Se, come dice il proverbio, non c’è due senza tre, allora dopo Maurizio Pallante e Mauro Gallegati posso solo sperare vivamente che anche Aldo Giannuli legga questo articolo e lo commenti qui su DFSN. Per chi non lo sapesse, Giannuli è uno storico – per davvero, non come certi giornalisti autoproclamatisi tali – da me molto apprezzato (in particolare sono un grande estimatore de L’abuso pubblico della storia. Come e perché il potere politico falsifica il passato, opera che verte sul revisionismo e argomenti correlati). Si tratta di un intellettuale marxista e intelligente, ragion per cui si è distaccato apertamente da diverse correnti contemporanee del marxismo, anche se molto di moda nel pensiero ‘antagonista’. Propongo questo articolo tratto dal suo blog perché illustra perfettamente come persone pur molto acute possano ugualmente cadere in errore riguardo la decrescita e i limiti dello sviluppo; nel frattempo, essendo passati quasi cinque anni dalla stesura, è molto probabile che la consapevolezza su questi temi sia migliorata. Tra parentesi in corsivo i miei commenti al testo.
I limiti alla crescita e la crescita dei limiti – Aldo Giannuli, 15 settembre 2011
Uno dei motivi per cui questa crisi è diversa da tutte le altre è la presenza di un “limite ambientale” che rende problematico un approccio “sviluppista”. Sicuramente da questa crisi non usciremo senza un rilancio produttivo delle economie occidentali, ma, questo significa anche un maggior consumo di materie prime (fra cui quelle non rinnovabili) e noi siamo già oltre il limite della sostenibilità del pianeta.
(Analisi sintetica quanto perfetta, peccato però che Giannuli non ne tragga la conclusione ovvia: che uscire dalla crisi attuale, almeno secondo i canoni classici dell’economia, è semplicemente impossibile)
E per di più, gli occidentali –che già consumano da soli più di quanto il pianeta non sia in grado di riprodurre – non intendono modificare di niente i loro consumi e gli Emergenti (che sono numericamente il quadruplo degli occidentali) aspirano ad un miglioramento delle loro condizioni di vita consumando di più ed è piuttosto complicato andare a dire a cinesi, indiani, egiziani, brasiliani, messicani ecc che, per il bene del pianeta, devono continuare a mangiare (poco) riso o mais e ad andare a piedi. D’altra parte, vi pare che saremmo un pulpito credibile per questa predica?
(Anche qui per qualche ragione gli sfugge il corollario logico di tutto il ragionamento: condizione necessaria – ahimé non sufficiente – per una maggiore equità sociale planetaria è il drastico contenimento dei consumi occidentali, visto che – come osservato giustamente – ci troviamo già oggi ben oltre i limiti di sostenibilità)
Per cui, considerando le tendenze demografiche in atto e l’aspirazione a consumare di più dei popoli emergenti, dobbiamo prevedere nel prossimo futuro una crescita lineare dei consumi.
(Nuovamente non si capisce perché, con spregio delle ottime premesse iniziali, Giannuli cada in questa palese contraddizione anteponendo ‘l’erba voglio’ al realismo. Inoltre, sento già le proteste degli amici neomalthusiani riguardo alla mancanza di qualsiasi accenno al controllo demografico…)
Non ci vuole molto a capire che, molto prima che un collasso degli equilibri ecologici del pianeta, si presenteranno problemi economici (e politici) semplicemente drammatici: quando la popolazione mondiale sarà arrivata a 9 miliardi e le abitudini alimentari degli Emergenti saranno migliorate, quale sarà il prezzo di grano, soia, riso, carni, mais ecc? E a quale livello di consumi del petrolio saremo arrivati? E via di questo passo. Già da oggi i paesi che se lo possono permettere (Cina, Russia, Corea del Sud, diversi paesi Ue) si stanno ponendo il problema della sicurezza alimentare ricorrendo a quella follia che è il land rabbing (acquisto della terra) soprattutto in Africa. Cioè stanno ponendo le premesse per affamare intere popolazioni e per scatenare una corsa senza esclusione di colpi fra loro: è troppo pensare ad un futuro non lontanissimo di rivolte popolari per la fame, di conseguenti interventi militari, di colpi di Stato per imporre “governi amici” ed, al limite, di confronti militari diretti fra le grandi potenze?
