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Dietro le omissioni: breve excursus sull’energia atomica
Argomentando contro i decrescenti, le omissioni di Simonetti spesso sono più significative dei contributi espliciti. Contro la decrescita delinea un’evoluzione storica basata su di un ‘progressismo energetico’, ossia sulla sostituzione di una fonte con un’altra più efficiente e potente (dalla legna da ardere al carbone, dal carbone al petrolio), proponendo tale paradigma come un modello applicabile all’epoca attuale.
Il ragionamento è però incongruente, perché il passaggio all’era del petrolio non fu dovuto al ‘picco del carbone’, bensì alle caratteristiche che rendevano il nuovo combustibile ideale per azionare nuove invenzioni, come il motore a scoppio, con potenziale decisamente maggiore rispetto alle macchine a vapore. La loro sostituzione graduale con dispositivi elettrici, durante la seconda rivoluzione industriale, fu anche imposta dai gravi danni sanitari causati dai fumi di combustione del carbone.
Non è strana la dicotomia tra una ‘umanità intelligente’ del XIX secolo e una ‘stupida’ del XX-XXI secolo, ostinata a mantenere il petrolio malgrado il suo progressivo esaurimento, le problematiche geopolitiche correlate, le esternalità tali da mettere a rischio l’ecosistema planetario?
Tale dicotomia infatti non esiste: l’umanità – o meglio, la parte più tecnologicamente avanzata della sua componente ‘occidentale’ – ha già impegnato tempo, denaro e fatica su di una fonte energetica che operasse sul petrolio lo stesso sviluppo qualitativo che esso aveva compiuto sul carbone, ma vanamente. (1)
Si possono avere le opinioni più disparate sull’energia atomica: un nuclearista convinto cercherà di minimizzare la portata dei tre maggiori incidenti atomici della storia (Three Miles Island 1979, Chernobyl 1986, Fukushima 2011), sottolineerà le virtù dell’atomo nella lotta ai cambiamenti climatici e nella transizione energetica post-fossile, rassicurerà sulla sicurezza delle centrali di ultima generazione, sulla gestione delle scorie radioattive e sui rischi sanitari; ne concluderà insomma che i benefici sono maggiori dei rischi potenziali ed effettivi. Ma un giudizio obiettivo sul nucleare non può basarsi sulle proprie sensibilità personali, bensì sulle aspettative che tale tecnologia aveva suscitato nel panorama politico, economico e scientifico dopo la seconda guerra mondiale, ossia sull’idea di avere a portata di mano un’energia a buon mercato, abbondante se non proprio illimitata, disponibile anche per i paesi in via di sviluppo, che si sarebbero quindi emancipati dalla loro condizione di inferiorità. La possibilità di affiancare e gradualmente sostituire il petrolio sembrava a portata di mano. Dopo gli orrori di Hiroshima e Nagasaki, l’atomo si sarebbe riscattato mostrando il proprio lato filantropico e compassionevole. Conferenza come quella Atomi per la pace (Ginevra, 1955) sono state la massima espressione di quest’utopia energetica.
Giudicandola sulla base di quelle premesse, l’energia nucleare è stata incontestabilmente un fallimento senza appello, a prescindere dalle catastrofi o dai rischi sanitari. Malgrado gli enormi investimenti – in campo sia civile che militare – il nucleare non ha mai lontanamente sfiorato la leadership del petrolio: da questo punto di vista la Francia, il paese più atomico del mondo (85% circa dell’elettricità prodotta da reattori nucleari), spesso portata come fiore all’occhiello dai nuclearisti, rappresenta invece un autentico fiasco, dal momento che il consumo pro capite di petrolio transalpino è maggiore di quello dell’Italia, ad esempio, paese senza risorse atomiche. Anche in campo elettrico, la produzione mondiale da nucleare è sempre stata sotto il 15%: per ipotesi, se oggi tutta l’energia nucleare del mondo fosse dirottata in Cina, basterebbe solo per supplire a circa la metà dei consumi elettrici complessivi. La produzione di plutonio come scarto della fissione ha alimentato gravi commistioni tra programmi civili e militari (ne bastano pochi chilogrammi per un’arma atomica). A parte il Sud Africa (che aveva intenzione di dotarsi della bomba atomica, uno dei motivi, spesso celati, che ha indotto la comunità internazionale a imporre l’embargo al regime dell’apartheid) e pochissime altre eccezioni, i paesi in via di sviluppo hanno destato l’interesse dell’industria nucleare solo per l’eventuale presenza di filoni di uranio da sfruttare.
