Decrescita felice atto secondo

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Purtroppo, Ugo Bardi ha dedicato l’ultimo post del 2022 di Effetto Seneca a una nuova tirata contro la decrescita felice, attribuendole ancora concezioni del tutto fuorvianti. Evito di replicare nel merito* (l’ho già fatto nel recente passato) e, confermando la mia stima per l’uomo e lo studioso (notoriamente mi faccio pochi problemi a palesare avversione e disprezzo), rimpiango i tempi in cui, senza per forza essere un paladino della decrescita felice, la salutava come qualcosa di utile e positivo.

Si sta creando oggigiorno una situazione che, vagamente, mi ricorda la Rivoluzione francese. Agli esordi (fallimento degli Stati Generali e occupazione della palestra della pallacorda, presa della Bastiglia, ecc.) tutto il Terzo Stato nella sua diversità, dalle classi subalterne fino ai ricchi borghesi, marciava unito e concorde; una solidarietà dimostrata dalla nascita della Guardia Nazionale, milizia creata da Lafayette dopo i fatti del 14 luglio 1789 allo scopo di difendere le conquiste rivoluzionarie da eventuali rigurgiti golpisti dei sostenitori dell’assolutismo.

Quando però la situazione degenerò con la sciagurata guerra contro Austria e Prussia e la tentata fuga della famiglia reale in Belgio, la compattezza del Terzo Stato si infranse e le diverse fazioni entrarono violentemente in contrasto tra loro. Nel 1791, tre giorni dopo il secondo anniversario della presa della Bastiglia, la Guardia Nazionale nata per proteggere i rivoluzionari sparò sui sanculotti e i cordiglieri che manifestavano contro Luigi XVI in favore della repubblica, bagno di sangue passato alla storia come Massacro del Campo di Marte.

Mutatis mutandis e con le colossali differenze del caso, in Bardi rivedo un po’ Lafayette: prima il cultore dei limiti dello sviluppo che dimostrava come le istanze dei decrescenti non fossero capricci primitivisti-luddisti bensì osservazioni scientificamente fondate, poi un loro implacabile contestatore, pur con ‘sparate’ solo dialettiche. Pari pari a quanto avvenuto durante la Rivoluzione, fino a qualche anno fa i gruppi che contestavano la crescita economica continua erano abbastanza coesi nonostante diversità e diffidenze (se non altro evitavano di darsi addosso l’un l’altro, almeno pubblicamente), poi le cose sono invece profondamente cambiate.

Non sorprende perché, così come era molto più semplice fare fronte comune negli anni finali dell’Ancien Régime, lo era altrettanto nella fase marcescente della società della crescita. L’aggravarsi della crisi istituzionale della monarchia borbonica e il declino dell’economia globale hanno fatto deflagrare le divergenze di vedute e quindi gli scontri riguardo alle varie ricette salvifiche.

Sappiamo come è andata a finire con gli afflati di libertà della Rivoluzione Francese: prima l’emergere di una dittatura demagogica e sanguinaria (Robespierre e il suo Comitato di salute pubblica), poi un regime affaristico e corrotto (il governo del Direttorio) e infine l’imperialismo di Napoleone. Temo che le schermaglie tra le diverse anime ecologiste possano produrre conseguenze altrettanto nefaste, spianando la strada al peggio del greenwashing e dell’autoritarismo ‘verde’, mentre ci si scanna come i capponi di Renzo.

Quindi, siccome Bardi diversamente da Layette ci ha investito solamente di parole e non di proiettili, mettiamo da parte ogni astio al di là delle legittime divergenze e rintracciamo il lato costruttivo della sua critica che, non dimentichiamolo, proviene comunque da una figura intellettualmente brillante e non dal primo flammatore di turno.

