(Critica della ragione agroindustriale #1, #2, #3, #4)
Riscaldamento globale dell’atmosfera
Secondo le stime dell’IPCC,1agricoltura e silvicoltura sono responsabili all’incirca del 24% delle emissioni di gas serra (seconde solo alle attività industriali) e si segnalano in quanto settori rilascianti la maggiori quantità di gas serra non CO2. Il 70% sul totale deriva da due fenomeni, la fermentazione enterica dei bovini, liberante grandi quantità di metano (CH4, capace di trattenere il calore trenta volte più dell’anidride carbonica) e l’impiego di fertilizzanti azotati, che stimola i batteri a trasformare più rapidamente l’azoto in protossido di azoto (N2O) (figura 24), facendone così fuoriuscire dai terreni quantità maggiori di quanto accadrebbe naturalmente (il protossido di azoto è dalle 200 alle 300 volte più potente dell’anidride carbonica nel catturare calore e possiede un tempo di residenza in atmosfera di circa 150 anni).
Per contenere gli effetti della dispersione di N2O si può ricorrere alle pratiche dell’agricoltura biologica (figura 25) o quantomeno effettuare arature meno profonde, interrare i residui culturali, ricorrere a sovesci e consociazioni.2
Figura 25. Fonte: Westpha, Tenuta , Entz (2016)
Zone morte costiere
Le zone morte (‘dead zone’) costiere sono un fenomeno riscontrabile in natura che però, a causa soprattutto dello stravolgimento operato sui cicli dell’azoto e del fosforo dall’industria zootecnica e dalla Rivoluzione Verde, ha registrato un sostanziale aumento: dal 1950 a oggi sono quadruplicate (se ne contano circa 400), molte delle quali emblematicamente situate in prossimità di aree sottoposte a coltivazione intensiva. (figura 26).
Le acque reflue di coltivazioni e allevamenti, infatti, attraverso i fiumi giungono fino alle zone costiere di mari e oceani, creando una concentrazione di nutrienti talmente elevata da aumentare esponenzialmente la riproduzione del fitoplancton il quale, a sua volta, decomponendosi in quantità eccessive risucchia quasi completamente l’ossigeno, sconvolgendo l’habitat marino e seminando la morte tra gli organismi che lo popolano. Per farsi un’idea della portata del problema, la zona morta più grande del mondo – localizzata nel Golfo del Messico – secondo il NOAA ha raggiunto dimensioni paragonabili all’estensione del Connecticut;3 il global warming, inoltre, riscaldando le acque riduce la loro capacità di trattenere ossigeno, esacerbando conseguentemente il problema.
Figura 26. Fonte: Breitburg e altri (2018)
Erosione del suolo
L’erosione dei suoli è sicuramente uno degli eventi più visibili del degrado ambientale causato dall’agricoltura intensiva. Secondo la FAO,4il 33% del territorio agricolo mondiale risulta da moderatamente ad altamente degradato (figura 27), a causa soprattutto di erosione, salinizzazione, compattazione, acidificazione e inquinamento chimico dei suoli (figura 28).
Pratiche di coltivazione troppo aggressive attaccano la sostanza organica superficiale del terreno, esponendola all’azione dell’aria e dell’acqua, riducendo la fertilità con il risultato che, se per recuperarla si ripropongono i medesimi trattamenti, si innesca un feedback ‘positivo’ che, nel giro di qualche generazione, può arrivare fino alla desertificazione. Oltre ad accelerare i fenomeni franosi e le esondazioni, la porzione di terreno eroso può contenere grandi quantità di fertilizzanti o pesticidi, distribuendo l’inquinamento sul territorio e aggravando l’eutrofizzazione delle acque lacustri e marine, ingenerando così una riproduzione incontrollata delle alghe.
