Riassunto
Questo lavoro vuole dimostrare preliminarmente che la crescita e la decrescita sono fasi diverse della storia e tutte e due dotate di validità: il punto è che c’è un momento per la crescita e un momento per la decrescita (per la precisione c’è un contesto che richiede la crescita e un contesto che richiede la decrescita). L’obiettivo della crescita che c’è stata finora è identico all’obiettivo della decrescita che segnerà la storia futura: il raggiungimento del soddisfacimento pieno e per un tempo infinito dei bisogni umani e contemporaneamente il superamento della vita quotidiana (che va dall’annullamento all’esaltazione: questo però è un discorso che sarà oggetto di un altro lavoro). L’umanità è “agita” da questo obiettivo ed è questo obiettivo. La storia umana non è altro che la storia del raggiungimento, in modo dialettico, degli obiettivi sopra menzionati.
Ma questo lavoro intende dimostrare soprattutto la profonda logica esistente nella crescita che finora c’è stata e lo farà attraverso l’analisi del fenomeno dell’esplosione demografica che si ebbe nel neolitico.
Alla fine del lavoro si farà un breve accenno agli sviluppi a cui si arriva nella Bassa Mesopotamia nel VI millennio BP (Before Present).
Sommario
1) Contestualizzazione del problema
2) L’esplosione demografica nel neolitico
a) Trattazione
a1) Alcune informazioni preliminari (e approssimative)
a2) La situazione alla fine del Pleistocene
a3) L’esplosione demografica e l’adozione della coltivazione delle piante e dell’allevamento del bestiame
a4) Ipotesi sul passaggio dalla caccia e raccolta di vegetali selvatici alla coltivazione delle piante e all’allevamento
a41) L’adozione dell’agricoltura e dell’allevamento come conseguenza degli sconvolgimenti climatico-ambientali
a42) L’agricoltura e l’allevamento come risposta all’incremento demografico
a43) L’adozione dell’agricoltura e dell’allevamento per migliorare le condizioni di vita dell’uomo
a44) La coltivazione delle piante e l’allevamento del bestiame come strumento per ottenere incremento demografico
3) Il VI millennio BP (Before Present): la creazione di un nuovo contesto
1) Contestualizzazione del problema
La scelta della crescita, in quella che può essere considerata la prima fase della storia umana, era in relazione al contesto esistente in quella prima fase. Nella seconda fase della storia umana il diverso contesto che si è creato richiede una risposta diversa: la decrescita appunto!
Grossolanamente si può dire che la crescita è andata bene fino a tutto gli anni sessanta del XX secolo. Fino a questo periodo la crescita è stata produttiva ai fini del raggiungimento degli obiettivi dell’umanità. “Le nostre generazioni”… hanno raggiunto in tale periodo…” una ricchezza e una varietà di risorse intellettuali e pratiche che, in teoria, possono assicurare l’espansione e lo sviluppo materiale dell’umanità ancora per lunghi anni. Si tratta di un patrimonio immenso e sempre crescente di informazioni, di conoscenze scientifiche, di competenze tecnologiche, di talenti manageriali, di esperienze di gestione, di attrezzature produttive e di mezzi finanziari, quale i nostri padri non potevano neppure sognare.” (1)
Foto 1 1965 il primo computer da tavolo
Nel periodo successivo le cose sono sicuramente migliorate perché si è avuto un incremento del patrimonio di informazioni, di conoscenze scientifiche, di competenze tecnologiche, di attrezzature produttive e tant’altro.
Bisogna anche dire che ciò è stato raggiunto al termine di un processo storico durato diversi millenni e al prezzo di guerre, epidemie, carestie, deportazioni, genocidi, condizioni di vita e di lavoro al limite della sopportazione, sfruttamento di popolazioni su altre, profonde ferite inferte alla natura (forse non più rimarginabili), ecc.
Un processo storico non ha termine e la storia non volta pagina fino a quando non ha dato tutto i suoi frutti, fino a quando non ha esplicitato tutte le sue potenzialità.
