E’ oramai iniziato il conto alla rovescia per l’abbattimento finale del complesso di palazzi delle Vele di Scampia, reso celebre in Italia e all’estero soprattutto per aver ospitato svariate riprese dell’affermata serie televisiva di Sky Gomorra: già demoliti tra il 1997 e il 2003 tre dei sette edifici originari, dei quattro attualmente superstiti rimarrà in piedi solo la cosiddetta ‘Vela celeste’ (così chiamata dal colore con cui fu tinteggiata), di cui è prevista una profonda ristrutturazione per poi ospitare gli uffici della città metropolitana di Napoli.
Il provvedimento varato dal sindaco De Magistris era caldeggiato da tempo dal Comitato Vele Scampia, che lo ha salutato come una propria vittoria. Del resto, per questo tempio della criminalità e del degrado – nonché di grandi esempi di umanità e riscatto civile, quasi sempre ignorati dai media – non c’erano alternative, essendo la condizione dei fabbricati irrecuperabile: cadono letteralmente a pezzi, con un’emergenza sanitaria che si fa ogni giorno più grave (in particolare per la massiccia presenza di amianto mai rimosso e per la trasformazione di alcuni seminterrati in vere e proprie discariche). Chi vuole approfondire può consultare un ottimo documentario su Youtube per comprendere appieno la situazione intollerabile che vi regna.
Cortile interno tra due Vele, chiaramente realizzato a imitazione di un classico vicolo napoletano
Il progetto delle Vele era stato varato una sessantina di anni fa con ben altri auspici, come leggiamo da Wikipedia:
Nate a seguito della legge 167 del 1962, le sette vele di Scampia (progettate dall’architetto Franz Di Salvo) facevano parte di un progetto abitativo di larghe vedute che prevedeva anche uno sviluppo della città di Napoli nella zona est, ossia Ponticelli. Esse restano, nonostante tutto, l’opera realizzata che meglio rappresenta la poetica architettonica del progettista. L’esordio di Di Salvo nell’ambito della progettazione per l’edilizia economica e popolare risale al 1945 con la realizzazione, in collaborazione con altri architetti, del Rione Cesare Battisti a Poggioreale, che rappresentò all’epoca il paradigma di una «nuova maniera di pensare» la residenza sociale. Dopo anni di continue sperimentazioni progettuali, si vide affidare dalla Cassa del Mezzogiorno l’incarico di realizzare a Scampìa un grande complesso residenziale.
Ispirandosi ai princìpi delle unités d’habitation di Le Corbusier, alle strutture «a cavalletto» proposte da Kenzo Tange e più in generale ai modelli macrostrutturali, Di Salvo articolò l’impianto del rione su due tipi edilizi: a «torre» e a «tenda». Quest’ultimo tipo, che imprime l’immagine predominante del complesso delle Vele, è contraddistinto (in sezione) dall’accostamento di due corpi di fabbrica lamellari inclinati, separati da un grande vuoto centrale attraversato dai lunghi ballatoi sospesi ad un’altezza intermedia rispetto alle quote degli alloggi. Erano inoltre previsti centri sociali, uno spazio di gioco ed altre attrezzature collettive. La mancata realizzazione di questo «nucleo di socializzazione» è stata certamente una concausa del fallimento.
Se da un lato alcuni, sostenitori del brutalismo, affermano che la qualità tecnica ed estetica delle Vele possa essere quantomeno apprezzabile, resta innegabile la «inabitabilità» delle stesse, anche per ragioni che vanno al di là dell’architettura.
L’idea del progetto prevedeva grandi unità abitative dove centinaia di famiglie avrebbero dovuto integrarsi e creare una comunità, grandi vie di scorrimento e aree verdi tra le varie vele; una vera e propria città modello, ma varie cause hanno portato a quello che oggi viene definito un ghetto, in primis il terremoto dell’Irpinia del 1980, che portò molte famiglie, rimaste senzatetto, ad occupare più o meno abusivamente gli alloggi delle vele.
A questo intreccio di eventi negativi si è associata la mancanza totale di presidi dello Stato: il primo commissariato di Polizia fu insediato solo nel 1987, a quindici anni dalla consegna degli alloggi. La situazione ha allontanato sempre di più una parte della popolazione, lasciando il campo libero alla delinquenza. I giardini sono divenuti luogo di raccolta degli spacciatori, i viali sono piste per corse clandestine, gli androni dei palazzi luogo di incontro di ladri e ricettatori.
