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Sostituzione dei materiali
Per quanto riguarda la sostituzione dei materiali, Simonetti abbonda di esempi boomerang, suggeritigli dall’unica fonte impiegata e citata occasionalmente in una nota, ossia il libro di Paul Collier Il sacco del pianeta. A pag. 65 di Contro la decrescita riporta quelli che, a suo dire, sono fatti storici che dovrebbero indurci all’ottimismo sulla capacità di sostituire le risorse in via di esaurimento:
La storia, antica e recente, abbonda di casi in cui, ancor prima dell’esaurimento di un dato bene, esso ha già perduto ogni importanza. Nel tardo Medioevo, ricorda Paul Collier, l’Inghilterra temette di restare senza legno di tasso per costruire gli archi del suo esercito; ai primi dell’Ottocento, temette di restare senza alberi di alto fusto per i pennoni delle sue navi; ma in entrambi i casi, pochi decenni dopo, nuove invenzioni hanno reso inutile il legname, e gli inglesi si sono rinfrancati. A metà Ottocento, erano nitrati e guano la risorsa naturale più importante, e il petrolio si usava per asfaltare le strade e accendere i lumi; cinquant’anni dopo, il petrolio era diventato insostituibile, mentre nitrati e guano avevano perso ogni valore.
C’è da rimanere strabiliati: gli stessi identici esempi si possono usare a sostegno della decrescita! Sono delle ottime pillole di storia entropica della civiltà occidentale, le quali però ben difficilmente servono allo scopo dichiarato di Simonetti, ossia dimostrare che il suo ragionamento
…è già provato dai fatti storici, non è cioé, come vorrebbero i catastrofisti, un wishful thinking di inguaribili ottimisti e di fanatici adoratori del progresso e della scienza (o magri servi prezzolati del capitalismo globale). La storia, antica e recente, abbonda di casi in cui, ancora prima dell’esaurimento di un dato bene, esso ha perso di importanza. (pag. 65)
Simonetti si scorda però che, per venire incontro alle esigenze attuali, l’esempio deve prevedere anche una riduzione complessiva dell’energia. È qui che si misura la differenza tra concretezza e wishful thinking.
L’agricoltura inglese, da ciclo chiuso basato sulle deiezioni animali e la rotazione delle colture, con l’apporto del guano si trasformò in un ciclo aperto, necessitando di un input esterno di energia in quanto il guano in questione proveniva dal Perù (1). L’uso di fertilizzanti chimici, oggi dei fosfati in particolare, aumenta l’input energetico perché, oltre all’energia per l’estrazione dal minerale, si aggiunge quella per i processi chimici di purificazione. La produzione agricola è aumentata, ma le innovazioni che hanno consentito tale progresso hanno richiesto sempre più energia: se ragioniamo in termini di efficienza, è certo che nel sistema contadino tradizionale l’output energetico alimentare superasse l’input (in questo caso energia umana e animale); su questo versante invece l’agricoltura moderna è assolutamente in deficit:
Un semplice contadino che lavora con le sue mani si dice che produca dieci calorie di energia per ognuna spesa, al contrario il contadino dell’Iowa può produrre fino a seimila calorie per ogni caloria spesa in lavora umano, ma questa apparente efficienza si rivela essere soltanto un’illusione quando si va a calcolare tutta l’energia spesa nel processo. Per produrre “appena una lattina di mais che contiene 270 calorie”, l’agricoltore impiega 2790 calorie, la maggior parte delle quali sono costituite dall’energia per far funzionare le macchine e da quella contenuta negli antiparassitari e fertilizzanti sintetici applicati alla coltura, e così per ogni caloria prodotta l’agricoltore americano ne usa dieci come energia di processo. (2)
Per inciso, nel capitolo ‘L’agricoltura di sussistenza’ di Contro la decrescita l’agricoltura industriale viene esaltata per la sua produttività senza alcun riferimento al bilancio energetico e alla pesante dipendenza da input fossili, usando come unico documento di riferimento un rapporto FAO del 1959.
Anche l’esempio delle navi si scontra con le medesime evidenze: una materia prima rinnovabile (legname) è stato sostituita con una non rinnovabile (metallo), il cui trattamento è energicamente più oneroso. Tra l’altro, Simonetti dimentica che, per la costruzione dello scafo di navi di grandi dimensioni, da fine Ottocento a oggi si è passati dal legno all’acciaio senza nuovi ritrovati; da questo punto di vista, non intercorre particolare differenza tra il Titanic e la Costa Concordia. Plastica e leghe leggere di alluminio si usano solo per imbarcazioni di dimensioni contenute. In ogni caso, i ragionamenti di Simonetti sulla sostituibilità funzionano solo in presenza di trend energetici in ascesa, prospettiva ben diversa da quella che ci aspetta. Simonetti ha quindi completamente sbagliato la scelta dei materiali per dimostrare la propria tesi, ma quali avrebbe potuto proporre? (3)
Molte materie prime non rinnovabili, almeno a livello di funzionalità, si possono sostituire con altre naturali e rinnovabili, è un concetto che i decrescenti (non da soli) ripetono da anni e per il quale non vanno quindi convinti. Ma, per convalidare gli assunti di Simonetti, bisogna trovare materie prime rinnovabili che non solo si sostituiscano, ma permettano di mantenere i ritmi di produzione industriali, compito abbastanza improbo. Proviamoci.
