(Critica della ragione agroindustriale #1, #2, #3)
Torniamo alla senatrice Cattaneo e al suo articolo su D – Repubblica (vedi Critica della ragione agroindustriale #1), dove ha illustrato alla perfezione un altro caposaldo della ragione agroindustriale:
La Rivoluzione Verde ha dimostrato che l’agricoltura sostenibile è quella intensiva: grazie ai nuovi fertilizzanti, agli agrofarmaci e alla meccanizzazione dell’agricoltura (tutti odierni nemici delle tendenze ‘bio’ e del ‘ritorno alla natura’) dal 1950 in poi la resa del frumento è quadruplicata, con la conseguente possibilità di sfamare più persone, senza che aumentasse in parallelo la superficie coltivata.
La biologa non è la prima a fregiare l’agricoltura intensiva della patente di sostenibilità. Sì è espresso in tal senso anche l’ecologo Patrick Moore, ex membro di Greenpeace noto anche in quanto paladino del nucleare, dello shale gas e fustigatore delle fonti energetiche rinnovabili:
L’agricoltura sostenibile è quella che preserva alcune aree naturali, protegge la fertilità del suolo e riduce al minimo il disboscamento, grazie a una tecnologia ad alto rendimento.1
…uno dei modi migliori per proteggere la natura è quello di impiegare le moderne pratiche agricole intensive, che comprendono l’uso di fertilizzanti, pesticidi, sistemi GPS e la genetica.2
Chi sostiene queste tesi spesso si appella a documenti come uno studio pubblicato nel 2010 su PNAS,3enfatizzante la necessità di intensificare ulteriormente i processi di coltivazione per rispondere alla sfida del global warming. Gli autori hanno ricostruito la produzione agricola globale dal 1965 al 2005 (figura 13) e le relative emissioni di gas serra (grafico RW), elaborando poi due scenari: uno in cui, a parità di raccolto, si mantengono inalterate le rese per ettaro rispetto al 1960 (grafico AW) e un altro dove anche la produzione pro capite rimane invariata nel tempo (grafico AW2). Morale della favola: senza aumento delle rese, le emissioni di gas serra sarebbero risultate comunque superiori in entrambi i casi a causa delle necessità di riconvertire un maggior numero di terreni per uso agricolo, concludendone quindi che dobbiamo puntare ulteriormente sulle tecniche di intensificazione per sfamare la popolazione e contenere la minaccia climatica.
Figura 13. Fonte: Burney, Davis, Lobell (2010)
Figura 14. Fonte: Burney, Davis, Lobell 2010
Questa ricerca è sicuramente un’ottima illustrazione dei miglioramenti di efficienza compiuti dalla Rivoluzione Verde, se utilizzata come promozione ambientalista dell’agroindustria presenta però alcuni vizi di fondo:
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accetta acriticamente la previsioni sulla necessità di accrescere il fabbisogno alimentare;
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riduce la problematica ecologica al riscaldamento globale dell’atmosfera;
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elude che qualsiasi ragionamento utile contro il global warming non può limitarsi a constatare i miglioramenti nella riduzione di emissioni, bensì verificare se sono sufficienti per ottemperare alle prescrizioni dell’IPCC al fine di evitare rischi di catastrofe climatica. Attualmente, le prestazioni dell’agroindustria sono lontanissime dagli obiettivi da raggiungere;4
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non nota la disomogeneità tra crescita della resa per ettaro e ricorso agli input: a una produzione agricola raddoppiata corrisponde infatti un impiego di fertilizzanti quadruplicato, malgrado l’agronomia ne abbia perfezionato nel tempo l’uso per ettaro (figure 14).
Per chi è avvezzo alle questioni energetiche, gli ultimi due punti avranno riecheggiato il cosiddetto ‘paradosso di Jevons’ (dal nome dell’economista inglese William Stanley Jevons, che per primo lo osservò sulle macchine a vapore), secondo cui i miglioramenti tecnologici che aumentano l’efficienza di una risorsa possono causare un aumento del suo impiego, anziché una diminuzione, qualora si superino determinate soglie ricercando traguardi troppo ambiziosi.
A onore degli autori dello studio, va precisato che essi, a differenza di Cattaneo e Moore, non parlano mai di ‘sostenibilità’ ma più modestamente di ‘azione mitigatrice sul clima’ e, come vedremo, del tutto a ragione.
Sostenibilità oltre slogan e opinioni
Oramai, la parola ‘sostenibilità’ e i suoi derivati appartengono a pieno diritto al lessico del marketing, fungendo da foglia di fico per le logiche industriali tradizionali: persino i peggiori inquinatori del pianeta straparlano di ‘metodi produttivi sostenibili’ (“Sustainability is critical to our business”, leggiamo dal sito Web di ExxonMobil). Tuttavia, se a pennivendoli e pubblicitari si possono perdonare superficialità e imprecisione, i ricercatori all’opposto dovrebbero mostrarsi scrupolosi quando impiegano termini che nel gergo scientifico possiedono una precisa connotazione. Infatti, la ‘sostenibilità’ non è un’opinione, bensì una condizione soddisfatta solo aderendo a tre assunti fondamentali elaborati da Herman Daly:5
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il tasso di utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al
loro tasso di rigenerazione; -
l’immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell’ambiente non deve
superare la capacità di carico dell’ambiente stesso; -
lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo.
