Oggi vi vorrei proporre una breve riflessione su una questione spesso trascurata all’interno dell’oramai vasto corpus teorico sulla decrescita: la questione dell’identità individuale nelle società tardo-moderne. Il registro è volutamente provocatorio, tuttavia l’intenzione non è – come ad alcuni potrebbe apparire – demolire il discorso decrescentista, ma al contrario contribuire indirettamente a rafforzarlo.
Parlare di identità potrebbe a prima vista apparire come superfluo alla luce di problemi centrali e tuttora irrisolti quali l’assetto economico da dare a un’ipotetica società decrescente o il pericolo ecologico a cui la modernità, con le sue patologie di struttura (sistema produttivo ipertrofizzato) e di cultura (consumismo) ci ha esposti tutti. Ciò detto, non si può non riconoscere che un’altra questione importante, quella legata allo spesso ambiguo concetto di “rivoluzione culturale”, debba per forza di cose scontrarsi (non importa quanto i teorici della decrescita si ingegnino per evitarlo) con la questione identitaria. In effetti proprio l’ambiguità di tale concetto è una conseguenza dell’aver sorvolato sui desideri, le opinioni, gli atteggiamenti e i comportamenti dei singoli attori (e l’identità personale e sociale che a questi corrisponde) ed essersi limitati ad una lettura macro-sociologica della cultura, reificandola e dicotomizzandola in senso manicheo (la cultura dei “buoni samaritani” che lottano contro il sistema capital-consumistico da una parte e quella della grande massa di consumatori più o meno compulsivi dall’altra).
Al fine di integrare nel discorso teorico sulla decrescita una più completa definizione e teoria dell’identità, può essere dunque utile iniziare col delineare quelle che attualmente – per lo meno agli occhi di chi scrive – paiono essere le concezioni più diffuse.
Naturalmente sarebbe immodesto da parte mia pensare di poter sviscerare un tema tanto complesso in poche righe; qui vorrei più semplicemente fornire uno stimolo ad una maggiore problematizzazione di certi elementi che si tende a dare per scontati, ma che scontati non sono. Non si pretende di fornire risposte, ma al contrario di generare quelle domande che, attraverso una riflessione comune, possano condurre a soluzioni teoriche al tempo condivise ed empiricamente credibili.
Vediamo quindi di addentrarci maggiormente nella questione.
Se proviamo ad estrapolare il concetto di identità individuale sotteso al discorso intellettuale sulla decrescita, vediamo emergere una concezione di fondo, il più delle volte implicita, che vede la società suddivisibile in due categorie di individui, sulla base delle differenti dinamiche di auto-riconoscimento identitario (ovvero del modo in cui gli individui svilupperebbero una concezione di se stessi):
1) Una prima categoria composta da individui per i quali l’auto-percezione di sé in termini identitari deriva da due dinamiche interconnesse:
- Da una parte un processo di socializzazione orchestrato dal “sistema” (in primis attraverso il bombardamento mediatico-pubblicitario), il quale condurrebbe alla formazione di un nucleo identitario individuale sulla base di un “devo essere” funzione diretta di ideali consumistici interiorizzati passivamente.
- Dall’altra l’insieme di azioni e pratiche messe in atto (più o meno coscientemente) dagli individui sulla base di meccanismi di emulazione reciproca mediati dall’ideologia consumistica (la moda è in questo senso l’esempio più lampante e il più istituzionalizzato).
Si potrebbe parlare in questo caso di una identità subita, centrata sui consumi, caratterizzata dal paradosso di essere al tempo stesso legittimata da una libertà di scelta illusoria (ma il più delle volte non percepita come tale) e ideologicamente autoritaria, vista l’incapacità degli individui di sottrarvisi con le proprie sole forze (in particolare per via del fatto che essi non sarebbero del tutto – o non sarebbero affatto – coscienti della necessità di farlo).
2) Una seconda categoria composta da individui per i quali l’identità personale sarebbe frutto di scelte coscienti, di valori accuratamente selezionati nonché di azioni intraprese sulla base di una auto-definizione di sé, o anche di un vero e proprio progetto di “auto-costruzione” identitaria.
Traspare, sottesa o opportunamente celata, la convinzione che una tale identità si configuri – pur in una pluralità di modi possibili – in opposizione allo stile di vita consumista.
