Decrescita: alcuni nodi da sciogliere [1]

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Nel suo ultimo libro [2] Serge Latouche sottolinea con più enfasi che in passato il carattere liberale della via della decrescita, specificando che si tratta di una via composta da innumerevoli percorsi possibili i quali vanno decisi dagli individui coinvolti ossia, auspicabilmente, da tutti noi, abitanti del pianeta Terra. Sebbene ciò protegga la teoria dei decrescisti da possibili accuse di unilateralismo ideologico, al tempo stesso li condanna a interloquire fra loro e con i “profani” senza avere ben chiari gli strumenti da utilizzare per perseguire i propri scopi, per non parlare della nebulosità di questi ultimi e (in parte) del concetto stesso di decrescita.
Data l’importanza vitale della dimensione partecipativa e democratica affinché la rivoluzione della decrescita (rivoluzionaria nei fini e riformista nei mezzi, come ci ricorda Latouche parafrasando Arne Naess [3]) abbia origine e tragga la propria forza dal basso – e possa contare su di un consenso diffuso – è essenziale che si proceda ad una maggiore specificazione sia dei processi decisionali mediante i quali giungere all’elaborazione di politiche volte a perseguire i fini comuni (dopo aver chiarito questi ultimi), sia all’elaborazione di strumenti concreti che, attraverso il loro utilizzo combinato, possano permettere ad ogni persona di contribuire alla nascita di un nuovo tipo di società. Questo senza naturalmente intaccare la libertà di tutti di scegliere e percorrere la propria via individuale, in un quadro d’azione basato sul rispetto reciproco che solo un processo decisionale democratico (e auspicabilmente di democrazia diretta) può rendere possibile.
Prima di occuparsi di tali questioni, tuttavia, occorrerà concentrarsi su alcuni nodi cruciali che, se ignorati, potrebbero limitare l’efficacia, e finanche rendere vana, ogni altra azione concreta pro-decrescita. Di seguito ne espongo tre fra quelli la cui risoluzione considero più impellente.
Va notato che l’aspetto culturale è qui tralasciato non perché considerato poco importante (una rivoluzione culturale è al contrario considerata da chi scrive come uno dei presupposti ineludibili per un’efficace risoluzione di ognuno dei tre nodi), quanto per semplici ragioni di spazio. Tale questione verrà comunque trattata in modo approfondito nel saggio, già citato in nota 1, di cui questo articolo costituisce un estratto.

1. La vaghezza del concetto di decrescita e l’incertezza dei fini comuni

A volte si ha l’impressione che la decrescita sia definita più per ciò che non dev’essere che per ciò che si vorrebbe fosse. Personalmente ho letto decine e decine fra articoli e libri dove si sostiene che la decrescita non è la crescita e nemmeno la crescita negativa (per questo Latouche parla di a-crescita), che si tratta di una parola che vuole racchiudere in sé la maggior parte delle teorie critiche nei confronti dello sviluppo, che possiede una forte connotazione ecologista ma non può essere racchiusa nell’ecologia (per via soprattutto dell’importanza conferita ad una non ben definita rivoluzione culturale), che è una teoria anti-industrialista e quindi contrapposta sia al capitalismo sia al comunismo (per Massimo Fini entrambe derive dell’industrialismo [4]) e via di questo passo. Quando però si tratta di darne una definizione positiva tutto si fa più nebuloso. Alcuni si accontentano di evitare ogni definizione mentre altri, come Latouche, forniscono definizioni “a maglie larghe”, solitamente adducendo a propria discolpa il carattere liberale e democratico della teoria che, facendo della vaghezza una virtù, può così abbracciare una pluralità di percorsi fra loro differenti. Tali percorsi – e su ciò praticamente tutti, chi più esplicitamente chi meno, si dicono d’accordo – condividono però il medesimo fine: la felicità degli individui.