A partire dalla fine degli anni Ottanta, molte aziende decisero di sostituire i tensioattivi chimici dei detergenti, inquinanti, con altri di origine vegetale e quindi biodegradabili. Nel libro Blue economy, Guenther Pauli racconta che all’epoca, giovane ecologista mainstream, fondò l’azienda Ecolever, impegnandosi in questo settore, convinto di giovare all’ambiente prima di fare una scoperta agghiacciante. Per piantare alberi di palma da olio da cui ricavare i nuovi tensioattivi, i governi di molte nazioni del sud-est asiatico stavano compiendo massicce opere di deforestazione con il rischio di far estinguere gli Orango Utan, devastazioni purtroppo proseguite fino ai giorni nostri. Ecco un evidente caso di greenwashing, ossia di attribuzione inopinata di virtù ambientalistiche. Imparata la lezione, non è un caso che Pauli abbia concepito la blue economy attraverso cicli produttivi chiusi, per cui lo scarto di un’attività diventa materia prima per una successiva. Quest’esempio testimonia che i cicli naturali non sono compatibili con quelli della moderna civiltà industriale.
Vale la pena di una piccola digressione, utile però al dibattito complessivo sul libro di Simonetti. Nella conclusione di Contro la decrescita, l’avvocato romano, dopo aver duramente contestato i decrescenti per tutta l’opera, cerca di creare un clima più disteso:
Alla fine di questo libro, vorrei chiarire un possibile equivoco. Le teorie della decrescita muovono di solito da preoccupazioni legittime e condivisibili. Chi scrive, ad esempio, è senz’altro convinto che stiano avvenendo significative alterazioni climatiche, che alcune risorse naturali siano in via di esaurimento, che i suoli si impoveriscano, che le falde acquifere si inquinino e che questi e altri fenomeni non meno gravi, seppur meno nuovi (come la povertà e la disuguaglianza), pongano all’umanità sfide molto impegnative. Ma è proprio perché questi temi ci stanno a cuore, dovremmo evitare di farne una semplice moda, di limitarci a strillare slogan e di restare alla superficie: la questione cruciale sta nel modo di affrontare questi problemi, e prima ancora di studiarli… Perché il problema dovrebbe dipendere dalla crescita, anziché dalle ragioni per cui la società moderna opprime gli uomini e inquina l’ambiente, cioé dai modi di produzione? (pag. 232)
Simonetti, per quanto criticabile, è una persona di vastissima cultura. Ma le sue prospettive si allargherebbero enormemente se riflettesse sulle sue prolusioni storiche da un’ottica che non fosse solo tecnica. Non ci azzardiamo per un istante a mettere in discussione la sua buona fede: sembra davvero interessato alle sorti del pianeta e, pur non conoscendolo personalmente, non dubitiamo affatto che razzismo e pregiudizio etnico siano quanto di più lontano si possa associare alla sua persona.
Però, leggendo Contro la decrescita, è forte l’impressione che l’uomo prometeico descritto nel libro – intraprendente nel cavarsi di impaccio nel passato e pronto a reagire alla sfide del futuro – abbia immancabilmente i connotati dell’uomo bianco ed europeo: gli ultimi esempi riportati sono emblematici.
Simonetti spiega che, a metà Ottocento, dopo aver sostituito il legname con il metallo e il guano con i nitrati, ‘gli inglesi si sono rinfrancati‘. Purtroppo, qualche altro popolo nel mondo si è ‘rinfrancato’ decisamente di meno. Da dove si sono procurati gli inglesi i metalli e le nuove materie prime che hanno permesso la loro crescita e il loro sviluppo? Davvero a Simonetti è sfuggito che metà Ottocento coincide con l’epoca dell’imperialismo coloniale, di cui l’Inghilterra è stata la massima protagonista? Ed è un caso che le prime imbarcazioni con scafo interamente metallico fossero prevalentemente navi da guerra?