(Giannuli dà prova, se non proprio di pensiero sistemico, di un’ottima visione dialettica da marxista non dogmatico. Il problema ambientale in realtà è anche politico e sociale)
Diciamo subito di non credere nell’ipotesi della decrescita caldeggiata da Latouche: non fosse altro per la necessità di nutrire, vestire, istruire ecc. altri 2 miliardi di esseri umani entro i prossimi 20 anni, questa non è una strada praticabile ed, anzi, accelererebbe il rischio di scontro militare.
(Qui semplicemente lo storico dimostra di non sapere che cosa sia la decrescita. Essa non è un’ideologia universalista – anzi, non è proprio un’ideologia – è un atteggiamento che nasce dalla constatazione della realtà e cerca di proporre soluzioni all’interno di una comunità di riferimento. Non è alla ricerca di soluzioni universali, come il marxismo, ad esempio. Latouche, Pallante, ecc. si rivolgono alla società di cui fanno parte – quella occidentale – dove il problema maggiore riguardo alla sostenibilità è legato ai consumi. Da qualche parte ci sarà un Latouche nigeriano o di altra nazione sovrappopolata che rivolgerà maggiore attenzione agli andamenti demografici e non certo ai consumi, spesso gravemente insufficienti in quei contesti)
Ma, lasciamo da parte questi scenari non remoti, ma neppure immediati, e poniamoci il problema nei termini più vicini, in particolare al problema della ripresa produttiva dei paesi occidentali ed alla loro conciliabilità con i vincoli di tipo ambientale.
(Più avanti nel testo Giannuli si lamenta della visione a breve termine della finanza, ma adesso si sta comportando sostanzialmente allo stesso modo. Ha appena intravisto i rischi di una pesantissima crisi alimentare planetaria e invece di concentrare le riflessioni su questo aspetto sposta l’attenzione su come conciliare business as usual e ambiente)
Va da sè che non possiamo continuare a consumare ad un ritmo superiore a quello con il quale le risorse si rinnovano, per con dire di quelle non rinnovabili: una più saggia amministrazione dei beni esistenti è una necessità irrinviabile, soprattutto da parte degli occidentali (giapponesi inclusi) che sono in preda ad una follia consumistica autodistruttiva di cui riparleremo.
(Nuovamente contraddittorio: se i limiti di sostenibilità sono stati superati, non si può pensare ad alcuna ripresa produttiva che andrebbe ad aggravarli)
Ma questo deve accompagnarsi anche ad altro e, in estrema sintesi, le strade possibili non possono che essere:
a- la ricerca di nuove risorse non utilizzate (come alghe e plancton per l’alimentazione umana. E’ noto, invece, che gli insetti, che pure sono consumati da africani ed asiatici, trovano molte resistenze da parte degli occidentali. Però, intanto, si potrebbe pensare a come utilizzarli per integrare il foraggio animale). In particolare, ricerca di fonti rinnovabili di energia (le alghe possono essere utili anche per le biomasse; si può approfondire la ricerca del nucleare per fusione e sviluppare la tecnologia del solare)
(Si può e si deve investigare tutto, ma anche prendere coscienza dei limiti delle soluzioni proposte. Qualche anno fa si decantavano le virtù delle alghe per produrre biocombustibili, ma il National Research Council frenò gli entusiasmi avvertendo su tutte le controindicazioni riguardo a un uso su vasta scala. Per quanto riguarda la fusione nucleare, oramai è meglio calare un velo pietoso. Resta la tecnologia solare e delle rinnovabili in generale, la quale ha grandi potenzialità ma anche vincoli importanti, se paragonata con le risorse fossili, impedendo qualsiasi ipotesi di sostituzione tout-court)
b- innovazioni di ciclo ed di prodotto che, a parità di risultato, riducano il consumo di metalli, petrolio, ed in generale di risorse non rinnovabili.
