser definito un decrescente) scrive che i Paleolitici vivevano nell’unica vera società dell’abbondanza che sia mai esistita, richiamandosi per l’appunto a Sahlins (il richiamo lo fa lui, mica io); se lo stesso mi ripetono millanta altri decrescenti – mi pare che il tuo appunto sia abbondantemente fuori bersaglio. Infine, Fabris avrà pure criticato i decrescenti, ma su moltissime cose molto importanti la pensa esattamente come Latouche, il che a me interessa molto più di quale sia o non sia la casella giusta in cui inserirlo.

    Infine, un ultimo punto che merita di essere chiarito. Scrivi: “Quanto al punto 4), si smonta facilmente con questo paragone. Se fossimo clienti di un transatlantico e causa un naufragio dovessimo salvarci tramite piccole scialuppe, non avrebbe molto senso lamentarsi del fatto che non sono yacht, perché sarebbero tutto quello che abbiamo.” Magari fosse così. Per continuare nella stessa metafora, sarebbe come se qualcuno sul transatlantico proponesse di mettersi in salvo su scialuppe fatte vistosamente male, che affonderebbero dopo pochi metri: meglio evitare di usarle, e impiegare invece il sartiame della nave, che è grande e fatta di buon legno, per costruire qualche zattera capace di tenere il mare. Fuor di metafora: se anche World 3 fosse non solo corretto (non lo è) ma anche fornito di dati esatti (finora non è successo), da questo non discenderebbe affatto la verità di errori e/o bestialità come la distinzione merci/beni di Pallante, la “decolonizzazione dell’immaginario” di Latouche, la sobrietà di Galdo o Gesualdi, la “civiltà contadina” di Savioli, e così via. Anche in mezzo all’Apocalissi, le stupidaggini restano sempre stupidaggini.

    Se ci riesco, dopo le feste vado avanti con le risposte su LTG. Buone feste intanto!

    • Innanzitutto volevo dirti che sulla differenza merci/beni ti ha risposto Pallante stesso, commentando una recensione positiva di Contro la decrescita de Il sole 24 ore: http://decrescitafelice.it/2014/12/toto-delfina-e-i-libri-contro-la-decrescita/. Così puoi confrontarti direttamente con lui.

      Ti ringrazio per i riferimenti bibliografici, dove troverò spiegata la differenza tra pil-a e pil-b nei termini da te presentati. Per altro io il riferimento bibliografico, cioè il dizionario economico della Treccani, l’ho riportato: mi raccomando avvisali che si sono sbagliati, che quello è il pil-b. Ma non solo (altro che Pallante!), è pieno di gente che sbaglia ed è molto più in alto nella scala sociale. Leggi un po’ qua:

      “A partire da queste premesse il Rapporto avverte che il PIL (o GDP), il principale indicatore economico comunemente in uso a livello internazionale, offre una rappresentazione dell’economia parziale e fuorviante. Parziale perché misura la sola produzione di mercato, quella cioè oggetto di scambio,trascurando il valore dei beni e servizi che non hanno prezzo”

      “La forza del PIL, paradossalmente, risiede nei suoi limiti: l’adozione dei prezzi e del mercato come unico criterio di misurazione oggettivo, condiviso e comprensibile.”

      Tu scrivi a pag.24 di Contro la decrescita: “non è vero… che gli ingorghi stradali facciano crescere il PIL”, senti invece cosa c’è scritto nella fonte che sto citando: “Ad esempio, gli ingorghi di traffico possono aumentare il PIL a causa del maggior consumo di benzina”.

      Sai di che fonte si tratta? Della versione italiana fornita dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile del Rapporto siglato dalla Commissione Sarkozy sulla misura della performance dell’economia e del progresso sociale, presieduta da Stiglitz e Sen. Non menzionano mai la differenza tra pil-a e pil-b, se lo facessero gran parte del loro discorso sarebbe inutile. Penso che un bel libro ‘Contro il Rapporto Stiglitz’ potrebbe darti gloria imperitura e offrire un servizio alla società decisamente maggiore dell’attaccare un pesce piccolo come Pallante! E’ evidente che ci sono quindi economisti ‘vittime del linguaggio corrente’, e sono fior di economisti a quanto pare.