Partiamo allora dalla tesi principale di Bardi contro la decrescita felice:

“Una buona frazione degli ambientalisti nostrani (per fortuna non tutti) sono rimasti legati al concetto di “decrescita” come se fosse una cosa buona e virtuosa. Certe volte accoppiandola con l’aggettivo “felice.” Non si rendono conto di quanto questa idea sia obsoleta… Forse, negli anni del boom economico, poteva aver senso parlare di ridurre gli sprechi ma, oggi, c’è rimasto ben poco da ridurre. Quello che chiamiamo “decrescita” è ormai un termine in “newspeak” di stampo orwelliano (“guerra è pace”) che indica la distruzione della classe media in Occidente. Come è tipico del newspeak, indica un certo concetto con il suo esatto contrario. Non solo i cittadini occidentali vengono spogliati dei loro averi dalle élite (“decrescita”), ma ne dovrebbero anche essere contenti (“decrescita felice”). Un vero trionfo della propaganda moderna

Come premesso, evitiamo la replica muro contro muro (ricordando cioé per l’ennesima volta la differenza tra decrescita e recessione, che l’impronta ecologica italiana è quattro volte la sua biocapacità, ecc.) e concentriamoci su quanto di utile possiamo ricavare da queste stilettate.

Definire la decrescita felice un newspeak orwelliano è un totale nonsense, essendo ampiamente oggetto di scherno ai massimi (ma anche minimi) livelli della politica, dell’economia e dell’informazione. Tuttavia, è innegabile che, anche ai piani alti, si comincia più o meno esplicitamente a parlare di fine della crescita: nel 2016 Lawrence Summers (consulente economico di Clinton e Obama) dalle pagine di Foreign Affairs paventava la “stagnazione secolare”, oggi il presidente francese Macron ammonisce sulla “fine dell’età dell’abbondanza” e la prestigiosa rivista Nature dà visibilità alle teorie della decrescita; persino la UE avanza ipotesi di “crescita senza crescita”.

Dieci anni fa, in uno dei miei primi articoli per questo blog, scrivevo recensendo il libro di Giampaolo Fabris La società post-crescita:

“Antonio Gramsci definiva ‘rivoluzioni conservatrici’ quei cambiamenti che attingono da idee radicali e innovative allo scopo di annacquarne la portata rivoluzionaria, secondo il motto gattopardesco di ‘cambiare tutto per non cambiare niente’: Gramsci aveva in mente idee come il socialismo e ‘rivoluzioni conservatrici’ come il dirigismo fascista o il new deal rooseveltiano, oggi possiamo vedere nel capitalismo della green economy una diluizione del pensiero ecologista; e domani possiamo essere sicuri che anche la decrescita subirà lo stesso trattamento”.

Questo ‘domani’ è con ogni probabilità oramai prossimo, se non ci siamo già dentro. Le osservazioni malevoli di Bardi ora suonano decisamente mistificatorie, ma senza prestare la dovuta attenzione possono facilmente diventare verosimili. Come evitare la pericolosa involuzione in ‘rivoluzione conservatrice’? L’unica soluzione sembra passare per una radicalizzazione del messaggio di fondo, passando cioé dall’enfasi sullo spreco a quella sull’uguaglianza.

Di fatto, si tratta di un’operazione già intrapresa da Maurizio Pallante con il suo movimento politico che, non a caso, ha chiamato Sostenibilità, Equità, Solidarietà, che finora però ha trovato meno proseliti della decrescita felice. Al di là del condividere o meno l’operazione di Pallante, l’ex presidente di MDF ha sicuramente tracciato la via, rimarcando la necessità di esporsi a livello politico, nel senso autentico e non massmediatico del termine.

Ciò significa svincolare ambientalismo, promozione della sobrietà e lotta al consumismo da una dimensione prettamente privata per inserirli in un progetto di società consono al nuovo contesto epocale. Non facendolo, la decrescita felice finirebbe davvero per assomigliare alla descrizione denigratoria di Bardi, ossia un atteggiamento ignavo utile solo ad agevolare le manovre di potenti élite che vogliono mantenere predominio e privilegio.

