Alcuni mesi fa ascoltai una illustre personalità che, in occasione di una conferenza, affermò candidamente di non avere la più pallida idea di quale sarà il modello che ci daremo nel prossimo futuro. Ne trasse un paio di considerazioni: per farsi trovare pronti al momento del cambiamento bisogna continuamente porsi domande e cercare risposte. Le migliori risposte sono quelle trovate in compagnia, anziché da soli.
Mi pongo ad affrontare un tema, inerente la decrescita, che mi sembra sia di molta attualità. Vorrei farlo in punta di piedi, mettendomi nei panni del nano che ancora non è salito sulle spalle del gigante, disposto al rischio di qualche magra figura. Userò gli strumenti che mi sono propri e non farò riverenze. Cercherò di avanzare alcune suggestioni, dando seguito agli argomenti interessanti e stimolanti trattati in alcuni articoli usciti recentemente su questo sito.
M’è parso di capire che, allo stato attuale, la Decrescita Felice sia un modello di riferimento instabile. O meglio: un sistema non ancora stabile. Per svolgere il mio ragionamento, partirò dall’idea semplificativa che vi siano, oggi, almeno due tipi di decrescita.
L’una è minoritaria e consapevole. Possiamo sostenere che essa sia formata principalmente da un insieme di pratiche ed idee attuate da gruppi di persone e da singoli. Non tutti i decrescenti sono consapevoli di essere tali, ma tutte le loro azioni sono contrassegnate da un forte senso di responsabilità verso il mondo di oggi e di domani. Non si accontentano di contestare il degrado del pianeta, ma lavorano per lasciare un’impronta più leggera possibile.
L’altra è parzialmente estranea alla prima, poiché manca di consapevolezza e di senso di responsabilità. Si tratta di una forma di decrescita indotta dalla crisi economica. È un modo di agire poco amato, sia da chi lo vive sia dai teorici della decrescita felice. È un fenomeno di oggi, è eterogeneo, ed è maggioritario.
Seguendo la proposta di Federico Tabellini (Decrescita E Cultura: La Questione Identitaria) c’è da chiedere se questi due mondi (sempre semplificando) abbiano qualcosa da dirsi, e se le parole e gli atti dei primi possano indurre un cambiamento culturale condiviso anche da una parte dei secondi.
Nessuno ha risposte certe. I pessimisti (fra noi) diranno che passata la nottata i decrescenti indotti torneranno a fare le stesse cose che facevano prima. I detrattori continueranno a sostenere che la decrescita è una follia recessiva.
Gli ottimisti (fra noi) osserveranno al contrario che la crisi di oggi potrebbe rivelarsi un terreno fertile. Prendiamo in considerazione alcuni fattori che vanno in questa direzione e che possono rendere una qualche utilità allo scopo.
- La crisi economica in sé è portatrice di svolte etiche. Il sistema in attuale dominio sta implodendo. Il dominio dell’economia sulle altre sfere dell’agire umano subirà un sostanziale ridimensionamento e ciò renderà possibile una svolta di tipo etico.
- L’introspezione e il collettivismo diffuso. Le crisi inducono gli individui e le comunità a guardarsi dentro. Più sono profonde e più la comunità si stringe a sé in cerca di soluzioni a portata di mano, condivise e possibili.
- Cambio di abitudini. La crisi sta spostando l’asse delle consuetudini. È plausibile che alcuni fra coloro che stanno “soffrendo” il cambio di consuetudini possa “godere” sentimenti positivi di fronte ad azioni piene di buon senso (spengere la luce e chiudere il rubinetto dell’acqua quando non servono; andare a piedi anziché usare l’auto ecc)? È una condizione possibile e qualche piccolo segnale positivo si intravede.
Non è un elenco sistematico ed esaustivo. Forse sono solo spunti marginali rispetto al cuore del problema: “come possiamo cambiare le cose” (Federico Tabellini; Prospettive di Decrescita). Eppure rendono l’idea di come vi siano situazioni congiunturali che pongono condizioni ideali per alimentare il cambio di paradigma o meglio per stabilizzare il modello.
Molti, anche su questo sito (ad es. Luca Madiai; La Decrescita Fa Paura? Proviamo A Conoscerla), parlano correttamente di rivoluzione culturale.
La “rivoluzione culturale” suscita in me l’idea di una lunga e lenta marcia dalla periferia al centro, con in testa un movimento di avanguardia. Educazione, comunicazione ed informazione sono i migliori strumenti che, in regime di libertà, si possano usare per gestire un processo di trasformazione culturale. Le idee hanno bisogno di gambe. Servono persone che le coltivino, le crescano e le condividano. Poi servono strutture per renderle attuali.
Per farla breve: possiamo compiere una lunga marcia solo se abbiamo solide e robuste gambe.
La rivoluzione culturale che verrà, è già in atto. È un uccello pronto a volare. Magari si chiamerà in un altro modo. Forse non sarà tanto felice quanto l’abbiamo sognata. Ma se un uccello rimane chiuso in una rigida voliera non avrà spazio per stendere le ali.