Il problema è tutto qua: quell’ulteriore sviluppo di cui si parlava poco sopra e che si è avuto dopo gli anni sessanta del XX secolo si sarebbe potuto raggiungere anche senza crescita della popolazione e del prodotto interno lordo complessivo, quindi senza ulteriormente consumare il capitale rappresentato dal nostro pianeta con le sue ricchezze, senza ulteriormente peggiorare le condizioni di vita dell’umanità e dell’ambiente e, soprattutto, senza mettere a rischio la possibilità di un futuro in condizioni decenti di vita alle prossime generazioni.
Gli anni settanta del XX secolo costituiscono una età assiale, cioè un periodo di cesura con quanto avvenuto fino a quel momento. (2) Dopo questo periodo è necessario che la storia cambi verso.
Si può dire (ovviamente in modo molto approssimativo quando si tratta di fenomeni così grandi e complessi) che dopo gli anni settanta del XX secolo una parte consistente della popolazione del mondo non contribuisce alla creazione di migliori condizioni e più lunghe prospettive di vita per l’umanità.(3) Ciò vale per molte popolazioni di quello che una volta si chiamava terzo mondo ma vale anche per il mondo sviluppato, dove molte decine di milioni di giovani con un alto grado di istruzione svolgono lavori che non richiedono quelle conoscenze oppure sono addirittura disoccupati. Ma la disoccupazione colpisce duramente anche le generazioni mature.
Ma l’obiettivo dell’umanità è il soddisfacimento pieno e per un tempo infinito dei suoi bisogni umani e, contestualmente, il superamento della vita quotidiana.
Questo obiettivo fino agli anni settanta del XX secolo è stato perseguito con la crescita mentre nella storia futura sarà perseguito dalla decrescita.
E’ necessario che si passi dal tempo della crescita alla crescita del tempo; è necessario che si passi dal primato dello spazio (sempre più produzione) al primato del tempo (più lunghe prospettive di vita per l’umanità). In virtù dell’inscindibilità di spazio e tempo (per cui correttamente si dovrebbe parlare di spaziotempo) a un aumento del tempo (più lunghe prospettive di vita per l’umanità) dovrebbe corrispondere una diminuzione dello spazio (diminuzione della produzione, cioè decrescita).
Nella fisica di Galileo e di Newton lo spazio e il tempo erano separati e assoluti. Lo spazio e il tempo si uniscono (per cui dopo si potrà parlare solamente di spaziotempo) in conseguenza dello sviluppo scientifico (e dei problemi che affrontava e cercava di risolvere) che, grossolanamente e approssimativamente, parte dal concetto di continuun fra materia e spazio di Michael Faraday, dalle quattro equazioni fondamentali sull’elettromagnetismo di James Clerk Maxwell per arrivare alle trasformazioni di Anton H. Lorentz e alla teoria della relatività speciale di Albert Einstein (non mi addentro oltre anche perché non ho una preparazione scientifica).
Ma cosa ha portato alla nascita dello spaziotempo nel processo storico-culturale?
E’ stata la situazione che si è creata negli anni settanta del XX secolo, quel periodo che considero una età assiale nella storia moderna, e che ha portato allo scontro fra spazio e tempo (tale scontro non è altro che un rapporto dialettico) creando una situazione tale che una ulteriore crescita della produzione (quindi nel consumo di risorse) pregiudica ulteriori prospettive di buone condizioni di vita per le generazioni future. Affinchè siano garantite buone prospettive di vita alle generazioni future è necessario che lo spazio (cioè la produzione e il connesso consumo di risorse) si riduca, quindi che si decresca.
Questi concetti però saranno oggetto di un successivo lavoro.
“L’asino la porta la paglia e l’asino se la mangia” è un detto del mio paese e serve a indicare quei lavori, quelle attività che non producono ricchezza ma che servono solamente a sostenere chi le svolge. La stessa cosa potrebbe dirsi dell’umanità se non fosse che uno stato stazionario nelle attuali condizioni non è possibile. Ma se l’umanità è “agita” dal raggiungimento dell’obiettivo del soddisfacimento pieno e per un tempo infinito dei suoi bisogni e contemporaneamente dal superamento della vita quotidiana allora significa (nell’attuale contesto storico iniziato dopo quella moderna età assiale rappresentata dagli anni settanta del XX secolo) che si dovrà decrescere, cioè diminuire il consumo di risorse.
La diminuzione del consumo di risorse dovrà avvenire con un mix di soluzioni, che vanno dalla diminuzione della popolazione all’eliminazione di tutti quei consumi che non soddisfano bisogni concreti.