I decrescenti sono in grado di promuovere questa evoluzione? Difficile a dirsi. Nessun dubbio per le ‘avanguardie’ come gli autori di Uscita di emergenza, mentre nutro qualche perplessità in più riguardo ai tanti simpatizzanti che, proprio nel momento della verità, vedo alquanto disorientati se non proprio frastornati dagli eventi. Lo ribadisco: era molto più semplice essere fautori della decrescita nell’era della crescita (per quanto asfittica), pur essendo un piccolo gruppuscolo la cui idea portante era oggetto di derisione generalizzata. Paradossalmente, il disprezzo pressoché unanime rafforzava le convinzioni e creava anzi un forte senso di identità.

Oggi che parlare di fine della crescita non è più tabù e che alcuni capisaldi (vedi quanto accaduto con la sovranità alimentare) vengono cooptati più o meno strumentalmente dal mainstream, si capiscono titubanza e diffidenza. Specialmente pensando ai tanti personaggi (vedi i filosofi da Twitter tuonanti contro la resilienza) che rappresentano la causa ecologica come un complotto per impoverire l’umanità.

Altrettanto comprensibile la tentazione di rifugiarsi nella sfera privata, abbandonando qualsiasi velleità di più ampio respiro. Soprattutto dopo che già altri eventi, come la pandemia e la guerra in Ucraina, hanno alimentato scontri con vecchi compagni di tante battaglie, creando in molti un senso di desolante solitudine.

Tuttavia, per quanto giustificabili, bisogna trovare la forza di rifuggire da tale atteggiamenti, essendo troppo alta la posta in gioco. La fine della crescita o sarà pervasa dallo spirito della decrescita felice oppure si preannuncia come l’epoca più fosca della storia umana.

*Mi limito ad un unico ma emblematico punto. Bardi scrive: “Nella situazione attuale, stiamo andando verso il disastro, fra i blocchi commerciali, la mancanza di fertilizzanti, il cambiamento climatico, le guerre, e tutto il resto. E i dati della FAO ci dicono che la fame ha ripreso ad aumentare dopo aver raggiunto un minimo, intorno al 2015. Al momento, siamo a circa il 10% di persone affamate nel mondo, vicino a un miliardo di persone. Cosa gli dici a questi? Di decrescere? Non vi sembrano già magri abbastanza?“. Lo scienziato fiorentino insiste a non capire che i movimenti della decrescita felice non hanno mai accampato pretese universaliste (alla maniera delle ideologie novecentesche, per capirci), per cui ogni campo d’azione e critica è rappresentato dalle società in cui vivono i decrescenti, non quelle dei paesi in via di sviluppo. Una prospettiva che può presentare diversi limiti, ma che non permette di attribuire opinioni che nessuno si è mai sognato di concepire.