Fino a qualche anno fa, quando di decrescita ancora poco si parlava, il problema di definire cosa si dovesse intendere con la parola “felicità” è passato in secondo piano. Così ad esempio Nicolas Georgescu-Roegen non si preoccupava di specificare in cosa essa dovesse consistere, se nel semplice benessere psicofisico, nella soddisfazione dei desideri, nell’agiatezza economica o in altro ancora. Nel frattempo, al di fuori dei confini ristretti della nascente teoria, l’accezione economica del temine, l’utilità, permeava gli ambienti del potere e il dibattito su crescita e sviluppo. E si può dire che tale concezione la si sia iniziata a scalfire solo all’inizio degli anni ’90, con la redazione del primo rapporto dello UNDP sullo Sviluppo Umano che, seppure ancora permeato dall’ideologia della crescita, ha avuto il merito di introdurre come criterio di valutazione dello sviluppo di una società l’Indice dello Sviluppo Umano (HDI) al cui interno, a fianco della variabile economica del PNL pro capite, trovavano spazio la speranza di vita media, gli anni di istruzione e, con i rapporti successivi, la disuguaglianza di genere e l’impronta ecologica (quest’ultima solo a partire dall’ultimo rapporto, HDR 2011). Sarebbero dovuti passare ancora alcuni anni perché iniziassero a diffondersi altri tipi di indici i quali, introducendo variabili sempre più specifiche, hanno almeno in parte colto la multidimensionalità del concetto di felicità – certo non circoscrivibile all’essere in buona salute e bene istruiti. Fra questi uno dei più meritevoli è forse l’Happy Planet Index – citato in più di un’occasione dallo stesso Latouche – che si propone di misurare l’efficienza ecologica con la quale viene diffuso il benessere degli individui. Se il benessere (a breve vedremo cosa si intende qui con questo temine) in una data società è molto elevato ma il suo costo in termini ecologici lo è di più, il valore finale dell’indice risulterà più basso rispetto ad una società dove le due variabili si equivalgono ma ad un livello inferiore [5]. Come vedremo nel prossimo paragrafo, ciò risponde in parte anche alle esigenze poste in essere da un altro nodo cruciale, ovvero l’esigenza di conciliare il benessere umano con i limiti del pianeta, in termini sia di risorse disponibili che di salubrità dell’ambiente e tutela degli ecosistemi. Ma torniamo per un momento all’Happy Planet Index (d’ora in avanti HPI). La variabile “benessere” viene misurata principalmente attraverso una singola domanda che, posta ad un numero selezionato di persone nel contesto di una survey studiata ad hoc, permette di giungere ad un’immagine relativamente fedele del benessere percepito all’interno della popolazione di riferimento (di solito un paese). Questa viene poi corretta dalla variabile “speranza di vita media”, all’interno della medesima popolazione, andando a formare la variabile “benessere” dell’HPI. L’aggiustamento si può tuttavia considerare marginale, e il problema dell’inadeguatezza di una misurazione basata precipuamente sulle percezioni individuali resta intatto. Tale criterio, infatti, sebbene dia la parola ai soggetti interessati, solleva due questioni che ne riducono considerevolmente l’attendibilità, specialmente in sede di comparazione geografica degli indici:

1. Le percezioni individuali sono per loro natura volatili, influenzate dall’umore degli intervistati, dalle loro aspettative e desideri, dalla situazione economica e sociale contingente, oltre che da innumerevoli altre variabili soggettive.

2. Gli individui posti all’interno di contesti di povertà, privazioni, assenza di diritti e conflitti sono in genere portati ad aspettarsi meno dalla vita, ad avere desideri modesti, e dunque ad accontentarsi ed essere felici con meno (sia a livello materiale che a livello di opportunità e di diritti) [6]. Dunque basando la misurazione del benessere umano principalmente sul benessere percepito si può giungere alla conclusione che non sia necessario intervenire dove ce ne sarebbe effettivamente bisogno, lasciando così inalterate le disuguaglianze.

Si palesa allora la necessità di elaborare criteri di misurazione del benessere che non dipendano in modo eccessivo dalle percezioni degli individui, e che tuttavia non rinuncino a porre questi ultimi al centro dei processi decisionali che li riguardano. Criteri validi per tale scopo si dà il caso che già esistano, e sono rintracciabili ad esempio nelle due teorie, note come “approccio delle capacità”, sviluppate dall’economista Amartya Sen e dalla filosofa Martha Nussbaum a cavallo fra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Queste (e in particolare la teoria di Sen) sono anche alla base dell’Indice dello Sviluppo Umano contenuto nei vari rapporti dello UNDP, dove però, come già accennato, la variabile economica ricopre ancora un ruolo sostanziale. Per un riassunto esaustivo del contenuto delle due teorie sarebbero necessarie molte pagine (me ne sto occupando nel saggio in corso di stesura citato in nota 1), qui basti sapere che si tratta di due teorie di carattere etico-normativo che si pongono come obiettivo l’individuazione di criteri atti al perseguimento del benessere umano mediante lo sviluppo da parte degli individui di quelle capacità (intese come abilità + opportunità esterne) che consentano loro di scegliersi la propria strada e di intraprendere in modo autodeterminato una vita felice. Il benessere umano è qui legato al possesso di una serie di capacità fondamentali comuni a tutti gli individui a prescindere dalla cultura di appartenenza [7], quali il godere di buona salute, la possibilità di utilizzare i propri cinque sensi, di intrattenere relazioni con i propri simili e con animali e piante, di svolgere attività ricreative ecc..
Non si tratta comunque di capacità imposte, in quanto la libertà individuale (che Nussbaum, rifacendosi ad Aristotele, chiama ragione pratica) costituisce il perno dell’approccio.