Figura 15. Funzionamento di un’economia sostenibile
L’agricoltura industriale è in grado di ottemperare a tali requisiti? Per non farsi fuorviare, è essenziale evitare disamine grossolane e limitate, sviscerando invece tutti i processi di filiera, l’origine degli input produttivi e le esternalità causate sull’ambiente.
Dipendenza da materie prime non rinnovabili
Azoto, fosforo e potassio sono i tre nutrienti fondamentali, insieme ad acqua e anidride carbonica, per la crescita della piante. La sigla NPK, formata dai simboli chimici dei tre elementi, è indissolubilmente legata alla Rivoluzione Verde, che non sarebbe stata attuabile senza la possibilità di sintetizzarli in grande quantità. I decantatori dell’agroindustria sono soliti esaltare l’azione portentosa dei fertilizzanti sulla crescita delle coltivazioni, mentre sono molto più restii a illustrare il ciclo produttivo che ha consentito di realizzare tali composti.
L’azoto è stato sottratto dall’atmosfera grazie alla tecnica ideata nel 1910 da Fritz Haber e poi brevettata e promossa su scala industriale da Carl Bosch (motivo per cui è stato chiamato ‘processo Haber-Bosch’), consistente nella produzione di ammoniaca attraverso una complessa serie di reazioni chimiche, le quali non possono innescarsi senza l’apporto di carbone o metano (figura 16), con quest’ultimo decisamente preferito in quanto riduce il dispendio energetico complessivo. Al contrario, potassio e fosforo hanno origine dalle viscere della Terra, da giacimenti minerari, per poi essere sottoposti ad appositi processi di raffinazione.
Figura 16. Ricostruzione schematica del processo Haber-Bosch (fonte: Wikipedia)
Apprendiamo quindi un fatto abbastanza inquietante, di cui saremmo rimasti all’oscuro se le nostre conoscenze sull’agricoltura fossero limitate alle informazioni forniteci dalla Cattaneo: l’approvvigionamento mondiale di cibo si regge su risorse finite il cui sfruttamento (figura 17) non segue minimamente le indicazioni di Daly per il mantenimento di stock costanti.
Quanto dobbiamo preoccuparci riguardo alla disponibilità futura dei tre elementi fondamentali per l’agroindustria?
La decantata abbondanza di gas naturale dovrebbe smentire qualsiasi timore legato all’azoto: tra pozzi ancora intatti da sfruttare in Africa e Asia, giacimenti non convenzionali, idrati di metano sepolti sotto il permafrost artico… c’è addirittura chi ridicolizza il concetto stesso di picco estrattivo. Circa l’80% delle riserve mondiali di potassio sono concentrate in sole tre nazioni (Canada, Bielorussia e Russia), comunque rappresenta il settimo elemento più abbondante nella crosta terrestre, benché in molti minerali sia presente in forma di sali insolubili, dai quali è difficile estrarlo. Il soggetto più problematico è sicuramente il fosforo che, essendo altamente reattivo, non esiste in natura allo stato nativo bensì in rocce da cui viene separato per arrostimento in fornace in presenza di carbone e silice. Dall’inizio del nuovo millennio a oggi, a causa del progressivo esaurimento delle miniere di rocce fosfatiche, è stato più volte paventato il raggiungimento del picco di produzione, ma voci più o meno autorevoli tranquillizzano che la scoperta di nuovi giacimenti ha rimandato qualsiasi apprensione oltre il 2050.6
Sebbene la prassi di stilare previsioni dividendo le risorse rimaste per un ipotetico consumo annuale sia ancora prevalente, cinquant’anni di dinamica dei sistemi (il metodo di analisi impiegato per la redazione de I limiti dello sviluppo) hanno insegnato che il destino dell’approvvigionamento di una materia prima è legato a doppio filo ai quantitativi ragionevolmente estraibili a buon mercato. La questione si articola su due livelli:
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fronteggiare i ‘rendimenti decrescenti’ (ossia la fine di materie prime facilmente reperibili), ad esempio perforando a maggior profondità, sfruttando minerali a bassa concentrazione, gestendo opportunamente le maggiori scorie, efficientando i processi di produzione;
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disporre di un flusso energetico sufficiente per aggirare tali rendimenti decrescenti, senza dimenticare che pure l’energia è sottoposta alla loro azione.7
Una risorsa quindi non ‘finisce’ quando è esaurita la sua presenza nella crosta terrestre, bensì molto prima, allorché produrla diventa antieconomico a causa degli oneri eccessivi per ricerca, estrazione, trasporto e produzione, tutte attività dove rivestono un ruolo fondamentale il petrolio e altri beni a loro volta dipendenti dal principale idrocarburo. Non a caso le quotazioni del greggio influiscono sulla crescita del PIL e condizionano il prezzo delle principali commodity, energetiche e non; è evidente anche una correlazione con il prezzo del cibo (figura 18).
