Decrescendo & decostruendo / Giovanni Mazzetti e la ‘decrescita regressiva’ di Latouche

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Se mi fermano per strada e mi chiedono a bruciapelo “sei di destra o di sinistra?”, rispondo “di sinistra”. Anche se è passato molto tempo dalla mia militanza (per altro limitata ed eterodossa), anche se non credo più in capisaldi vecchi e nuovi come la socialdemocrazia, il marxismo, la lotta di classe e lo sviluppo sostenibile, credo che la mia aspirazione alla giustizia sociale, alla pace tra i popoli e all’uguaglianza facciano di me ancora una persona che possa essere inserita idealmente nella sinistra. Per tali ragioni, provo molto dispiacere quando da persone dichiaratamente di sinistra arriva una critica nei confronti della decrescita non costruttiva ma mistificatoria e superficiale.

L’articolo oggetto di decostruzione è stato scritto da Giovanni Mazzetti nel 2012 per Il Manifesto, “quotidiano comunista” che in questa occasione ha dimostrato un livello dialettico degno della destra salottiera più arrogante e volgare. Siccome questo pezzo è stato pubblicato sul numero del primo aprile, confido ancora che si tratti solamente di uno scherzo e che Mazzetti, senza per forza essere diventato un decrescente, sia capace di argomentazioni più intelligenti e profonde. Come al solito tra parentesi in corsivo i miei commenti al testo.

Decrescita, fuga verso il passato Giovanni Mazzetti, Il Manifesto, 1 aprile 2012

L’abbondanza felice dei nostri antenati, come la descrive Latouche, non esiste. (Peccato che non esista neppure tale descrizione da parte di Latouche)

E non ci sono limiti ai bisogni dell’uomo. (Pensiero opinabile, ma ovviamente legittimo solo che… si tratta dell’idea centrale del capitalismo, specialmente nella versione neoliberale! Non è che Mazzetti ha sbagliato testata e che questo articolo era per il Wall Street Journal?)

Sarà capitato a molti di coloro che si sono presi o si prendono cura di parenti anziani di sentirli ripetere che i tempi in cui sono stati giovani erano «altri tempi». Poiché questa evocazione è, in genere, un segno del sopravvenire di una loro fragilità progettuale, sollecita nell’interlocutore soprattutto un sentimento di comprensione e di tenerezza. (Non so voi, ma quando parlo con un anziano non lo tratto necessariamente con sufficienza a causa della sua “fragilità progettuale” – che mi sembra un modo gentile per dire “rincoglionimento”. Lo ascolto e cerco di capire, a volte mi pare che gli anziani rimpiangano delle cose mitiche, altre volte invece condivido i loro pensieri. Avere nostalgia dei “treni in orario” o delle “ragazze con le sottane sotto il ginocchio”, non è uguale a rammaricarsi di un ambiente più sano o di una maggiore coesione sociale).

Il quadro è ben diverso se, invece di un’evocazione nostalgica di un passato ormai tramontato, ci troviamo di fronte ad un tentativo di riportarci effettivamente indietro a quei tempi, con l’affermazione di una reale superiorità della forma di vita dell’epoca e la sollecitazione ad agire sulla base delle sue regole. (Evidentemente Mazzetti deve aver avuto a che fare con nostalgici del nazi-fascismo o del comunismo sovietico… piena solidarietà in questo caso).

Non solo in questo caso non c’è alcuna tenerezza, ma è quasi inevitabile che si instauri una polemica.