2. Benessere umano e limiti biofisici

Avendo circoscritto e definito (seppure non troppo nei particolari, per non ledere il carattere liberale della teoria) il fine ultimo comune alle diverse vie possibili alla decrescita, occorre procedere all’elaborazione di criteri atti alla selezione dei mezzi [8] leciti per il suo conseguimento. Direi che i principali criteri di legittimità, nella prospettiva di una decrescita orientata al benessere umano, possano essere essenzialmente due:

1. L’utilizzo di mezzi che violino libertà individuali, capacità e opportunità degli individui non può essere legittimato, nemmeno al fine di perseguire un maggiore benessere futuro. Allo stesso modo non andrebbero sacrificate le libertà, le capacità e le opportunità potenziali delle future generazioni al fine di espandere il benessere degli uomini e delle donne del presente.

2. I mezzi adottati dovrebbero tenere conto di due importanti variabili biofisiche [9]: la scarsità di risorse e l’inquinamento. La riduzione dello stock di risorse – a livello sia locale che globale – e l’espansione dell’inquinamento possono infatti apportare effetti negativi al benessere individuale.

Non credo sia necessario argomentare il secondo punto, in quanto gli effetti del progressivo degrado degli ecosistemi e dell’impauperimento degli stock di materie prime sulle nostre vite è sotto gli occhi di tutti. E tuttavia l’utilizzo di una certa quantità, per quanto minima, di tali risorse è necessario all’espansione del benessere individuale, nonché alla sua estensione alla grande maggioranza della popolazione del pianeta.
Occorre dunque prediligere mezzi che ottimizzino l’impiego delle risorse – specialmente quelle scarsamente riciclabili – e al tempo stesso limitino al minimo le esternalità negative in termini di inquinamento che potrebbero neutralizzarne i benefici. Tenendo a mente la concezione di benessere umano elaborata da Martha Nussbaum (comunque aperta, per ammissione stessa dell’autrice, a modifiche ed ampliamenti), e lavorando attivamente alla diffusione di una cultura della sobrietà, credo sia possibile (oltre che necessario) incrementare il benessere “pro capite” ed estenderlo ad un numero maggiore di persone senza distruggere con ciò l’ambiente che ci ospita. Portare a compimento tutto questo in tempi ragionevolmente rapidi significa tuttavia fare i conti con un terzo nodo, che se non sciolto al più presto potrebbe rendere pressoché inutile ogni altro sforzo: il problema demografico.

3. La sfida demografica e le possibili soluzioni liberali

Oltre al problema energetico e all’inquinamento, occorre prestare attenzione al problema demografico. Secondo le Nazioni Unite il 31 ottobre 2011 la popolazione mondiale ha raggiunto quota 7 miliardi [10]. Gli studi di Andrew Ferguson, dell’Optimum Population Trust, indicano che anche se l’attuale numero di abitanti del pianeta adottasse uno stile di vita occidentale modesto basato interamente sulle energie rinnovabili, necessiteremmo pur sempre di 2 pianeti [11]. Considerando che l’estensione dello stile di vita occidentale a tutto il mondo è l’obiettivo più o meno implicito della cooperazione internazionale e in particolare di FMI e Banca Mondiale, ci si rende facilmente conto di quali e quanti problemi un tale numero di consumatori possa innescare, sia a livello energetico che a livello di inquinamento. E’ allora prioritaria la ricerca e l’implementazionedi soluzioni che riorientino lo sviluppo (inteso come sviluppo sociale e umano, delle opportunità e dei diritti) senza intaccare le capacità e il benessere delle persone, e possibilmente consentano di espanderli.
Queste, seguendo l’approccio della decrescita, potrebbero essere due (da adottare per quanto possibile contemporaneamente):