L’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) ritiene che da qui ai prossimi cinquant’anni la leadership energetica del petrolio non verrà intaccata, a causa del mancato avvento dell’era atomica e dei limiti operativi delle altre fossili e delle rinnovabili. Bisogna preoccuparsi? Secondo l’agenzia no, purché si accetti di spendere il dovuto: tutti gli scenari elaborati (figura 19), anche quelli obiettivamente più improbabili,8ipotizzano che il prezzo del greggio lieviterà su quotazioni superiori a quelle riscontrate nei migliori momenti di congiuntura economica del XX secolo (figura 20) e, nel caso delle previsioni più ‘realistiche’, a partire dal 2025 comincerà ad attestarsi sui livelli che hanno fatto deflagrare la crisi del 2008 e rialzato sensibilmente il costo degli alimenti.
Figura 19. Fonte: IEA World Energy Outlook 2017
L’agricoltura non sembra un settore particolarmente energivoro, se ci si limita ai consumi diretti (combustibili per i macchinari, gas ed elettricità per il funzionamento delle fattorie, ecc), decisamente contenuti rispetto ad altre attività economiche; nondimeno, l’analisi di quelli indiretti (produzione e distribuzione degli input) allarma decisamente di più. Ad esempio, per produrre un kg di glifosato occorre consumare l’equivalente di una decina di litri di gasolio, mentre ne servono più di 850 per sintetizzare una tonnellata di azoto, ragion per cui si stima che il processo Haber-Bosh consumi almeno l’1% dell’intero fabbisogno globale di energia.9Calcoli effettuati sul sistema alimentare americano sono giunti alla conclusione che, per produrre 1 caloria di cibo confezionato, ne occorra spendere circa 7 in energia (figura 21), di cui 1,6 in fase di coltivazione.10
Figura 21. Fonte: Bomford (2009)
Raramente gli agronomi si interessano a questioni che esulino dalle prestazioni produttive delle coltivazioni, dunque è difficile reperire analisi precise sui miglioramenti complessivi di efficienza energetica registrati in agricoltura. Un rapporto del 2004 al Congresso degli USA11fornisce però alcune preziose indicazioni, così riassumibili:
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i miglioramenti di efficienza sono stati consistenti nel periodo intercorso tra lo shock petrolifero del 1973 e gli anni Novanta, per poi raggiungere un plateau (imitando tendenze analoghe registrate in altri ambiti)12;
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tali miglioramenti sono da ascrivere principalmente a sviluppi agronomici che hanno diminuito gli input di fertilizzanti e pesticidi per ettaro nonché all’ammodernamento dei macchinari, sostituendo la motorizzazione a benzina con quella diesel a maggior efficienza;
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i prezzi di combustibili, fertilizzanti e pesticidi, rimasti sostanzialmente stabili tra gli anni Ottanta e Novanta, hanno segnato successivamente sensibili rialzi;
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pesticidi e fertilizzanti chimici costituiscono rispettivamente il 29% e il 6% dei consumi agricoli complessivi diretti e indiretti, ragion per cui l’agricoltura biologica, non utilizzandoli, richiede a parità di condizioni il 25% circa in meno di oneri energetici (figura 22).
Figura 22. Fonte:Fess, Benedito (2017)
Questo paragrafo basta e avanza per revocare qualsiasi serio attestato di sostenibilità all’agricoltura industriale; le criticità, però, non si fermano qui. (continua)
1Moore 2011, 27
2Moore 2011, 358
4Questo grafico vale più di tante parole.
5Daly 1991
7Il solo fatto di prendere in considerazione gli idrocarburi non convenzionali (in particolare scisti bituminosi – dai quali si estraggono shale oil e shale gas – e sabbie bituminose), il cui sfruttamento è più costoso, indica il raggiungimento dei rendimenti decrescenti anche in campo energetico (per approfondire l’argomento, Bardi 2011).
8Gli scenari ‘low oil price case’ e ‘sustainable development’ immaginano mutamenti talmente rapidi e radicali che definirli inverosimili è un eufemismo. Notevole anche l’incoerenza di elaborare uno scenario aderente alle indicazioni della Conferenza di Parigi COP21, per contenere il riscaldamento dell’atmosfera entro i 2°C evitando gravi sconvolgimenti climatici e, contemporaneamente, altri dove si lascia intendere che sia possibile proseguire il business as usual senza che l’aggravarsi del global warming pregiudichi alunché.
9Tiffany, Wagner 2017
12Molti indicatori lasciano pensare che il trend sia rimasto invariato fino a oggi. Ad esempio, se paragoniamo le annate 2004 e 2014, l’indice di produzione agricolo lordo statunitense è aumentato dell’11%, il consumo di fertilizzanti azotati del 13% (dati FAOSTAT).