Il consumo “cosciente” diviene sinonimo di consumo “prudente”, attento ad evitare gli eccessi e a non superare i limiti (quelli ecologici, soprattutto). I consumatori imprudenti (quelli, per inciso, che non si pongono il problema) sarebbero succubi di un’identità etero-definita, e la loro libertà di scelta sarebbe illusoria (quella stessa libertà di scelta che passa fra una marca e l’altra in un supermercato, per parafrasare Beck; il riferimento è ovviamente ai membri della prima categoria).
Una piccola porzione di questi individui “illuminati”, i più attivi fra loro, si vorrebbero far poi portatori di una riscoperta di quell’identità genuina e primigenia che la società consumistico-capitalistica avrebbe tentato di cancellare, ma che non è del tutto perduta e che essi piano piano starebbero riscoprendo. Da qui la necessità di un’evangelizzazione di massa (e la conseguente enfasi su una rivoluzione culturale, che di fatto appare talvolta come la stessa cosa) che risvegli tutti quanti dall’ipnosi, aprendo alla maggioranza (i membri della prima categoria) gli occhi sulle devastazioni (ecologiche, sociali, culturali) apportate dalla modernità, restituendo così ad ognuno la propria vera natura.
Alla sopra esposta concezione dicotomica dell’identità si intreccia talvolta la questione della contrapposizione tra libertà di scelta individuale e bene comune. Gli individui, lasciati liberi di agire, metterebbero in atto quelle azioni che essi considerano migliori per loro da un punto di vista materiale, emotivo, cognitivo o valoriale. Non si tratta dunque di mero utilitarismo: tali azioni potrebbero avere finalità perfino altruistiche, nel caso gli individui che le mettono in atto le considerassero quali l’agire ottimale “alla luce del proprio mondo interiore”.
Facendo ciò, essi tenderebbero tuttavia – e sempre con le dovute eccezioni – a non tenere nella dovuta considerazione gli effetti delle proprie azioni sulla collettività. Il motivo è semplice: l’esternalizzazione dei costi aumenta la desiderabilità dei benefici potenziali dell’azione, almeno fintanto che gli effetti di tale esternalizzazione non siano visibili, facendo incorrere in tal caso il soggetto in sanzioni legali o sociali per la propria condotta egoistica. Allo stesso modo, ogni persona tenderà a evitare di intraprendere azioni i cui costi a proprio carico superino i propri benefici potenziali (come detto, non necessariamente personali), anche nel caso in cui tali benefici siano accessibili alla collettività e siano in termini assoluti ben superiori al loro costo (in termini economici si tratta del ben noto fenomeno del free-riding).
Si tenderebbe a sostenere, all’interno del discorso decrescentista, che i benefici individuali aggregati apportati dallo stile di vita consumista (e la connessa concezione post-moderna di identità “consumata” e “consumabile”) non sarebbero sufficienti a compensarne le esternalità negative sulla collettività, e dunque sui consumatori stessi. Il problema sottolineato dai decrescentisti è che gli individui raramente se ne rendono pienamente conto, e ancora più difficilmente agiscono di conseguenza (direttamente o anche indirettamente, ad esempio attraverso il voto). Di qui la necessità di una rivoluzione culturale.
Ma di nuovo, il problema è che nessuno sa esattamente cosa sia veramente questa rivoluzione, come renderla praticabile e prima ancora comprensibile. Se per quanto riguarda la prima questione solo il tempo probabilmente ci darà risposta, per risolvere la seconda è essenziale superare i dualismi e guardare a una realtà pluridimensionale e dalle innumerevoli sfaccettature, che certo non possono esaurirsi in un attacco indiscriminato alla fantomatica “cultura capitalistico-consumistica”. Se non altro perché essa è tutto fuorché unitaria e monolitica, e si configura più realisticamente come una rete di individui e istituzioni che agiscono e inter-agiscono senza uno scopo comune e coordinato. Dunque anziché prenderla di petto e rimanere impigliati nella rete, occorrerebbe munirsi di forbici e tagliarne un filo alla volta, discriminando e analizzando.
Fuor di metafora, la necessità, che si diceva è impellente, è di procedere a una rielaborazione del concetto di cultura, che rispecchi maggiormente il carattere eterogeneo e dinamico dell’identità; che poi, in altre parole, riguarda le due domande più centrali di tutte, e particolarmente importanti per un movimento che voglia, come vuole il movimento della decrescita, proporsi come universale:
Chi siamo noi? Chi sono gli altri?