      Sul primitivismo, fai confusione tra chi propugna il ritorno alle caverne (Zerzan) e chi semplicemente fa un’analisi antrologica della percezione di scarsità. Quel brano di Ricossa che hai pubblicato in Contro la decrescita – dove gli uomini del mesolitico vengono presentati alla stregua di tecnocrati della Banca Mondiale che analizzano le cause del ‘sottosviluppo’ e progettano a tavolino la rivoluzione agraria – è a dir poco anacronistico. La percezione di scarsità nasce con l’era industriale, con Malthus, e oggi viviamo nell’epoca storica in cui non c’è mai stata tanta ricchezza e diciamo di essere ‘in crisi’. Questo è il senso di Latouche, ammetto di non aver mai letto libri di Schillaci, che con tutto il rispetto è un pensatore minore della decrescita. Immagino che potrei prendere una frase di uno scienziato sostenitore del transumanesimo, far riferimento al fatto che è favorevole alla modificazione genetica, e da qui dedurne che tu, Bressanini e Pascale siete a favore di trasformare l’umanità in dei cyborg o che ‘avete idee molto simili’ (non mi sogno di fare una porcata simile).
      Per il resto, stai tranquillo per quanto riguarda la tua “fiduciosa attesa di una risposta a quelle critiche”: le illazioni che fai dimostrano che non hai letto ancora una riga della decostruzione.
      Altrettanti auguri a te alla tua famiglia e spero vivamente di risentirci dopo le festività Un’ultima cosa: sei liberissimo di ritenere la decrescita una stupidaggine, mi auguro solo che quando il Titanic affonderà i nostri detrattori avranno pensato a qualche soluzione oltre ad averci attaccato. Per adesso gli unici che hanno provato a intavolare un discorso vagamente sensata, i sostenitori dello sviluppo sostenibile, sono decisamente in alto mare.

  3. A dire il vero il Rapporto Stiglitz dice solo che “traffic jams *may* increase
    GDP as a result of the increased use of gasoline”, il che è certo vero (“possono”, infatti – ma solo quando non si applica la “finestra rotta” di Bastiat, cioè in sostanza quando c’è crisi da insufficienza della domanda effettiva: l’ho pure scritto nel libro…), ma non toglie che *di norma* non lo facciano.. Talvolta nemmeno gli economisti sono molto svegli, ma non è certo il caso di Stiglitz e Sen! E conferma che gli economisti conoscono benissimo i limiti dei PIL.

    Non torno ulteriormente sulla questione PIL-misura del prodotto e PIL-prodotto, anche perché ho già spiegato ad nauseam e non mi pare il caso di continuare. D’altronde, se siamo d’accordo che il PIL di cui parla Pallante è solo la misura del prodotto, ma non il prodotto, a me sta benone: se ci tieni, diciamo pure che “PIL” vuol dire solo la misura, e il prodotto chiamiamolo allora Giovanna, Francesca o come ti pare; rimane il fatto che la distinzione merci/beni, così come l’ha impostata Pallante, non sta in piedi.

    Che Schillaci sia un “pensatore minore della decrescita” può essere – anche se mi piacerebbe sapere chi sarebbero i “pensatori maggiori” – ma ripeto, anche Latouche crede che i Paleolitici fossero esponenti di una società dell’abbondanza, dove la scarsità non esisteva. La discussione sta comunque diventando surreale: io non ho mai scritto né pensato che i decrescenti siano tutti primitivisti, né le mie critiche ai decrescenti non primitivisti dipendono da quelle che ho rivolto a Zerzan o Manicardi (o Sahlins), quindi: boh?

    Grazie per la segnalazione del post di Pallante. Certo che se non si ricorda neanche quello che scrive, cominciamo male!