Nell’ultimo capitolo di Contro la decrescita, facendo un’indebita confusione tra gli antimodernisti di inizio Novento e i decrescenti, si accusa questi ultimi di voler ‘buttare a mare la la scienza, la democrazia, l’uguaglianza di fronte alla legge, i diritti umani’. Gli domandiamo: se le nazioni colonizzatrici, anziché agire come hanno fatto, si fossero comportate con i popoli del Sud del mondo in modo democratico, trattandoli da eguali e nel pieno rispetto dei diritti umani – cioé pagando diritti di ispezione e le opportune riparazioni per i danni ambientali, erogando congrui stipendi, permettendo alle nazioni coinvolte di operare legittime forme di protezionismo economico, rispettando la sovranità territoriale e le aspirazioni culturali – Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Belgio e gli altri colonizzatori avrebbero goduto della stessa crescita e dello stesso sviluppo in tempi altrettanto rapidi? E se oggi nel Sud del mondo sparisse il giogo neocoloniale e trionfassero democrazia e diritti umani, all’Occidente quanto inciderebbe sul PIL? Il ‘miracolo economico cinese’ o la rapida ascesa dell’URSS staliniana da debole nazione agricola a superpotenza nucleare si devono alla democrazia e ai diritti umani o sono stati realizzati attraverso una loro palese violazione?
Simonetti, resosi forse conto che esempi ottocenteschi non sono troppo convincenti, prova a giocare la carta del coltan, “di cui prima nessuno sapeva che fare, è diventato da un giorno all’altro prezioso per il suo uso nei telefoni cellulari” (pag. 65), ma incorre nell’ennesimo boomerang.
Il coltan è uno di quei minerali diffusi sul pianeta a bassissima concentrazione – alcuni di questi hanno appunto ricevuto la denominazione di ‘terre rare’ – che sono diventati preziosi in quanto fondamentali per la produzione di circuiti integrati, magneti, superconduttori e altre applicazioni elettrotecniche. Generalmente, i giacimenti di questi minerali sono localizzati in poche aree del pianeta relativamente risparmiate da intense attività estrattive; nel caso specifico del coltan, sono situati in Australia, Brasile e Africa centrale (dove il coltan sembra avere un ruolo centrale nella delicatissima situazione della Repubblica democratica del Congo, paese soggiogato da miliziani che intrattengono rapporti intensi con imprese occidentali), mentre la Cina è monopolista di molte altre (nel 2009 ha prodotto il 97% delle terre rare, soprattutto grazie ai bassi costi di produzione, e l’80% del tungsteno). La scarsità di questi elementi è tale che, dopo pochi anni, sono giunti al picco di produzione e a livello internazionale ne viene caldeggiato il riciclaggio, che nel caso delle terre rare raggiunge a fatica l’1%.
Non sorprende che tali minerali, essendo presenti sul pianeta in bassa concentrazione, siano usati quasi esclusivamente per micro applicazioni ad alta tecnologia. Non si costruirà mai una nave di coltan, neodimio o tecnezio, non hanno nulla a che vedere con la sostituzione delle materie prime quantitativamente più impiegate.
Confutando gli esempi di Simonetti, bisogna fare attenzione a non cadere nel suo stesso errore di fondo. Come per il petrolio, il problema centrale non è l’esaurimento fisico dei metalli nella crosta terrestre, bensì la disponibilità di energia per l’estrazione. Finché esistono risorse minerarie ad alta concentrazione e si dispone di energia abbondante e a buon mercato – come nel periodo d’oro delle fonti fossili, cioé dalla fine del XIX secolo e agli anni Settanta del XX – l’estrazione di metalli non è problematica, lo diventa nel momento in cui occorre sfruttare quelle a bassa concentrazione (come succede da alcuni anni) con l’energia che diventa più scarsa e costosa; la sola produzione di acciaio, ad esempio, comporta il consumo di circa il 5% circa della fornitura mondiale di energia (4). Ecco perché il riciclaggio diventa imprescindibile, ma nella prossima puntata capiremo che non è la soluzione di tutti i problemi.
(1) Piero Bevilacqua, La terra è finita, Laterza, Bari, 2006
(2) Jeremy Rifkin, Entropia, Baldini&Castoldi, Milano, 2000, pag. 218
(3) I fisici Goeller e Weinberg, teorizzatori del ‘principio di sostituibilità infinita’, già nel 1976 immaginavano di rimpiazzare minerali rari con altri comuni, ad esempio il rame con l’alluminio come conduttore nei cavi elettrici e l’acciaio inox (realizzato con il cromo, poco abbondante in natura) con il titanio; tuttavia, la produzione di alluminio e titanio è energicamente più gravosa di quella dei corrispettivi omologhi; inoltre l’alluminio in fili sottili è altamente infiammabile.
(4) Ugo Bardi, La terra svuotata. Il futuro dopo l’esaurimento dei minerali, Editori Riuniti University Press, Roma, 2011
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