Nella storia sono esistite innumerevoli società stratificate, che giustificavano la divisione in ceti con spiegazioni di ordine divino o la palese imposizione violenta. La peculiarità del capitalismo è che la difesa della disuguaglianza deriva dal carattere dinamico della stratificazione, tramite una mobilità sociale che consentirebbe anche gli individui delle classi inferiori di poter migliorare la loro condizione istruendosi e/o dimostrando spirito imprenditoriale e abnegazione sul lavoro (retorica della meritocrazia). Qualora risulti evidente che l’appartenenza agli strati superiori è legata a privilegi familiari, frequentazione di circoli esclusivi o altri vantaggi elitari, l’ordine capitalista perde la sua legittimità di fondo e deve cercare narrazioni alternative. In questa sede ragioneremo sugli strumenti politici, economici e sociali impiegati dal capitalismo per perpetuarsi e legittimarsi.
Sistema interstatale
Il capitalismo di fatto è una ‘economia-mondo’ gerarchizzata dove un numero ristretto di nazioni occupa una posizione egemone mentre un consistente gruppo subalterno serve allo scopo di garantire materie prime grezze ed eventualmente forza lavoro a basso costo. Una pluralità di stati integrati all’interno di un’economia globalizzata si traduce in profonde differenze a livello di reddito, mercato del lavoro, legislazione fiscale e ambientale, permettendo alle aziende multinazionali di ricercare in ciascun contesto geografico le opportunità più vantaggiose in termini produttivi, commerciali e finanziari.
Malgrado le indubbie tendenze che hanno favorito la nascita di organismi sovranazionali intaccando le prerogative dei governi locali, sono totalmente infondate le ideologie alla moda secondo cui il capitalismo mirerebbe alla fusione di tutte le nazioni in un’unica cittadinanza globale priva di distinzioni politiche, perché in quel caso non si potrebbe accampare alcuna scusa valida per discriminazioni e sperequazioni di diritti oggi giustificate alla luce delle sovranità statali.
Crescita economica
Nel libro L’enigma della crescita, Luca Ricolfi illustra i quattro principi fondamentali per cui si dovrebbe auspicare la crescita economica:
- la distanza che separa le società avanzate da quelle meno sviluppate;
- il pesante indebitamento di molte nazioni (vedi i cosiddetti PIIGS), obbligate a perseguire la crescita per evitare il fallimento;
- il debellamento delle sacche di povertà presenti anche nelle società più ricche;
- il rischio di generare tensioni sociali tra ricchi e poveri.
Malgrado l’intento apologetico, in realtà Ricolfi ha svelato quanto già suggerito tempo prima da Baudrillard, ossia che la crescita economica sussiste in funzione della disuguaglianza, sia tra le varie nazioni sia all’interno del medesimo paese. Il tasso minimo di crescita annuo normalmente consigliato nei manuali di economia – intorno al 3% – potrebbe rappresentare la soglia necessaria entro la quale i benefici della crescita si espandano sensibilmente al di là delle classi privilegiate, in quella che rimane comunque un’eterna rincorsa di Achille alla tartaruga. La storia recente illustra chiaramente come la fine del boom economico postbellico abbia determinato una vera e propria ridistribuzione al contrario dei benefici della crescita, favorendo le fasce di reddito già agiate.
Stato-nazione
Il ruolo dello stato, sminuito da Karl Marx, è stato invece ampiamente rivalutato da John Maynard Keynes. Oltre a delineare un quadro giuridico favorevole al diritto di proprietà, ha infatti il compito di intervenire su tutte le dinamiche che possono influenzare negativamente l’architettura capitalista, siano esse interne o esterne al sistema. In particolare deve:
- ridurre i costi per le imprese, accollandosi il più possibile gli oneri per la formazione e l’integrità fisica della forza lavoro, per il risanamento di danni ambientali, ecc;
- programmare un sistema di incentivi economici che renda vantaggioso l’impiego di tecnologie non ancora pienamente mature sul piano commerciale e assecondi il ciclo di sostituzione dei prodotti per scongiurare la tendenza congenita alla sovraproduzione;
- calmierare, se necessario, i costi delle principali commodity alimentari, energetiche e minerarie;
- contenere esternalità ecologiche e sociali causate dall’industrializzazione riversando tali oneri all’interno della fiscalità generale;
- attuare misure per sostenere il consumo a fronte di pericolosi fenomeni limitanti, quali disoccupazione e povertà diffusa;
- promuovere lo sviluppo tecno-scientifico, alleviando le spese di ricerca del settore privato.