    Infine, non ho mai scritto né penso che la decrescita sia “una stupidaggine”: ho scritto, invece, che la decrescita è espressione di preoccupazioni generalmente ben fondate e è espressa da gente generalmente in ottima fede. Alcune delle idee della decrescita invece sono senz’altro stupide (altre no, ma queste sono comuni anche ai sostenitori dello sviluppo sostenibile, dell’economia verde, ecc.)

    Un saluto cordiale e a dopo le feste (spero)

  4. I decrescenti maggiori sono ovviamente quelli di cui parla a livello internazionale, quindi Latouche, Gorz, Pallante, Bonaiuti; anche scienziati come Bardi o Heinberg collaborano attivamente con i movimenti per la decrescita. Gli uomini dell’età della pietra vivevano nella scarsità, ma non la percepivano come tale (è un discorso antropologico, non economico).

    Vorrei fare un piccolo riassunto della parabola dialettica del PIL perché mi sembra davvero interessante:
    – in Contro la decrescita il PIL è senza se e senza ma la somma di tutti i redditti e tutti i servizi, autoproduzione inclusa: un’insalata autoprodotta aumenta il PIL quanto quella comprata, Pallante e i decrescenti criticano il PIL senza sapere cos’è;
    – a quel punto ti riporto la definizione di PIL del dizionario economico Treccani facendoti notare che è la stessa di Pallante e dei decrescenti. Per coerenza, dovresti dire che anche la Treccani non sa cosa sia il PIL, invece introduci la distinzione PIL-a e PIL-b (che hai spiegato tre volte, ma io l’avevo afferrata alla prima: il problema non è il mio comprendonio, bensì il fatto che questa distinzione non la trovo da nessuna parte). Quindi i decrescenti sono già un po’ meno ottusi rispetto al libro: la loro idea di PIL è il PIL-b;
    – poi ti riporto degli stralci del Rapporto Stiglitz dove si evince chiaramente che Stiglitz, Sen e gli economisti della Fondazione per lo sviluppo sostenibile intendono il PIL unicamente nella versione PIL-b, che non fanno nessun riferimento a nessun ipotetico PIL-a (dicono che solo gli scambi ALL’INTERNO DEL MERCATO – il reddito autoprodotto puoi quantificarlo in denaro ma e’ ESTERNO AL MERCATO – rientrano nel PIL). A quel punto rispondi solo che alcuni economisti dormicchiano e quelli in gamba conoscono molto bene i limiti del PIL (anche se poi, guarda caso, le loro proposte di correggere il PIL sarebbero in gran parte superflue, se fosse inteso secondo PIL-a. Ma nessuno dice mai cose del tipo: “ah, se fosse possibile calcolare per bene il PIL-a!”, tutti concordano nel sostenere che il PIL è un’indicatore inadeguato perché non tiene conto… di tutte le cose positive che si troverebbero secondo la tua definizione nel PIL-a!).

    Purtroppo non ho sottomano i libri che mi hai indicato, però non ho nessuna ragione di pensare che non facciano la distinzione PIL-a e PIL-b, ti credo. Alla fine della fiera, però, quale sarebbe la colpa di Pallante e dei decrescenti (ma anche della Treccani e credo del 90% dell’umanità a prescindere dal giudizio che ha del PIL)? Di considerare il PIL nell’unica accezione che interessa (sarebbe meglio dire: nell’unica accezione che conoscono) a politici, economisti di punta, mondo imprenditoriale (e del tutto a ragione dal loro punto di vista: le tasse su reddito e imposte dirette non si pagano sull’autoproduzione; sull’autoproduzione non si realizzano utili di impresa, ecc). Di dare retta a Stiglitz e Sen sull’argomento e non a qualche meno autorevole manuale di macroeconomia?
    Quando ho parlato di critiche cavillose e faziose mi riferivo proprio a situazioni come questa. Ancora auguri e alla prossima dove spero vivamente che entremo nel vivo del commento alla decostruzione.