Ovviamente si tratta di ripartire giustamente la ricchezza prodotta sia fra le diverse parti del mondo che fra le diverse generazioni. Per essere più precisi e corretti si tratta di fare partecipare tutte le parti del mondo e tutte le parti della popolazione alla creazione della ricchezza e contemporaneamente a beneficiarne.
Ma la scelta più importante è la decrescita: della popolazione e della produzione.
E’ una scelta difficile ma è l’unica da fare e ci si incamminerà su questa strada solamente quando qualcuno/qualcosa comincerà a presentare il conto con “argomentazioni” a cui non si potrà rispondere di no (dalle giovani generazioni che non hanno un futuro, alle zone del mondo produttrici di risorse che rimarranno senza futuro quando queste risorse si esauriranno, alle condizioni climatico-ambientali che sono sempre più degradate e che comportano sempre più distruzioni, a nuovi valori che portano al superamento della vita quotidiana al posto dell’alienante consumo per il consumo, ecc.)
2) L’esplosione demografica nel neolitico
Nel lavoro che segue si parlerà di crescita e, per la precisione, si indagherà sul fenomeno dell’esplosione demografica che si ebbe a partire da 12-10 mila anni fa, facendo soprattutto delle ipotesi sulle cause-condizioni che la resero possibile e sull’obiettivo che si volle raggiungere. Il fenomeno dell’esplosione demografica è legato al passaggio dall’ ”economia predatoria” (raccolta, caccia e pesca) all’ “economia produttiva” (coltivazione delle piante e allevamento): il lavoro consisterà anche nella ricerca del tipo di legame esistente tra questi due fenomeni.
Questo lavoro è prima di tutto una ricerca della validità della crescita e, contemporaneamente, una critica a certe correnti di pensiero (come il primitivismo e l’ecologia profonda) secondo cui certe cose non sarebbero dovute avvenire. Per esempio secondo il primitivismo è stato un errore per l’umanità passare dalla “economia predatoria” (raccolta di semi, radici e altre parti di vegetali spontanei, caccia e pesca) alla coltivazione delle piante e all’allevamento degli animali. Ovviamente queste correnti di pensiero non spiegano perché le cose sono andate in modo opposto. Per meglio dire danno delle spiegazioni che non hanno niente di scientifico come quando si dice che i vari gruppi umani “si sarebbero sbagliati”: una tale spiegazione andrebbe bene quando si tratta di spiegare fatti della vita quotidiana, della vita domestica, ma non quando si tratta di spiegare eventi che hanno segnato la storia dell’umanità. Da poche settimane sono venuto a conoscenza di un piccolo saggio scritto da Jared Diamond nel 1987 e che si intitola “Il peggiore errore nella storia della razza umana” (4) e che penso possa compendiare le diverse posizioni critiche in merito all’adozione, a iniziare da circa circa 10 mila anni fa, in modo graduale e non esclusivo, e in varie parti del mondo, della coltivazione delle piante e poi dell’allevamento del bestiame. Parti di questo saggio saranno utilizzate nella trattazione che si farà (si utilizzeranno soprattutto le parti che parlano delle conseguenze negative sulle condizioni di salute e di vita in generale delle popolazioni passate dall’economia predatoria alla coltivazione delle piante e all’allevamento) ma si rigetteranno completamente certe considerazioni.
Un discorso un po’ diverso si dovrebbe fare a proposito dell’ecologia profonda ma si sceglieranno altre occasioni per farlo.
a) Trattazione
a1) Alcune informazioni preliminari (e approssimative)
Il periodo in cui le popolazioni umane vivevano di caccia e raccolta di vegetali selvatici viene denominato Paleolitico, cioè l’età della pietra grezza, in riferimento al materiale (oltre che al suo stato di lavorazione) di cui erano fatti la maggior parte degli utensili creati e utilizzati dall’uomo. Questo periodo termina circa 12-10.000 anni fa. Il Paleolitico ricade nell’era geologica del Pleistocene (che termina pure essa circa 12-10.000 anni fa). Dopo il Paleolitico si ha il Neolitico, cioè l’età della pietra levigata, in riferimento alla levigatura a cui erano soggette le pietre che servivano a fare asce e lame per tagliare gli alberi e per fare altro. Il Neolitico ricade nell’era geologica dell’Olocene (che è l’era, iniziata circa 12.000 anni fa, in cui viviamo) ed è il periodo in cui alcune popolazioni umane iniziano, in modo graduale e non esclusivo, a domesticare le piante e gli animali e, quindi, iniziano a praticare la coltivazione delle piante e l’allevamento degli animali. Alle volte viene utilizzato il Mesolitico come periodo di cesura (e della durata di alcuni millenni) fra il Paleolitico e il Neolitico.