Aggiungo che, sebbene occorra molto ‘brutalismo’ per farsi piacere l’impatto paessaggistico delle Vele, l’esperienza di un complesso residenziale sostanzialmente identico situato nella zona tra Antibes e Nizza (vedi foto sottostante) dimostra che, malgrado tutto, il discutibile design adottato non precludesse la possibilità di rendere la struttura più umana e amalgamata con il territorio. Il contesto sociale e politico sembrerebbe quindi più vincolante dei limiti architettonici.
Fonte: Corriere della Sera
Per svariate ragioni, mi viene da accomunare la demolizione delle Vele a quella del ponte Morandi di Genova; nonostante le enormi differenze del caso, infatti, essere incarnano lo spirito delle grandi opere del periodo del boom economico, su cui erano riposte aspettative ambiziose ma che, per motivi diversi, sono cadute in disgrazia.
I sette palazzi progettati da Di Salvo, con la loro maestosa imponenza, dovevano rappresentare la riscossa di Napoli contro la povertà dilagante nelle periferie, alla maniera di tanti progetti di edilizia popolare concepiti in altre metropoli italiane che, senza incorrere per forza nel medesimo sfacelo delle Vele, hanno deluso le attese, trasformandosi in luoghi degradati ampiamente colonizzati dalla criminalità (quartiere Zen a Palermo, Corviale a Roma o Rozzol Melara a Trieste alcuni dei casi più emblematici). Generalizzando, si possono identificare in tutti i casi almeno due tare congenite, inevitabilmente destinate nel tempo a sfociare in gravi problematiche:
- le unità abitative sono state realizzate negli anni Sessanta, durante il ‘miracolo economico’, mentre i ‘nuclei di socializzazione’ (immaginati non solo da Di Salvo ma da tanti progettisti dell’epoca) avrebbero dovuto prendere forma tra il 1970 e il 1980, cioé in piena crisi da shock petrolifero, ragion per cui furono in gran parte accantonati. Forse sarebbe stato meglio invertire l’ordine dei fattori, in modo che i residenti non si ritrovassero con un deserto di opportunità lavorative e di promozione sociale, con tutto ciò che ne sarebbe poi derivato (specialmente nelle regioni infestate dalle mafie);
- come la stragrande maggioranza delle iniziative pubbliche dell’epoca, essere furono calate dall’alto confrontandosi poco o nulla con la cittadinanza, troppo spesso trattata alla stregua di un minorato bisognoso incapace di intendere e di volere. Come ripetutamente denunciato da Illich, l’espertocrazia ha spesso elaborato soluzioni lontane dalle esigenze reali dei destinatari delle opere, impedendo quindi una concreta integrazione degli abitanti con le loro unità abitative, mai sentite una vera e propria ‘casa’.
Pertanto, se la pars destruens consiste inevitabilmente nella demolizione, quella costruens non può limitarsi a edificare nuovi complessi residenziali, ossia replicando quanto già fatto dalla giunta Bassolino con gli abbattimenti del 1997-2003. Il Comune di Napoli ha varato un piano da 27 milioni di euro, chiamato Restart Scampia, che prevede la riqualificazione complessiva del quartiere, in particolare con la realizzazione della facoltà di medicina e chirurgia dell’università Federico II. Fermo restando la capacità di bloccare l’infiltrazione camorristica in un simile giro di affari, qualsiasi provvedimento è destinato alla lunga a fallire se non integrerà al suo interno l’esperienza dei comitati cittadini e di tutti quei soggetti che hanno dimostrato con i fatti che “Scampia non è solo Gomorra”; il progetto ‘Valorizziamo Scampia‘, è un esempio del tipo di sinergia che occorre realizzare tra istituzioni comunali, imprenditori locali, terzo settore, comitati cittadini. Facendola finita con ambizioni faraoniche di cancellare la povertà in favore di una strategia, forse più lillipuziana ma di certo maggiormente efficace, volta a rendere i cittadini – anche quelli poveri – protagonisti del loro destino.
Voglio volare lontano
dall’indifferenza di un mondo
che non sa più amare
ed è sempre più ostinato ad avere
avere e avere ancora.
Voglio volare più su delle vele
e gridare a tutti
che basta spiccare un volo
per conquistare la libertà.
(Emanuele Cerullo, Oltre le Vele)