    • Ascolta: il fatto che il PIL-b, o il PIL “nell’unica accezione che interessa” misuri (in massima parte, ma non esclusivamente) gli scambi DI MERCATO non vuol dire che il PIL-a (cioè il reddito, cioè la cosa misurata) non sia fatto anche di cose che NON si scambiano sul mercato. Non solo questo è vero, ma è una delle ragioni per cui molti (e tutti gli economisti, e tutti i decrescenti) ritengono che il PIL-b sia una misura inadeguata del PIL-a. Mi sembra, onestamente, che stiamo girando in tondo da giorni e che tu abbia capito benissimo tutto questo: anzi, che stiamo dicendo (con parole diverse) la stessa cosa. Pallante non ha “colpe”: semplicemente, nella misura in cui è convinto che spostando parte della produzione dal mercato all’autoconsumo, e quindi riducendo il PIL-b, si faccia qualcosa di rilevante per gli aspetti FISICI della produzione di reddito (che al massimo, nella sua prospettazione – anche se non nella realtà perché le cose sono più complicate – , potrebbe accadere se si riducesse il PIL-a), si sbaglia. Tutto qua. E’ tutto quel che ho scritto nel libro, a questo proposito. Non mi pare né una critica cavillosa, né oscura, né faziosa: dico solo che dalla teoria di Pallante non discendono le conseguenze che lui vorrebbe, perché si concentra su un aspetto (la misura del reddito) che è irrilevante, mentre lascerebbe tal quale l’aspetto che potrebbe esser rilevante (il reddito)..

      In attesa di approfondire la questione di LTG, cominciate a pensare a questo. Ho ricevuto varie richieste (nella fattispecie, da un paio di circoli del PD di Roma) di organizzare un dibattito a più voci sulla decrescita. Io potrei portare, sul fronte diciamo così “critico”, il prof. Giovanni Mazzetti (che ha scritto anche lui qualche mese fa un piccolo libro sulla decrescita), Antonio Pascale, forse il prof. Nicola Iannello di IBL. Voi sareste interessati? O avreste in mente qualcuno che possa voler partecipare? Considerate che la cosa sarebbe a Roma, direi tra febbraio e marzo 2015 o comunque in data da concordare, e l’idea sarebbe di organizzare non uno scontro tipo OK Corral, ma un confronto civile. Un saluto e buone feste di nuovo.

      • Allora Luca, la questione l’ho capito molto bene, e infatti non c’era bisogno di spiegarmela tre volte. Se quindi quello che dici è corretto, allora ne devi convenire che non è solo Pallante a essere ‘in colpa’, ma un bel po’ di gente. Ad esempio è in ‘colpa’ il dizionario di economia e finanza della Treccani che dà questa definizione di PIL:

        “l PIL misura il risultato finale dell’attività produttiva dei residenti di un Paese in un dato periodo. La nozione di ‘prodotto’ è riferita ai beni e servizi che hanno una valorizzazione in un processo di scambio; sono quindi escluse dal PIL le prestazioni a titolo gratuito o l’autoconsumo”

        E non strapparti i capelli dicendo: “ma quello è il PIL-b!!!”. Per loro non esiste PIL-a o PIL-b, per loro quello è il PIL è basta.
        E sono in ‘colpa’ anche i manuali di economia che danno definizioni del PIL tipo questa: “Il Prodotto Interno Lordo (PIL), in inglese Gross Domestic Product (GDP), esprime il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all’interno di una nazione in un certo arco di tempo, solitamente un anno.” Fin qui sono d’accordo con te: a livello teorico, ci possono stare dentro autoproduzione e altre scambi non monetari, ipotizzando un valore di mercato (in alcuni casi può essere impresa titanica). Però, se gli stessi identici manuali, senza fare distinzione di sorta tra a o b, dicono che il metodo di calcolo di quella definizione di PIL è

        Y=C+G+I+(X-M)