Malgrado la propaganda che indica in Chernobyl il de profundis atomico, negli Stati Uniti gli investimenti sul nucleare erano già stati ridotti ai tempi dell’incidente di Three Miles Island, che quindi ha solamente accelerato una tendenza già in atto, così come è successo con Chernobyl e Fukushima: a parte paesi emergenti come India e Cina, le principali nazioni occidentali da tempo si sono limitate ad allungare la vita operativa dei reattori già esistenti, rinunciando a una sostituzione sistematica del comparto centrali.
Gli Stati Uniti, come ricordato da Simonetti, dopo la crisi del 1973 hanno preferito ottimizzare i consumi petroliferi e puntare su di una generazione elettrica principalmente da gas e carbone, nonché sullo sviluppo dei biocarburanti. La Francia resiste ancora imperterrita nel sostegno al nucleare perché il settore energetico, malgrado le politiche neoliberiste, è ancora saldamente monopolizzato dallo stato, un fatto che imbarazza spesso i nuclearisti liberoscambisti.
Ma cosa non ha funzionato nel nucleare? In sintesi, è impossibile conciliare efficacemente le troppe variabili e i rischi legati a questa energia: la scarsa flessibilità di utilizzo della reazione da fissione atomica; l’eccessivo livello di sofisticazione tecnologica necessario; gli imprevisti legati alla conoscenza solo parziale delle caratteristiche dei nuclei atomici e della radioattività, che hanno costretto a continue riprogettazioni e modifiche; il livello consistente di rischi a breve termine, che si traduce in standard di sorveglianza e sicurezza elevatissimi; la difficoltà nel gestire esternalità quali le scorie radioattive, i cui tempi di decadimento impegnano intere generazioni al loro trattamento; il rischio di proliferazione per scopi militari… come se non bastasse, l’energia che prometteva abbondanza illimitata ha visto il proprio combustibile principale, l’uranio, giungere a picco di produzione già a metà degli anni Ottanta, cioé in poco più di trent’anni, senza che le alternative alla fissione tradizionale – reattori autorfertilizzanti o a fusione – diventassero fattibili (2). Tutto ciò si è tradotto in costi economici, politici e umani troppo ingenti.
La lezione da trarre dalla disfatta nucleare è che, almeno in campo energetico, le fonti fossili possano rappresentare un caso unico in tutta la storia umana per densità energetica, EROEI e versatilità di impiego. Lo testimonia un altro dato incontestabile, che Simonetti ha preferito omettere forse perché smentisce ulteriormente il ‘progressismo energetico’, sancendo la rivincita delle fonti fossili e in particolare del loro membro ‘più sporco’: il carbone.
Il carbone, che leggendo Contro la decrescita sembra finito nella pattumiera della storia dopo la prima rivoluzione industriale, ha invece fatto la parte del leone nella produzione di elettricità del XX secolo: anzi, contro le prospettive dei maggiori scienziati, il ‘vecchio antenato’ fossile ha esaudito gran parte delle speranze che il ‘giovane virgulto’ nucleare ha lasciato deluse (il nucleare rappresenta solamente il 5% della produzione energetica mondiale del 2010, secondo BP). A oggi è nettamente la fonte più utilizzata al mondo in campo elettrico (rappresenta il 43% del totale della produzione mondiale, secondo la IEA) e ha dato un contributo fondamentale, sotto forma di energia a basso costo, allo sviluppo di moltissime nazioni povere e all’ascesa di India e Cina a potenze economiche planetarie. Ovviamente, non serve spiegare perché questo trionfo carbonifero sia in realtà un dono greco per l’umanità.
Qualcuno obietterà che la leadership del carbone è un fatto transitorio, dovuto appunto allo sviluppo di paesi arretrati che, una volta raggiunto un livello di benessere sufficiente, si convertiranno a tecnologie più pulite; avendo vissuto la loro personale rivoluzione industriale, è normale che abbiano ripercorso la storia dell’Occidente e quindi usato il carbone come fonte prioritaria per lo sviluppo prima di ‘ripulire’ l’energia. Ma il carbone assume un ruolo di primissimo piano anche in nazioni che sono state culla della rivoluzione industriale o hanno già superato questa fase da un pezzo: negli USA l’elettricità ottenuta dal carbone è circa il 38%, il 29% in Giappone, il 68% in Australia, il 45% in Germania, il 39% in Gran Bretagna, il 18% in Italia (dati IEA). L’Unione Europea e potenti lobby statunitensi si battono per una strategia climatica incentrata sul ‘carbone pulito’ (mai ossimoro è stato tanto brillante), basata sul sequestro delle emissioni di CO2 nel sottosuolo, malgrado i dubbi sulla fattibilità e i rischi insiti.