Immagine in evidenza: copertina di un numero della rivista La Décroissance

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

5 Commenti

  1. Questo tuo articolo di inizio anno ha il merito di indurre a riflettere tutti coloro che hanno creduto e sostenuto le idee della decrescita. Non mi preoccuperei molto delle provocazioni di Ugo Bardi, persona sicuramente seria e rispettabile, ma che purtroppo liquida la decrescita partendo da una sostanziale incomprensione e forse perfino ignoranza dei principi fondanti del pensiero decrescente e delle riflessioni filosofiche e politiche che sono alla base dell’idea di una società decrescente (penso a Latouche, ma anche ai precursori della decrescita come Ivan Illich, Cornelius Castoriadis, André Gorz, Nicholas Georgescu-Roegen ed altri). Non conosco bene il pensiero di Bardi sulla Decrescita, ma mi pare di poter dire che è equiparabile a quello degli sbandieratori del produttivismo e dello sviluppismo che vorrebbero accreditare un’immagine settaria e marginale degli obiettori di crescita, come fossero un manipolo di utopisti tardomoderni .
    Mi preoccupo invece e molto dei limiti di vedute e degli equivoci indotti da molti degli stessi sostenitori della decrescita. Ho avuto modo di appurare che per molti di loro la decrescita si riduce ad un comportamento virtuoso, da adottare prioritariamente nella sfera personale, teso ad una riduzione dei consumi e ad un comportamento rispettoso dell’ambiente, come se tutto si riducesse paradossalmente ad abbassare il termostato di casa, a farsi il proprio orticello di legumi biologici e a girare in bicicletta o con l’auto elettrica.
    Di costoro non ce ne facciamo niente e lo dico con grande rispetto di chi dà per primo un esempio lodevole e da imitare. Oggi, soprattutto oggi che assistiamo a come il modello neoliberista e globalista stia fagocitando e snaturando i concetti di sostenibilità e green economy, o siamo capaci di cogliere che l’idea della decrescita è un’utopia rivoluzionaria che comporta l’adozione di un paradigma alternativo al modello di sviluppo capitalista o è meglio proprio smettere di parlare di decrescita. Nel futuro dell’uomo (e in special modo dell’uomo occidentale) ci sono alcune priorità da tener presente. I golem da abbattere si chiamano impoverimento progressivo dei ceti medi e conseguente verticalizzazione della piramide sociale, dominanza assoluta dell’economia finanziaria, impostazione globalista degli scambi economici, medicalizzazione della società, dominio dell’uomo e abuso schiavista delle altre specie viventi a partire dagli animali da allevamento. La lotta contro queste sciagure indotte dalla società della crescita è per me strettamente correlata alla possibilità di dar vita ad un nuovo mondo decrescente.
    A me pare che le società occidentali votate alla crescita costante siano entrate in una crisi profonda e irreversibile, ma tra questo e aspettarsi che a breve i profondi e auspicabili mutamenti avvengano per così dire ‘motu proprio’ ce ne passa… insomma non mi metterei sulla sponda del fiume aspettando che passi il cadavere del nemico.

    • Tomasetta
      “Non ce ne facciamo niente”
      Attenzione anche voi a non voler far calare i progetti dall’alto con lo stampino. Ma non mi sembra il caso di Giussani.
      Per come la vedo io la decrescita è un ventaglio di possibilità ben studiate su cui, volendo, si può convergere nel tempo.

      • Credo di capire cosa voglia dire Fuzzy, penso anche a quello slogan abusato “L’ecologia senza lotta di classe è solo giardinaggio”, che dimentica proprio che da quel ‘giardino’ dipende tutta la nostra esistenza come umanità. Nell’epoca che si preannuncia irta di non pochi sacrifici le figure di riferimento dovranno tenere un comportamento coerente ed esemplare, altrimenti avranno zero capacità di influenza.

  2. Un contributo
    Come avviene un cambiamento?
    Riporto da un articolo pubblicato su questo blog alcuni anni fa e che fa riferimento a ciò che avvenne:”…nel tardo bronzo (XII sec. a.C.), quando in seguito al collasso, in tutta l’area del Medio Oriente Antico, delle grandi strutture politico-organizzative, si affermarono la scrittura alfabetica al posto di quella cuneiforme e la metallurgia del ferro al posto di quella del bronzo. La scrittura alfabetica e la metallurgia del ferro già esistevano in precedenza ma la sua introduzione era impedita da alcuni “poteri forti” che facevano parte della struttura politica-organizzativa al potere: gli scribi, il cui potere si basava sulla conoscenza della complessa scrittura cuneiforme e i mercanti, che avevano il monopolio del commercio dello stagno e del rame. Con la crisi che interessò il tardo bronzo vennero appunto meno i portatori di interessi legati alla persistenza della scrittura cuneiforme e della metallurgia del bronzo, cioè gli scribi con le loro scuole e i loro privilegi, i ceti dei mercanti e l’organizzazione politico-amministrativa del “palazzo” nel suo complesso.”
    L’articolo a cui ho fatto riferimento è il seguente http://www.decrescita.com/news/la-prima-volta/

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