        Allora siamo di fronte a quello che tu chiami PIL-b, che anche per loro è PIL e basta. Il fatto che ti contesto non è questa idea del PIL-a (che mi sembra fracamente idiolettale, ma lasciamo perdere) ma che presenti Pallante e i decrescenti come ignoranti trascurando che la Treccani, Sen, Stiglitz e più o meno tutto il mondo si comporta esattamente allo stesso modo. Se adesso mi dici ad esempio che la Treccani dà una definizione di PIL sbagliata, sei coerente con la critica mossa in Contro la decrescita; se mi dici che la Commissione Sen-Stiglitz e la Fondazione per lo sviluppo sostenibile stanno ragionando in termini sbagliati di superamento del PIL in quanto gran parte delle voci che loro dicono non comprese si ritrovano nel PIL-a (che loro come Pallante sembrano ignorare), allora sei coerente. Se invece lo usi solo contro la decrescita, si chiama cavillosità e faziosità.
        Il problema che sembri non capire tu non è dato dai due cespi insalata, ma dalla storia che hanno alle spalle: quello per cui sono stati fatti imballaggi, trasporto per migliaia di Km e sono stati utilizzati alti input energetici – tutte cose che nel PIL andranno quantificate positivamente – è ben diverso da quello del proprio orto biologico.

        Quanto al ‘confronto civile’… beh, penso che al nostro gruppo potrai contestare tutto tranne il fatto di non essere stato trattato con civiltà. Fai questa prova: scrivi un libro, non so, ‘Contro gli assicuratori’, con gli stessi termini usati per i decrescenti (ideologici, wishful thinking, seguaci delle stesse idee di Unabomber, ecc) e magari aggiungici anche due capitoli finali dove lasci intendere che sono un po’ fascistodi. Fatto tutto questo, commenta un loro sito e poi mi farai sapere se troverai tanto spazio, discussione priva di insulti fatta mettendoci nome e cognome, diritto di replica. Ah dimenticavo, anche una recensione dove si dice che vale la pena di comprare almeno l’e-book.
        Detto questo, la tua proposta è molto interessante che ovviamente devo girare a tutto il gruppo. Se fatta nei termini giusti può essere una buona idea, su questo è meglio scambiarci in privato.
        Anzi, se puoi mandarmi subito una mail dove mi dai una data ultima di conferma o meno.

        • Igor, lasciando perdere il PIL (magari ne riparliamo più in là, ma mi pare che molto più di quel che ti ho già detto non posso ripetere): non dico mica che il confronto che abbiamo avuto finora non sia stato “civile”, tutt’altro. Era solo per dire che vorrei organizzare un dibattito serio, tutto qua. Senz’altro ci sentiamo in privato (dopo le feste), ma considera che per ora è tutto per aria, insomma siamo solo allo stadio di idea. Ri-auguri.

      • Ho studiato Economia a Siena e di corsi in cui s’è parlato del PIL ne ho fatto – l’ultimo col prof. Riccardo Fiorito che se non erro ha lavorato anche al Ministero dell’Economia. Mai sentito parlare di PIL a e PIL b. Il PIL registra solamente gli scambi monetari (è un requisito essenziale!), al massimo il problema si pone a livello morale (includere o no le attività illecite e il nero? Quando lo fecero l’Italia sorpassò il Regno Unito una ventina e passa di anni fa) e metodologico (la produzione pubblica è giusto considerarla a livello di spesa pubblica e quindi un costo o dovremmo stimare un sovrappiù, un maggior valore? S’è deciso di considerare il mero costo). Gran parte della critica al PIL nasce proprio da questo fatto, ovvero che in paesi la cui economia è poco “sviluppata” – ovvero la gente preferisce autoprodurre o scambiare i beni e i servizi rispetto a comprarli al mercato in cambio di denaro che si deve procurare lavorando per conto terzi in genere – si sottostima molto il vero valore dell’economia. Ma qui sorge un grande problema metodologico: come valutare i servizi e i beni provenienti dall’autoproduzione o dalle terre comuni che forse ancora esistono in questi paesi? Si taglia la testa al toro e non li si considera. Poi che qualcuno abbia proposto di conteggiarli mi sta bene, ma questo non avviene.