Quindi, riprendendo l’interrogativo posto a inizio del paragrafo, l’umanità attuale – o sarebbe meglio dire: chi ne regge le fila – può essere miope o criminale (a seconda dei punti di vista) sul piano ecologico; ma se lo scopo è mantenere inalterata il più possibile la civiltà industriale così com’è, allora non è affatto stupida. Segue il medesimo ragionamento tecnico di Smil ma, a differenza dello scienziato ceco-canadese, è più consapevole dei limiti del nucleare e quindi insiste sull’unica alternativa, le fonti fossili. Le élite globali hanno tanti difetti ma, rispetto a certi critici della decrescita, non peccano di wishful thinking.
Trovare alternative alle fonti energetiche fossili è quindi assai problematico. Ma cosa dire della sostituzione dei materiali a rischio di esaurimento? Nella prossima puntata vedremo come le prospettive non siano più rosee.
(1) Le informazioni che seguono sono tratte da: Baracca Angelo e Ferrari Ruffino Giorgio, Scram ovvero la fine del nucleare, Jaca Book, Milano 2011.
(2) Tutti gli esperimenti di reattori autofertilizzanti tentati finora (Beloyarsk-3 in Russia, Monju in Giappone e Superphénix in Francia) sono miseramente falliti, a causa dell’elevata pericolosità nel trattamento del plutonio. All’interno del Dipartimento dell’energia statunitense regna oramai lo scetticismo più totale riguardo al progetto di ricerca sulla fusione.
Grazie Felice:_Mente di questo exursus così illuminante.
Mi piace soprattutto vedere come il nucleare stia perdendo forza. Certo non per “maturità e intelligenza” .
Spero che il prossimo passo sia una vera svolta per l’umanità che porti a vivere con minori sprechi, consumi e danni arrivando a concepire il bene dell’uomo e dell’intero universo come un tutto unico.
Utopia la mia ma non del tutto.
Si arriverà prima o poi a sentire il Creato intero come un unico essere vivente per cui le ferite che noi creiamo con le nostre mani all’ambiente alla fine sono ferite che ci facciamo da soli e che ci fanno soffrire.
Buon Anno a tutti voi di Decrescita Felice, che gestite o visitate il blog.
Grazie Silvana, buon anno anche a te. Ultimamente mi sei venuta in mente perché mi sono accorto che c’è altra gente che ha intrapreso la strada della prosa poetica, anche se con intenzioni (e stile!) ben diversi dai tuoi. C’è un libro che sta spopolando in certi ambienti, Contro(la)natura di Chicco Testa. Gli ho dato uno sguardo abbastanza approfondito in libreria (questa volta però non ci penso minimamente a comprarlo, può venire Testa a lamentarsi finché vuole. Anche perché Simonetti se non altro ha un gran talento nello scrivere, Testa decisamente no). Ti riporto una recensione che ho trovato in Rete che rende bene un po’ il tono di tutta l’opera:
“La natura è una grande macchina che produce vita e morte. Dall’infinitamente piccolo (i batteri) all’infinitamente grande (le galassie), si nasce e si muore ed è solo una questione di tempo. Se usiamo con disinvoltura l’aggettivo “naturale”, in realtà su questa macchina abbiamo ancora molto da imparare e da capire. A cominciare dal fatto che la natura non è buona né giusta né bella. Questi sono giudizi e proiezioni umani. La natura di noi non si cura. E quando la si usa per giustificare comportamenti, opinioni, valori si producono errori e talvolta tragedie. Combinando attualità e filosofia, il libro affronta con stile caustico e dissacrante tutti i temi più controversi – dal nostro rapporto con le tecnologie ai paradossi del cibo a Km zero e delle terapie naturali, fino alla nascita dell'”ambientalista collettivo” e alle applicazioni scellerate del principio di precauzione – in un capovolgimento di prospettiva che ci induce a riflettere su quello che intendiamo per natura.”
Ciao Igor.
Credo che dovremmo lasciar perdere la supponenza che spesso mettiamo nei nostri pensieri e nelle nostre azioni
e metterci invece con umiltà davanti al mondo
( per quanto ricca sia la nostra cultura e preparazione e intelligenza)
con la consapevolezza che siamo tutti parte di uno stesso Creato
e che le sorti di ciascuno sono strettamente legate a quelle degli altri.
Potremo anche sbagliare ( errare è umano) ma di sicuro molto meno di quanto non lo si faccia oggi: attualmente il motore primo è l’interesse di pochi e il conseguente danno di molti.
Che il 2015 sia un anno di crescita interiore
per ognuno di noi!
iDecrescita degli sprechi dunque da un lato
ma crescita dall’altro !
Silvana