Perdita di biodiversità
La perdita di biodiversità operata dall’agricoltura intensiva agisce in due direzioni, una interna alla medesima e l’altra esterna a essa. Per quanto concerne il primo caso, la trasformazione da ciclo chiuso ad aperto, attraverso input ad alta entropia come le fonti fossili, provoca inevitabilmente pesanti ricadute sull’ambiente, unitamente al fatto che, per agevolare la commercializzazione delle sementi mostranti maggior risposta ai prodotti chimici, si sono ridotte le specie coltivabili creando ristrette monocolture, contravvenendo alla tendenza naturale privilegiante sinergia e diversità. Le specie coltivate sono diminuite da più di 6.000 a un paio di centinaia, ma riso, mais e frumento monopolizzano da sole il 70% della produzione mondiale.5
Dall’altro lato, oltre alla deforestazione in America Latina, Africa e sud-est asiatico per nuovi pascoli o terreni arabili, la tendenza alla monocoltura incrementa il rischio di estinzione per specie che, nonostante la profonda manipolazione dell’habitat naturale, avrebbero possibilità di sopravvivenza in un sistema di coltivazioni più diversificato e meno contaminato da input chimici. Complessivamente, l’agricoltura ha causato il 70% della perdita di biodiversità terrestre6ed è quindi una delle principali responsabili dell’attuale sesta estinzione di massa, che si differenzia dalle precedenti in quanto ascrivibile alla massiccia pressione antropica.7
Contaminazione delle risorse idriche
Trattare esaustivamente l’argomento richiederebbe molto spazio, purtroppo ci vengono in soccorso le tristi cronache di casa nostra per esemplificare adeguatamente la situazione. L’ISPRA nel biennio 2015-2016 ha analizzato 35.353 campioni ed effettuato 1.966.912 analisi delle acque interne superficiali e sotterranee, un monitoraggio che ha evidenziato una presenza diffusa di pesticidi, con un aumento delle sostanze trovate e delle aree interessate: nel 2016, in particolare, sono stati riscontrati nel 67% dei punti di rilevazione delle acque superficiali e nel 33,5% di quelle sotterranee. In alcune regioni la presenza dei pesticidi è molto più diffusa del dato nazionale, arrivando a interessare oltre il 90% dei punti delle acque superficiali in Friuli Venezia Giulia, provincia di Bolzano, Piemonte e Veneto e più dell’80% dei punti in Emilia Romagna e Toscana, superando il 70% in Lombardia e provincia di Trento. Nelle acque sotterrane la presenza di pesticidi è particolarmente elevata in Friuli (81%), in Piemonte (66%) e in Sicilia (60%). Le due sostanze che hanno maggiormente superato gli standard di qualità ambientale sono state il glifosato e il suo metabolita AMPA. (figura 28)8Ovviamente, se questa è la condizioni italiana, è facile immaginarla laddove esistano legislazioni ambientali meno stringenti.
Figura 29. Fonte: ISPRA (2018)
In conclusione: la sostenibilità non abita qui
Per giungere a un’estrema sintesi: con la rivoluzione verde ci si concentra sull’obiettivo di definire e applicare, in maniera indifferenziata, un modello produttivistico di stampo industriale al fine di vincere la sfida malthusiana di un mondo in rapida crescita demografica. Purtroppo, come si è detto, si innescano contemporaneamente diversi meccanismi negativi: per esempio, la forte dipendenza da prodotti di sintesi a elevata richiesta energetica e ad alto impatto ambientale (modello definito oil-based food system); il degrado di terra e acque utilizzate in processi produttivi a elevata intensificazione; la rinuncia al presidio territoriale in diverse aree molto vulnerabili. La rivoluzione verde si sviluppa con una sostanziale sottovalutazione delle problematiche relative alla sbilanciata distribuzione del controllo delle risorse sottostanti il funzionamento dei sistemi agroalimentari. Essa ha generato in molti la convinzione che soltanto con l’innovazione tecnologica, intesa come innovazione del prodotto trasferibile all’interno di modelli semplificati, si possano risolvere problemi sociali complessi.9
Fertilizzanti chimici e pesticidi hanno contribuito a deteriorare la terra e a contaminare l’acqua… Il modello della rivoluzione verde, iniziata dopo la seconda guerra mondiale, è esaurito. (José Graziano da Silva, Direttore generale della FAO, dichiarazione rilasciata durante il II simposio sull’agroecologia, Roma 3-5 aprile 2018)
Messi alle strette davanti alle innegabili conseguenze provocate dalla Rivoluzione Verde, troppo spesso i pifferai di progresso e sviluppo si limitano ripetere a pappagallo gli enormi vantaggi apportati al benessere umano, lamentando che non ne siano tributati i dovuti riconoscimenti, quasi si trattasse di elargire medaglie al valore civile. Invece di urlare alla lesa maestà, nell’epoca in cui i benefici della società industriale cominciano a essere pericolosamente rimontati dagli effetti collaterali su biosfera e salute umana, urge interrogarsi sull’attualità di un modello concepito una settantina di anni fa in un mondo che, sotto tantissimi aspetti, aveva ben poco da spartire con quello contemporaneo: meno di tre miliardi di abitanti perfettamente all’interno della carryng capacity, concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera poco sopra i 300 ppm, livelli di inquinamento complessivamente ancora gestibili, ampie aree del pianeta intatte dall’azione umana, petrolio a basso costo. Oggi, invece, siamo quasi otto miliardi e sfruttiamo risorse rinnovabili per il 90% in più rispetto alla biocapacità terrestre, sono stati sforati i 400 ppm di concentrazione di CO2 e si sono registrate le temperature medie più elevate degli ultimi due secoli, gli agenti inquinanti hanno intaccato massivamente acqua, aria e terra, la distruzione degli habitat ha ingenerato un’estinzione epocale; finita l’illusione nucleare, si è costretti a raschiare il fondo del barile delle fonti fossili.