Con buona pace degli anarco-capitalisti libertariani, senza lo stato il capitalismo imploderebbe rapidamente sotto la spinta delle molteplici variabili distruttive interne ed esterne. Per inciso, contrariamente alla vulgata dominante, il neoliberismo ha cambiato profondamente il ruolo dello stato rispetto alla stagione socialdemocratico/keynesiana, ma non lo ha affatto indebolito perché, malgrado la retorica, le politiche neoliberiste necessitano della potenza statale per imporsi e consolidarsi. Scrivono Pierre Dardot e Christian Laval, autori de La nuova ragione del mondo:
Lo Stato neoliberista costruisce mercati e mette le persone in situazioni di concorrenza. L’imposizione di questa forma di concorrenza non ha niente di naturale. Non è il risultato di processi spontanei, né l’effetto di una sorta di «cannibalizzazione» inerente alla dinamica del capitalismo.
Globalizzazione
La creazione di un mercato globale all’interno di un sistema interstatale permette alle nazioni più sviluppate di risolvere spinose problematiche interne che potrebbero intaccarne il buon funzionamento, almeno in ottica capitalista. Delocalizzando la produzione industriale, ad esempio, è possibile ridurre il costo della forza lavoro e bypassare le legislazioni ambientali nazionali, evitando costi che intacchino il margine di profitto; si può inoltre praticare un’opera di ‘gentrificazione sociale’ tale per cui lo sfruttamento più intenso e disumano venga confinato fuori dalla madrepatria, scongiurando la potenziale diffusione di ideali eversivi da parte dei soggetti più abusati dal sistema.
Protezionismo
Al contrario della globalizzazione, il protezionismo può essere utilizzato con successo da una potenza emergente o in principio di decadenza (esempio del primo caso la Germania guglielmina, gli USA di Trump del secondo) per consolidare la propria economia contro chi egemonizza gli scambi commerciali. Considerati i rischi di ripicca economica-militare, si tratta di una tattica consigliabile solo per chi può realisticamente fronteggiare tali minacce.
Debito
Il debito è uno strumento prezioso per il buon funzionamento di un’economia di mercato. In particolare:
- favorisce il consumo di prodotti anche particolarmente costosi;
- sostiene la domanda di beni e servizi;
- sostiene la domanda di materie prime necessarie per produrre beni facendone aumentare il prezzo, rendendone quindi più allettante l’attività di estrazione/produzione.
Il debito – pubblico e privato – può funzionare da ottimo deterrente in periodi di stagnazione se riesce ad attivare un ‘ciclo virtuoso’ di nuova crescita, altrimenti si accumula in una spirale diabolica. E’ un dato di fatto che alla fine del boom economico postbellico abbia fatto seguito, a livello globale, un’impennata del debito pubblico.
Debito pubblico mondiale in percentuale rispetto al PIL (fonte: FMI)
Negli USA il debito pubblico ha invertito la corsa al rialzo verso la fine del XX secolo sfruttando gli effetti del ‘mini boom’ 1980-2000, per poi risalire vertiginosamente.
Il debito privato ha invece favorito l’ascesa della finanza ed è stato utilizzato dalla classe lavoratrice, indebolita nel reddito dalle politiche neoliberiste, per riconquistare almeno parte del potere di acquisto perduto, finché la bolla del debito nel 2008 è esplosa innescando una reazione a catena iniziata negli USA con successivo effetto domino internazionale.
Tendenze analoghe si sono registrate in quasi tutti i paesi a industrializzazione matura.
Sviluppo tecnologico
La necessità delle aziende di perfezionare la tecnologia per comprimere i costi, arginando le rivendicazioni salariali dei lavoratori e aumentando la competitività sul mercato, è stata ampiamente sviscerata da Marx; l’analisi de I limiti dello sviluppo ha invece dimostrato l’importanza del progresso tecnico per lo sfruttamento di risorse naturali di difficile estrazione nonché per la lotta all’inquinamento e al degrado ambientale, prolungando temporaneamente la crescita e posponendo il collasso.
Distruzione creatrice
Joseph Schumpeter coniò l’espressione ‘distruzione creatrice’ per indicare “il processo evolutivo dell’economia capitalistica, nel quale innovazioni tecnologiche e gestionali trasformano il ciclo produttivo, scompaginando l’equilibrio dei mercati ed eliminando le imprese incapaci d’innovare” (Enciclopedia Treccani), fenomeno che si verificherebbe soprattutto nei periodi di recessione. Andando ben al di là delle intenzioni dello studioso austriaco, anche le guerre si sono dimostrate valide ‘creatrici’ allo scopo di risollevare la produzione industriale e alleviare la disoccupazione, operando vere e proprie palingenesi economiche dopo ripetute ondate di morte e distruzione.
Legittimazioni alternative
Fermo restando che l’unica ideologia del capitalismo è l’accumulazione di capitale, storicamente sono state impiegate varie strategie comunicative nei momenti in cui sia venuta meno la sua principale fonte di legittimazione, ossia la garanzia di mobilità sociale. Esaminiamo le due principali narrazioni alternative.