1) Si può comprendere perché il quadro sia ben peggiore quando ci si trova di fronte ad una persona un(a) giovane saputello(a), che pontifica su come instaurare una situazione virtuosa. (“Giovane saputello che pontifica”… questa mi sembra la classica descrizione dei gruppi universitari di sinistra fatta da loro detrattori… Sono sempre più convinto che si tratti di un articolo per Libero o Il Giornale: un militante di sinistra non utilizzerebbe mai contro un avversario delle etichette denigranti che si è visto affibbiare contro in prima persona)

Non sto parlando di un evento eccezionale. Non c’è seminario universitario, iniziativa culturale o politica che non veda prima o poi sbucare dal mucchio i membri di una strana congrega, i quali ripetono ossessivamente e con forza che la soluzione dei nostri problemi sarebbe garantita dall’adesione a un progetto salvifico: quello della decrescita. (Addirittura una “strana congrega”! Si presentano per caso incappucciati in stile Ku Klux Klan? Contento comunque di sapere che nelle università ci siano così tanti studenti interessati alla decrescita, e che diano scandalo ai benpensanti)

E’ senz’altro comprensibile che, essendo immersi in una società nella quale sentono ripetere da anni che tutti dovremmo adoperarci per la crescita, e percependo la malafede di chi addita questo obiettivo, rovescino la prospettiva nel suo opposto. (In pratica per Mazzetti la decrescita prescinde da considerazioni sulla sostenibilità ambientale e l’autonomia dell’individuo, non è altro che una reazione isterica infantile: “Mamma e papà non mi danno il gelato? E allora non voglio più il gelato!” – “Non ci date la crescita! E allora noi vogliamo la decrescita, ecco!”)

Ma, in contrasto con il tono con cui viene proferita, si tratta di una reazione di impotenza, analoga a quella degli anziani che rivanno col ricordo ai loro anni giovanili. E dunque è destinata a non incidere in alcun modo sulla dinamica in corso, nonostante il fervore col quale viene brandita. Non riprenderò qui le molte ingenuità con le quali ho dovuto ricorrentemente confrontarmi. Ma non posso ignorare una recente intervista di quello che viene considerato una sorta di guru del movimento, Serge Latouche, pubblicata da la Repubblica (Marino Niola L’utopia frugale 14/1/2012) per presentare il suo ultimo libro, perché a mio avviso testimonia che l’ingenuità non è appannaggio degli adepti più scalcinati. (E direi neppure solo degli ‘adepti’ della decrescita! Si noti il linguaggio volutamente offensivo, volto a identificare non dei legittimi avversari dialettici ma una pericolosa setta di invasati)

Sostiene, ad esempio, Latouche che la nostra non sarebbe una società dell’abbondanza dato che «l’unica società dell’abbondanza della storia umana sarebbe stata quella del paleolitico, perché allora gli uomini avevano pochi bisogni e potevano soddisfare tutte le loro necessità con solo due o tre ore di attività al giorno. Il resto del tempo era dedicato al gioco, alla festa e allo stare insieme». Questa operazione, che Latouche riprende dal Sahlins de “L’economia dell’età della pietra”, ha un nome: si chiama proiezione. (No, al più si tratta di “provocazione”! Latouche non rimpiange il paleolitico, sta semplicemente dicendo che la nostra società, enormemente più ricca, non è una società dell’abbondanza perché viene instillato nelle persone l’idea che manchi sempre qualcosa, che ci siano continuamente dei bisogni non soddisfatti. Infatti nell’intervista citata da Mazzetti l’intellettuale francese proseguiva: “In realtà proprio perché è una società dei consumi la nostra non può essere una società di abbondanza. Per consumare si deve creare un’ insoddisfazione permanente. E la pubblicità serve proprio a renderci scontenti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. La sua mission è farci sentire perennemente frustrati. I grandi pubblicitari amano ripetere che una società felice non consuma. Io credo ci possano essere modelli diversi. Ad esempio io non sono per l’ austerità ma per la solidarietà, questo è il mio concetto chiave. Che prevede anche controllo dei mercati e crescita del benessere”.

L’induzione dei bisogni dall’esterno è sempre stato un caposaldo del marxismo, Baudrillard e Bauman ci hanno dedicato intere opere. Troppo ingenui anche loro per il “quotidiano comunista”? Comunque sia, Mazzetti cadi in un corto circuito logico non da poco: se Latouche è in errore, quindi se noi viviamo in una società dell’abbondanza… allora che bisogno c’è di crescere ancora?)

