Dietro l’angolo, la fine?

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Nel libro “2052”, il biologo norvegese Dag Olav Hessen, descrivendo gli scenari che potranno interessare il mare del Nord nei prossimi anni, evidenzia in modo esemplare come una piccola e apparentemente insignificante specie di crostaceo, imparentato con granchi e aragoste ma dalle dimensioni di pochi millimetri, giochi un ruolo determinante all’interno di quel grande ecosistema.

Il Calanus planctonico è infatti una specie chiave perché a dispetto delle sue ridotte dimensioni è presente in grandi quantità e influenza in modo determinante le catene trofiche di quell’area.

Poiché la temperatura del mare del Nord si sta velocemente riscaldando a causa del cambiamanto climatico in corso, la popolazione di Calanus ne verrà fortemente condizionata. Le temperature più alte, specialmente nelle acque di superficie, limiteranno sempre di più il rimescolamento con quelle di profondità fredde e ricche del fitoplancton di cui questa specie si nutre, tanto da causarne un deciso calo numerico. Sfortunatamente, la scarsità di Calanus significherà scarsità di cibo per molte specie di pesci, una insufficienza che a sua volta si rifletterà sugli uccelli marini, sulle foche, e sugli orsi polari, causando il famoso effetto a cascata che contribuirà a compromettere questa notevole rete alimentare.

Il fatto, oramai accertato, che gli ecosistemi possono transitare in modo estremamente veloce e irreversibile da uno stato ad un altro quando una specie chiave viene meno o perché sono forzati ad attraversare una soglia critica spinti da una potente sollecitazione esterna, mostra chiaramente la fragilità dei sistemi viventi.

Il caso del piccolo crostaceo si inserice nel flusso di una gigantesca perdita di biodiversità che è dovuta alla alterazione o alla scomparsa, degli habitat naturali dove le specie animali, vegetali e fungine nascono, vivono e si riproducono.

Pochi tra noi se ne rendono conto ma si tratta di una clamorosa crisi planetaria, anzi la più importante crisi planetaria da milioni di anni che è destinata ad avere violente ripercussioni anche sulla nostra specie a causa, tra l’altro, del cedimento della produzione agricola, del progressivo inquinamento dell’acqua e al peggioramento della qualità dell’aria respirabile.

Ciò che oggi sappiamo si fonda su una consistente letteratura scientifica formata da ricerche che si sono susseguite per decenni e che ci hanno messo a disposizione una quantità di dati che bastano e avanzano per farci sentire seriamente allarmati.

Se a tutto ciò aggiungiamo ciò che ci insegna la legge dei rendimenti decrescenti il gioco è fatto. Questa legge che in ambito economico trae origine dagli studi sulla produzione agricola avviati da David Ricardo nel XIX secolo e che con gli studi sulle società complesse di Joseph Tainter assume oggi la moderna formulazione di DMR (Declining Marginal Returns) è un altro fondamentale elemento che dovrebbe farci temere il peggio. Esprimendo la connessione tra produttività industriale e sociale con la disponibilità di flussi di energia e di materia, la legge dei rendimenti decrescenti evidenzia come, oltre una certa soglia, i benefici attesi con ulteriori incrementi di complessità (ad esempio nel settore dello sviluppo tecnologico e nel sistema organizzativo delle grandi aziende), si trasformino in negatività e diseconomie, con il rischio concreto di determinare un collasso complessivo del sistema economico.

Di che cosa stò parlando? Sto parlando del fatto che ci troviamo di fronte ad una miscela esplosiva a cui abbiamo allegramente dato fuoco. Da una parte abbiamo la crisi degli ecosistemi che si esprime con la sesta estinzione di massa generata dai nostri sciagurati comportamenti. Dall’altra abbiamo la crisi del sistema economico dominante sostenuto dalla nostra folle idea che la crescita mercantile possa davvero essere infinita.

Due macro-esempi di una criticità ben più vasta e articolata i cui numeri sono noti e disponibili. Stretti in questa morsa siamo finiti in un cul de sac, in una via apparentemente senza uscita, siamo giunti alla fine di una storia di cui è fin troppo facile immaginare l’epilogo. Ma il punto è proprio questo, in quanti sono consapevoli di quanto sta accadendo e di che cosa accadrà a breve?

Quanti non riescono a vedere, quanti vedono e restano indifferenti, quanti vedono e si sentono impotenti, quanti vorrebbero fare qualcosa e non sanno che cosa fare?

Questa non è una partita dalla quale ci si può ritirare, questo è il punto di svolta dell’umanità e di conseguenza, a causa del potere che la nostra specie ha acquisito, anche di una buona parte degli esseri viventi del pianeta.

Quello che abbiamo avviato (se non faremo nulla per cambiare e su scala globale praticanemte non stiamo facendo nulla) è il classico processo che porta ad un declino generalizzato ma non ad un solo inquivocabile crollo, non ad un biblico diluvio, non ad un evento omogeneo e brutale ma ad un doloroso cedimento in serie che dipende da molti fattori, dai luoghi e perfino dalle stagioni.

Se dunque la fine è dietro l’angolo sarà la fine di che cosa?

Certamente la fine del mondo che conosciamo oggi, il termine di un modello, di una pratica, di un’idea: quella di considerarci la specie prediletta, o se si vuole, quella destinata a dominare grazie alla propria straordinaria intelligenza ed adattabilità.

Deprimente visione apocalittica ?

Latente odio verso l’umanità e i benefici del progresso ?

Piuttosto una visione amara ma razionale di che cosa accade sul campo.

Ciò che è certo è che le leggi di natura pongono dei limiti all’adattabilità e quindi al futuro di una specie, soprattutto se questa si ritiene superiore a tutte le altre.

Ricordiamo: tutto è connesso e tutto è impermanente.

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