Diritti umani e civili
L’enfasi sui diritti umani e civili è un ottimo strumento per attuare una strategia politica dalla facciata progressista, non a caso è stata fatta propria dalla sinistra post-socialista che ha rigettato la critica sociale. Lo scopo è dividere la popolazione in gruppi interclassisti portatori di interessi particolari, relegando in secondo piano le differenze economiche. Inoltre, l’integrazione di minoranze discriminate, in un periodo di espansione dell’economia, può migliorarne la condizione reddituale contribuendo al sostegno dei consumi.
Razzismo/xenofobia/nazionalismo/discriminazione
La discriminazione gioca un ruolo importante per integrare un determinato gruppo all’interno della società mantenendolo però in posizione subalterna e ostracizzata, rendendolo quindi platealmente sfruttabile in considerazione delle scarse manifestazioni di solidarietà nei suoi confronti. Il nazionalismo crea invece un sentimento di unità intorno alla bandiera che oscura gli squilibri di reddito e, come dimostra la storia degli ultimi due secoli, può servire da legittimazione per l’espansionismo imperialista ai danni di altri popoli. Secondo l’opinione di Karl Polanyi, che condivido, il fascismo è la carta estrema giocata dal capitalismo nei momenti peggiori di crisi per salvare sé stesso al prezzo di sacrificare, almeno momentaneamente, il libero mercato autoregolato.
Considerazioni conclusive
La parola ‘crisi’, apparentemente neutra, contiene in realtà una discreta carica ideologica, perché indica una situazione di transitorietà superabile. Vista la traiettoria intrapresa dal capitalismo in seguito al raggiungimeno dei vincoli fisici (vedi prima parte dell’articolo), il termine più corretto sarebbe ‘collasso’, impiegato infatti nelle analisi del Club di Roma. Paradossalmente, malgrado il capitalismo sia entrato in una fase oramai marcescente, il dibattito sulle possibili alternative è ai minimi storici. Si parla molto delle cosiddette formazioni ‘antisistema’ delle nuova destra europea, le quali in realtà si limitano a contestare la variante globalista-internazionalista per proporre soluzioni protezioniste e discriminatorie: il loro ‘sovranismo’ non vuole intaccare nulla dell’architettura centro-periferia del sistema-mondo ma godere solo degli aspetti positivi; altrimenti, al rifiuto dell’immigrazione dovrebbe coerentemente associarsi anche quello dei flussi di materie prime dalla periferia agli stati centrali, che invece non vengono assolutamente messi in discussione (una nazione come l’Italia, legata a doppio filo a importazioni fondamentali, subirebbe una perdita di benessere tale da renderla una meta poco attraente per emigrare).
Una proposta politica alternativa alla legge della jungla su scala globale dovrebbe invece attaccare frontalmente il privilegio e condurre una critica serrata della ricchezza, nella consapevolezza che “il caviale per tutti” (vecchio slogan di Lotta Continua) è impossibile e che un’ideale di giustizia sociale può realizzarsi solo al ribasso, cioé impoverendo i più agiati. Si tratta di un messaggio che non ha alcuna possibilità di ottenere consenso? Sicuramente non suona molto propagandistico (pensate anche solo per un attimo all’attuale campagna elettorale), certo in un paese come l’Italia, dove il declino è iniziato da tempo e le prospettive di nuova prosperità economica sono inesistenti, forse qualche pensierino andrebbe fatto. Alcuni spunti interessanti possono provenire dal modello della Economia del bene comune, ideato da Christian Felber.
Per chiudere, una precisazione riguardo alle argomentazioni impiegate dal capitalismo come legittimazioni alternative, a scanso di possibili equivoci. Il fatto che l’ideologia capitalista, da autentico parassita, si impadronisca di aspirazioni e sentimenti legittimi, manipolandoli strumentalmente, non inficia la loro validità intrinseca. Tuttavia, come ha sottolineato Judith Butler (persona che, paradossalmente, viene spesso accusata di diffondere la ‘ideologia gender’ per coprire le ingiustizie del sistema), bisogna opporsi alle forme di riconoscimento pubblico attuate per deviare l’attenzione dal massiccio disconoscimento dei diritti altrui o a occultarlo. Ma come si possono coltivare ancora certi ideali in un mondo al collasso?
A quasi cinquant’anni di distanza da I limiti dello sviluppo, andrebbe finalmente compiuta un’operazione analoga anche sul piano politico, interrogandosi sulla declinazione che devono assumere valori come ‘uguaglianza’, ‘pari opportunità’, ‘giustizia sociale’ e tanti altri in una società costretta a una drastica cura dimagrante. Mettere la testa sotto la sabbia significa semplicemente spianare la strada alla peggiore barbarie.
Nella società occidentale il sentimento di povertà ha indubbiamente una forte componente legata al confronto fra gli individui e alla propria collocazione sociale. Agire su questo aspetto è determinante per diffondere le idee decrescenti.
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