Detta in termini elementari: fantastico di una condizione nella quale gli aspetti della vita che mi infastidiscono non ci siano e immagino che sia esistito un contesto nel quale essa fosse storicamente data, e abbia prodotto proprio gli effetti positivi che auspico. Se i nostri antenati, ben più poveri e ben più ignoranti di noi hanno vissuto questa Bengodi, perché mai le mie fantasie non dovrebbero essere praticabili oggi? Fourier, che chiamava la sua fantasia società armoniana invece che della decrescita felice, non si muoveva su un terreno molto diverso, ma ebbe almeno l’intelligenza di riconoscere che, in qualche modo, stava parlando di ciò che i suoi antenati avevano definito come il paradiso terrestre. (Invece Latouche non si è mai sognato di definire il paleolitico il paradiso terrestre! Semmai lo hanno fatto John Zerzan e i primitivisti!).

2) Il fatto è che le vicende reali sono molto più complesse di queste fantasie di fuga. (Già, “fantasie di fuga” detto da uno che crede nella crescita infinita…)

Dire che gli esseri umani del paleolitico «avevano pochi bisogni», e che questa limitatezza svolgeva un ruolo positivo, equivale a sostenere che la loro animalità sia da considerare superiore all’umanità che è stata successivamente prodotta; che ci sarebbe stata più libertà nella vita del selvaggio che in quella dell’incivilito. (Gli uomini del paleolitico avevano più libertà dal lavoro, ma ovviamente erano alla mercé di altre situazioni che Mazzetti si sentirà in dovere di illustrarci nelle righe successive pur essendo ben note a tutti. Nessuno ha mai detto di preferire “l’animalità” “all’umanità!”)

Un’idea che, per il Marx dell’Ideologia tedesca può essere concepita solo se non si sa nulla né della vita del selvaggio né di quella dell’individuo civile, e ci si rappresenta la prima in modo favolistico. Altro che un «giocoso stare insieme»! (Per scrivere le prossime righe bastava un sussidiario delle elementari, non serviva scomodare L’ideologia tedesca e Marx)

La maggior parte dei reperti fossili dell’epoca ci parlano di morti traumatiche, dovute alle continue battaglie con coloro che non appartenevano al ristretto gruppo locale simbioticamente organizzato in tribù. Altro che «facile e completa soddisfazione dei propri bisogni»! Spesso la caccia implicava non solo giorni e giorni di inseguimento della preda, ma anche gravi incidenti agli stessi cacciatori, oltre ai riti totemici, per placare la paura dell’animale ucciso. Quasi sempre l’acqua era talmente scarsa da richiedere non solo un’immane fatica per procurarsela, ma anche continui scontri che gli altri gruppi che cercavano di monopolizzare le sorgenti e le riserve. Ecc., ecc. (Nel tentativo di presentare i decrescenti come degli idioti, sembra che i sostenitori della crescita infinita si sentano sempre obbligati a spiegare che cosa sia l’acqua calda. L’ultimo paragrafo dell’articolo è comunque consigliato come bignami a chiunque abbia un bambino di seconda elementare che deve prepararsi per l’interrogazione sull’uomo primitivo)

Certo, c’erano anche momenti in cui, come gli animali che riescono a saziarsi, i nostri antenati godevano di un rilassamento appagato. Ma sono stati quei pochi che non si acquietavano a questa limitata soddisfazione, e hanno coltivato il bisogno di una capacità superiore, che hanno creato le condizioni per lo sviluppo – spesso contraddittorio, ma non per questo meno vero – di quella facoltà che chiamiamo umanità.