(Ottima osservazione, ma se non si punta alla decrescita si casca dalla padella alla brace a causa del paradosso di Jevons e si peggiora la situazione invece di migliorarla)
c- riciclaggio dei beni utilizzati, in particolare attraverso il recupero dei materiali pregiati (si pensi allo zinco, al rame, al ferro, oro, argento, mercurio, per non dire praseodimio, disprosio, terbio, europio, neodimio, ittrio ecc.
Insomma, se è vero che c’è il problema del limiti alla crescita (che lo ha insegnato già 40 anni fa Forrester) è anche vero che si può fare qualcosa per allargare i limiti. Almeno in parte.
(E qui arriviamo all’errore di valutazione peggiore: la tecnologia non allarga alcun limite, semplicemente permette di consumare più efficientemente le materie prime e ciò in alcuni casi può significare trasformare le risorse rinnovabili in non rinnovabili per l’eccessivo sfruttamento. Rimando alle ottime riflessioni di Jacopo Simonetta sull’argomento. Inoltre, il team di scienziati de I limiti dello sviluppo – che sfruttò i modelli di interpretazione dinamici di Forrester – ha chiaramente illustrato come la tecnologia possa posporre il tracollo economico, con il solo effetto però di rendere ancora più rapido e drammatico il declino)
Ma tutto questo esige massicci investimenti per la ricerca e per una politica industriale completamente nuova. E questa potrebbe essere la grande occasione per far rinascere la manifattura in Usa ed Europa, rimettendo in sesto la bilancia commerciale. Ma, questo è il punto, se l’impiego finanziario di una determinata somma promette profitti speculativi a breve o brevissimo termine, per quale strana ragione si dovrebbe investire nell’industria o nella ricerca per vedere quei guadagni di 5-10-15 anni?
(Giannuli nel 2011 non poteva saperlo, ma all’interno della super élite qualcosa ultimamente si è mosso, basti pensare alla storica decisione della famiglia Rockfeller di abbandonare il business del petrolio; l’attuale crisi deflattiva delle materie prime, idrocarburi in testa, ha scompaginato le carte in tavola. Detto questo, il problema del carattere ‘mordi e fuggi’ della finanza è ovviamente ben lungi dall’essere risolto).
E qui torniamo al nodo della super-bolla finanziaria che oggi costituisce il principale ostacolo alla crescita.
(Esistono tanti detrattori della decrescita che, in realtà, hanno semplicemente un grosso problema a rapportarsi con il mondo reale, avendo al massimo una vaghissima idea delle vicissitudini ecologiche che stiamo attraversando. Giannuli non solo non è un negazionista ambientale ma, nell’ordine:
- è consapevole del fatto che abbiamo ampiamente superato le soglie di sostenibilità planetarie;
- riconosce la ‘follia consumistica’ occidentale e giapponese;
- è capace di immaginare le conseguenze geopolitiche delle problematiche ecologiche.
Nonostante ciò, tutto quello che alla fine riesce a proporre è un po’ più di efficienza produttiva e, soprattutto, non riesce a emanciparsi dall’idea che la crescita economica sia un obiettivo comunque da perseguire; addirittura, ritiene che nel prossimo futuro “assisteremo a una crescita lineare dei consumi”, contraddicendo palesemente le premesse iniziali. Perché tutto questo feticismo per la crescita? Ovviamente, nel sistema economico attuale la mancanza di crescita significa recessione e quindi aggravamento dei già pesanti squilibri sociali. Scrive lo storico in un altro post del suo blog: “Ed allora, riusciranno i nostri eroi della sinistra d’antan a capire che esiste qualcosa di diverso dal presente?”. Noi siamo convinti che Giannuli ne sia capace, augurandoci che dal 2011 a oggi abbia sviluppato ulteriormente le proprie riflessioni).
Immagine in evidenza: Aldo Giannuli