  5. Non entro nel merito di PIL-a e PIL-b.
    Mi limito ad osservare che l’insalata che io autoproduco incapsula una componente primordiale di PIL limitatamente alla parte che riguarda le (eventuali) sementi che compro: sulle quali grava l’IVA che il sostituto d’imposta applica alla merce che vende.
    Per il resto la mia insalata “sfugge” alla fatturazione; dunque non entra nel circuito del prelievo fiscale per le imposte sul reddito e dell’imposta sul valore aggiunto.
    Siccome i conti dello Stato, con tutti i suoi addentellati, incluso il welfare che lo Stato eroga, sono calcolati sul PIL, i ceppi di lattuga e di trevigiana restano fuori; dunque non contribuiscono al sistema impositivo e redistributivo.

    La mia l’insalata, a modo suo, ha un carattere eversivo: sovverte l’ordine costituito e alimenta un mondo a parte che, a ben guardare, non può rientrare nel “sommerso” e neppure nel “lavoro nero”.
    E’ una “casa matta” in cui il micro-produttore che, spessissimo è autoconsumatore, esce dal circuito relazionale previsto dalla complessa macchina dello Stato; peraltro in modo assolutamente legale, perchè non esiste obbligo di autofatturazione e, conseguentemente, neppure i presupposti per l’applicabilità dell’IVA e imposte sul reddito.

    Facendo qualche variazione sul tema si potrebbe concludere che l’autoproduzione prefigura meno Stato e meno mercato.
    “Meno Stato” ha come inevitabile conseguenza il fatto che l’autoproduzione riduce il diritto di partecipazione alla redistribuzione del welfare ( ovviamente limitatamente alla parte che non è conteggiata nell’economia nazionale). “Meno mercato” perchè crea turbativa nella domanda e nell’offerta ( ovviamente limitatamente alla parte che non entra nel circuito del consumo classico).

    Tutto questo rimanda a un indicatore diverso da PIL; cioè al BES, di cui parliamo troppo poco e invece meriterebbe piu’ interessamento.
    Ci sono delle belle pubblicazioni dell’ISTAT sull’argomento.
    Il PIL è un indicatore grezzo e rozzo. Non entra nel merito della qualità della vita e del benessere inteso in senso psico-fisico e della piena realizzazione del sè.
    Non misura la felicità, la coesione sociale, il senso di appartenenza alla comunità, il desiderio di partecipare alla costruzione del bene comune.
    E’ abbastanza singolare che gli statistici di tutto il mondo abbiano rivolto la loro attenzione ad uno dei luoghi piu’ poveri del mondo, il Bhutan, eppure, a detta dei sociologi e antropologi, uno dei posti dove la gente è piu’ felice.
    Dunque dobbiamo diventare come il Bhutan ?
    Non penso che questo sia il problema.

    • “Facendo qualche variazione sul tema si potrebbe concludere che l’autoproduzione prefigura meno Stato e meno mercato.
      “Meno Stato” ha come inevitabile conseguenza il fatto che l’autoproduzione riduce il diritto di partecipazione alla redistribuzione del welfare ( ovviamente limitatamente alla parte che non è conteggiata nell’economia nazionale)”

      Il fatto che contribuiamo meno al welfare ci esonera dai doveri di solidarietà verso la nostra comunità? Ovviamente no, ed è per questa ragione che si parla di nuove forme di comunitarismo, come quelle proposte da Gesualdi che pensa a un sistema di PIL basato su esperienze simili al servizio civile volontario che possa funzionare anche senza crescita economica (mi sembra già sotto attacco il welfare state da ogni parte, e non da parte dei sostenitori della decrescita)- ovviamente se si pensa che non ci saranno in futuro problemi a crescere sono solo stupidaggini.

  6. Mi intrometto tra gli economisti…

    Come al solito cerchiamo un indicatore come scorciatoia per la rappresentazione della realta` di cui ognuno vuole vedere un lato diverso, quello che gli interessa, quindi non siamo mai d`accordo su quale indicatore usare e non vale nemmeno la pena di discuterne.