Inutile pertanto stracciarsi le vesti, molto meglio sforzarsi per capire se l’attuale modello alimentare, non solo per quanto riguarda gli aspetti propriamente agricoli, possa essere riformato con qualche misura di contenimento del danno oppure se la situazione è degenerata a tal punto da richiedere necessariamente la progettazione di un nuovo paradigma, capace di aderire ai criteri di sostenibilità.
Prima di chiudere il capitolo, proponiamo un piccolo quiz. Leggete con attenzione la seguente dichiarazione, poi fermatevi cercando di indovinarne l’autore:
And yet, I am optimistic for the future of mankind, for in all biological populations there are innate devices to adjust population growth to the carrying capacity of the environment. Undoubtedly, some such device exists in man, presumably Homo sapiens, but so far it has not asserted itself to bring into balance population growth and the carrying capacity of the environment on a worldwide scale. It would be disastrous for the species to continue to increase our human numbers madly until such innate devices take over. It is a test of the validity of sapiens as a species epithet.
Since man is potentially a rational being, however, I am confident that within the next two decades he will recognize the self-destructive course he steers along the road of irresponsible population growth and will adjust the growth rate to levels which will permit a decent standard of living for all mankind.
Un discorso in favore del contenimento demografico e del mantenimento dell’impronta ecologica all’interno dei vincoli planetari… chi potrebbe averlo proferito? Forse uno scienziato del Club di Roma? Paul Ehrlich, autore de La bomba demografica? O magari Georgescu Roegen, uno dei fondatori della decrescita?
Che ci crediate o no (verificatelo!) avete appena letto la conclusione della lectio magistralis tenuta da Norman Borlaug per il conferimento del Nobel, due anni prima dell’uscita de I limiti dello sviluppo e del suo atto di accusa contro la crescita demografica ed economica. Una testimonianza significativa, perché – contraddicendo le convinzioni dei suoi sfegatati ammiratori contemporanei – illustra come ‘l’uomo che ha sfamato il pianeta’ intendesse la sua invenzione quale rimedio contro la fame, non come panacea per popolare ulteriormente la Terra, figuriamoci per arrivare ai 7 miliardi e mezzo di abitanti odierni. Effettivamente, in un contesto di stabilizzazione demografica, tutte le problematiche legate alla Rivoluzione Verde appena esposte si sarebbero presentate su scala minore e pertanto più governabile, forse insufficiente per una reale sostenibilità,10ma dove sicuramente i miglioramenti di efficienza avrebbero apportato risultati tangibili con meno rischi di incappare in circostanze da Paradosso di Jevons.
Tuttavia, all’epoca Borlaug non poteva immaginare gli enormi sviluppi che la manipolazione del genoma avrebbe potuto assumere tramite il ricorso alla transgenesi, nuovo baluardo della rinnovata ragione agroindustriale, che infatti l’agronomo statunitense ha sostenuto con convinzione nella parte finale della sua vita. Che l’onda lunga della Rivoluzione Verde abbia finito per superare persino le aspettative del suo creatore? (continua)
1IPCC 2013
5Ciccarese 2012
7Ceballos, Ehrlich, Dirzo 2017
9Bocchi 2015, 143
10Ad esempio, le simulazioni de I limiti dello sviluppo dove vengono proposte politiche di contenimento demografico e aumenti progressivi delle rese agricole ma nessun intervento sulla produzione industriale, riescono solo a ritardare il collasso economico rispetto agli scenari business as usual, senza però evitarlo.