1. Ridurre i consumi energetici e l’impatto ambientale pro-capite (iniziando da chi consuma di più).

2. Avviare una decrescita demografica che porti la popolazione globale ad un numero sostenibile per il pianeta.

Entrambe le soluzioni, naturalmente, andranno implementate per quanto possibile su base volontaria, mediante sistemi di incentivi [12] e campagne di sensibilizzazione su larga scala. In ogni caso evitando quei sistemi di stampo malthusiano assolutamente incompatibili con le teorie della decrescita, con l’approccio delle capacità e più in generale con qualsiasi tipo di etica liberale [13]. Va notato che le due variabili – eccessivi consumi e ipertrofia demografica – sono strettamente interconnesse: più si riduce la popolazione e più alto sarà il livello di consumi pro capite sostenibile in una prospettiva di lungo e lunghissimo periodo [14]. Sebbene la riduzione di una delle due variabili possa apportare singolarmente un beneficio enorme a livello globale, solo l’attuazione di entrambe le soluzioni potrà spianare veramente la strada ad una società più sobria e meno gravosa per l’ambiente e per gli ecosistemi.

Mi fermo qui, rimandando l’ulteriore l’approfondimento di queste ed altre questioni (comprese le argomentazioni a certe mie affermazioni che per ragioni di spazio non ho potuto riportare in questo articolo) alla pubblicazione del mio saggio.

Note:

1. I temi trattati e le idee espresse in questo articolo saranno oggetto di maggiore approfondimento in un saggio in corso di stesura.
2. Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, 2011.
3. Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, 2011.
4. Massimo Fini, Il vizio oscuro dell’occidente, 2002.
5. La procedura per il calcolo dell’indice è in realtà un po’ più complessa di così, e ad esempio bassi livelli di benessere vengono evidenziati in negativo dall’indice anche in presenza di alti livelli di efficienza energetica. Tuttavia ai fini di questo articolo non è necessario addentrarci troppo in tali sottigliezze. Per chi volesse approfondire la questione, questo è il sito di riferimento: http://www.happyplanetindex.org/learn/.
6. E’ il problema delle aspettative adattative sollevato da Elster.
7. Ciò vale in particolare per l’approccio di Nussbaum, che io prediligo. In ogni caso le differenze fra i due approcci sono sicuramente in numero inferiore ai loro punti in comune.
8. Utilizzo questo termine nella sua accezione più ampia, comprendendo ogni tipo di politica, pubblica e privata, come anche le azioni messe in atto da singoli individui.
9. Sarebbe forse necessario parlare di variabili “antropofisiche”, poiché il valore delle risorse naturali e di un ambiente salubre è dettato non da loro speciali qualità intrinseche, quanto dall’utilità che essi posseggono in quanto strumenti atti a garantire il benessere umano (il concetto si avvicina molto al “principio antropico” utilizzato in ambito cosmologico).
10. World population prospects, 2010, http://esa.un.org/unpd/wpp/index.htm.
11. D. Nicholson-Lord, 2006, Sommes-nous trop nombreux?. Citato in Latouche, 2007.
12. Si potrebbero sviluppare, fra le altre cose, sistemi di incentivi alle famiglie poco numerose. Un’ altra possibilità sarebbe quella di agevolare la diffusione dell’istruzione fra le donne ed aumentarne il livello medio (e quindi, nell’ottica di Nussbaum e Sen, aumentarne le capacità); l’istruzione delle donne infatti, come dimostrano diversi studi sull’argomento, possiede una connessione negativa con i tassi di fertilità. Sorgerebbero però una serie di problemi, primo fra tutti l’invecchiamento della popolazione causato sul breve periodo da una decrescita demografica, con la conseguente contrazione della popolazione attiva e l’aggravarsi del carico fiscale ed assistenziale su quest’ultima. La soluzione auspicabile sarebbe allora forse una decrescita demografica progressiva, dilazionata nel tempo. In ogni caso il problema è molto complesso e necessiterebbe di una trattazione più approfondita, per cui questa non è tuttavia la sede adatta.
13. Naturalmente, come ci ha insegnato Georgescu-Roegen, per via della seconda legge della termodinamica nessuna società umana, nemmeno una società della decrescita, è veramente sostenibile sul lunghissimo periodo. Se anche lo fosse, comunque, l’umanità dovrebbe infine fare i conti con il ciclo di vita limitato del Sole, che renderà la Terra inabitabile fra circa un miliardo di anni (fonte: newscientist.com).

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Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

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