3) A riprova del fatto che la proposta culturale della decrescita poggia anche su un’incomprensione delle condizioni di vita dell’uomo civile sta l’altra considerazione di Latouche. «La nostra», dice, «non può essere considerata una società di abbondanza perché è una società dei consumi. Per consumare si deve creare un’insoddisfazione permanente. E la pubblicità serve proprio a renderci scontenti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. La sua missione è farci sentire perennemente frustrati». Si noti il rovesciamento logico rispetto alla considerazione riferita agli esseri umani del paleolitico. Lì era l’eccesso di disponibilità di beni economici rispetto ai limitati bisogni che consentiva di definire la situazione come «di abbondanza». Ora un eccesso ben più rilevante del passato non dovrebbe essere considerato alla stessa maniera, solo perché qualcuno cerca di piegare l’espansione dei bisogni al di là del livello dato a suo vantaggio, spingendo affinché essi si trasformino in una domanda. (Probabilmente la sinistra, anche quella orgogliosamente ‘radicale’, è molto cambiata dai tempi della mia militanza, ma insisto nel dire che, al più, si può contestare Latouche per aver espresso opinioni che la critica di sinistra ripete da più di quarant’anni. Evidentemente adesso la pubblicità e la creazione di bisogni artificiosi sono diventate rivoluzionarie!)

Invece di trattare l’abbondanza come un fatto constatabile per via empirica, la si trasforma in uno stato mentale, in un rapporto soggettivo con l’ab-onda nella quale si concretizza l’eccedente. Qui il progetto della decrescita mostra chiaramente la sua natura regressiva. E’ fuori di dubbio che l’abbondanza non possa essere definita a prescindere dai bisogni, nel senso che questi esprimono lo sviluppo raggiunto dalla soggettività umana, mentre la disponibilità dei mezzi che consentono di soddisfare quei bisogni costituisce la misura della maggiore o minore ricchezza, che caratterizza la vita umana a quel livello. Ma ciò che distingue gli umani dagli animali e proprio il fatto che «la soddisfazione di un bisogno non si esaurisce in se stessa, ma piuttosto fa emergere altri bisogni»(Marx), questo perché, come afferma Marcuse, «l’essere dell’uomo è sempre più della sua esistenza». (Mah sì, dopo Marx citiamo anche Marcuse a sproposito! Ma almeno Latouche terrà ben pulita la propria clava quando partecipa alle conferenze? E siccome mangerà sicuramente con le mani, almeno se le laverà prima?)

L’abbondanza alla quale si riferisce Latouche è l’abbondanza propria della vita animale che, proprio perché questi non ha bisogni al di là delle spinte pulsionali derivanti dal suo corredo biologico, è di volta in volta paga della sua stessa limitatezza. (Speriamo che nessuno abbia conosciuto Latouche per la prima volta leggendo questo articolo. È arrivato il momento di presentare il vero pensiero dell’intellettuale francese sull’abbondanza, senza la sconclusionata esegesi di Mazzetti: “È importante far capire alle persone che non si tratta di rinunciare alla lavatrice ma di avere una buona lavatrice, che non siamo obbligati a buttarla ogni due anni per comprarne una nuova, perché subito qualcosa non funziona più. La stessa cosa con il computer. Quelli nuovi sono più veloci? Allora si devono progettare e diffondere, come si faceva all’inizio, computer modificati ai quali aggiungere qualcosa per farli progredire. Un’esperienza importante di questo tipo è quella della Rank Xerox, con le sue fotocopiatrici pensate come dei moduli che si possono prendere e rinnovare. La Rank Xerox oggi vende più servizi di fotocopiatura e meno fotocopiatrici, di cui si prende cura nel tempo. Gettare oggetti pensati per durare poco è un’assurdità, io ho già buttato tre computer. È uno spreco di risorse incredibile. Si può concepire un computer che si può migliorare, che si può riparare e alla fine si può riciclare. Questo discorso vale per tutti i nostri strumenti, è la dimostrazione che si deve ancora sviluppare, si deve pensare la struttura produttiva del futuro meno come industria pesante è più come insieme di piccole imprese, ma anche singli artigiani che lavorano per il riciclo e riuso, per le riparazioni”)

Elevare questa limitatezza a modello, invece di spingere affinché la ricchezza eccedente riesca ad andare incontro ai bisogni emersi, cioè a mediare uno sviluppo che poggia su una nuova base, comporta una mistificazione che, a mio avviso, non può essere condivisa. (Completamente d’accorso sulla chiosa finale! Non condividiamo mistificazioni!)

(Fonte immagine: Wikimedia rielaborata dall’autore)

 

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

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