    Ne avevo parlato qualche tempo fa sul mio blog, quando eravamo sotto il genio dei Monti
    http://mangiufaber.blogspot.sg/2012/07/indicatori-superficiali.html
    Magari lo riscrivo ed aggiorno per questo sito se trovo il tempo…

    Per fortuna la Realta` e` unica da qualunque direzione la si guardi se la si guarda onestamente e l’unica cosa che conta davvero in modo uguale per tutti sono le calorie raccolte dalla zuppa durante la giornata meno quelle spese a trascinarci tra casa e ufficio, in fabbrica o nei campi, meno quelle regalate al Generale Inverno.

    Quindi ancora una volta parliamo di Energia e giocoforza di Entropia, gli unici indicatori di attivita` e spreco che varrebbe la pena di trattare a livello “razionale”.

    Se poi, come auspicabile, si volesse misurare la reale felicita` umana (cosa parecchio irrazionale), di certo il danaro in tutte le sue manifestazioni non sara` il primo numero da guardare… PIL addio.

    • Ciao Giulio,
      penso che nessuno, nemmeno i piu’ accaniti sostenitori del PIL, ritengano che questo sia un indicatore rappresentativo della realtà economica di un paese.
      Non lo è e non può esserlo , per molte ragioni: a cominciare dal fatto che nulla “racconta” circa le ricadute sul tessuto sociale ; sul grado di soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi.
      Non dice nulla nemmeno sulla ripartizione della ricchezza e del suo contrario: la concentrazione.
      Per cui , a fianco del PIL, si utilizzano altri indicatori, come le curve di Lorenz o l’indice di Gini.

      Resta da capire come mai ,ma la mia è una domanda retorica, molti statistici e sociologi ritengano il Bhutan, paese poverissimo, uno dei luoghi piu’ interessanti del pianeta quanto a livello di felicità personale e sociale.
      Sul sito dell’ISTAT è possibile trovare il rapporto sul BES, dove vengono spiegate le ragioni e le scelte che hanno ispirato la creazione di questo muovo indicatore, formato da un buon numero di clusters e da ben 134 indicatori; dunque è molto piu’ articolato del PIL.

      il BES non è sulla scia della decrescita ma nemmeno la contrasta: dal momento che include, tra gli indicatori, la qualità della vita, dell’ambiente, dei servizi.
      Se non altro, individua un percorso ben diverso da quello arido, parzialissimo e meccanicistico del PIL.
      http://www.istat.it/it/archivio/126613

      • Ovviamente Daniele il problema non è la descrizione della ‘realtà economica’, che come dici tu prescinde dal PIL… il fatto è che tutte le esternalità negative computate nel PIL sono fonti di reddito. Se torniamo all’esempio del combustibile della caldaia sprecato a causa del cattivo isolamento, nel sistema economico attuale edifici mal coibentati assicurano redditi maggiori a qualcuno, che sia bene o merce o quello che ci pare. Se il mercato dell’edilizia è fermo, un terremoto con successiva opera di ricostruzione è economicamente positivo (gli imprenditori intercettati la notte del terremoto de L’aquila, che se la ridevano quando avevano saputo del prisma, erano moralmente schifosi ma economicamente ineccepibili). E’ stato Keynes a dire: “Per almeno altri cent’ann idovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno”. Direi che questa finzione è stata interiorizzata come verità assoluta, che le conseguenze non siano state solamente morali. La necessità è quella di sostituire il sistema economico attuale con uno dove siano ‘le buone virtù’ ad ahire positivamente.

  7. Le cose cambierebbero se si iniziasse a conteggiare anche il capitale naturale, ovvero ciò che permette la crescita o meno del PIL nel lungo termine. Ecco allora che scopriremmo che la distruzione di una foresta, l’esaurimento di una miniera o l’inquinamento di un fiume sono distruzione di capitale naturale – anche se il reddito può aumentare nel breve termine. Ovviamente tali misure non dovrebbero prescindere dalle considerazioni di fisica energetica, perché se è possibile ipotizzare il riciclo della materia (non infinito certo), non è così per l’energia e l’unica fonte di energia che abbiamo è il Sole (e l’uranio ma questa fonte energetica presenta più costi che benefici). La nostra produzione materiale e quindi anche la nostra popolazione (almeno nel lungo termine) dovrebbero tenere conto di questo imprescindibile limite fisico.

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