a2) La situazione alla fine del Pleistocene
Alla fine del Pleistocene (era geologica terminata circa 15-10.000 anni fa) le popolazioni di Homo sapiens sapiens aveva ormai occupato tutta la terra, quindi anche le Americhe e l’Oceania, non raggiunti in precedenza dalle popolazioni di Homo erectus.
E’ bene esporre preliminarmente la situazione ambientale e climatica alla fine del pleistocene prima di affrontare il tema dell’esplosione demografica che si ebbe nel Neolitico, cioè nell’era geologica dell’Olocene (che è l’attuale periodo geologico iniziato circa 12 mila anni fa).
Foto 2 Scena di caccia nelle grotte di Lascaux in Dordogna (Francia)
“Gran parte delle zone temperate d’Europa, Asia e America era soggetta a un clima molto aspro, caratterizzato dalla presenza di tundre e steppe, mentre le regioni più calde – subtropicali, tropicali ed equatoriali – avevano una temperatura da 5 a 8° C inferiore all’odierna, ma una minore piovosità, per cui presentavano, rispetto a oggi, meno foreste e più savane. Nei limiti delle possibilità offertegli dall’ambiente, l’uomo viveva essenzialmente di caccia e di pesca, ma quasi certamente doveva integrare la sua alimentazione con i prodotti della raccolta, anche se i dati concreti di cui disponiamo al riguardo sono scarsi. Così come la fauna e la flora, anche l’uomo era ovunque sottoposto alle leggi dell’equilibrio biologico: diventato un predatore già a partire dal paleolitico inferiore, esso non aveva nulla da temere da parte degli altri predatori, grazie alla padronanza del fuoco e all’invenzione delle armi da lancio, e non contava più, quindi, molti nemici naturali. I gruppi umani rimanevano comunque troppo poco numerosi per spezzare l’equilibrio biologico degli ambienti fisici in cui vivevano (biotopi).
Per quanto riguarda l’organizzazione sociale, poiché la caccia ai grandi animali, che l’uomo praticava di preferenza, richiede la collaborazione di un numero di cacciatori di gran lunga superiori al ristretto nucleo familiare, è probabile che l’unità sociale di base fosse composta da più famiglie, di cui non siamo in grado di stabilire il numero” (5)
“I cambiamenti climatici, profondi e relativamente rapidi, della fine del Pleistocene e dell’inizio dell’Olocene, provocarono un po’ ovunque importanti modificazioni tanto nella geomorfologia quanto nella flora e nella fauna, ed ebbero enormi ripercussioni sul modo di vita degli umani. Lo scioglimento relativamente rapido della calotta glaciale boreale e degli enormi ghiacciai che ricoprivano l’alta montagna diede luogo a un notevole innalzamento del livello dei mari, ma non solo: vaste distese di terre basse furono sommerse e in alcune zone i movimenti di assestamento della crosta terrestre innalzarono notevolmente gli antichi litorali. L’intero volto del pianeta ne fu profondamente modificato. In Eurasia e nel Nord America, le zone periglaciali dell’ultima glaciazione godevano di un clima temperato, mentre le steppe e le tundre che in queste regioni avevano lasciato il posto alle foreste, occupavano adesso le regioni più settentrionali, non più ricoperte dalla calotta artica. Nelle zone meridionali, la temperatura media si era innalzata da 5 a 8° C e la maggiore piovosità aveva favorito l’estendersi della foresta a scapito della savana. Anche la fauna aveva subito cambiamenti; alcune specie che nel corso delle epoche precedenti avevano avuto un ruolo preponderante nella sussistenza dell’uomo, come il mammut, il rinoceronte lanoso, l’orso delle caverne, in via di estinzione già verso la fine del pleistocene, scomparvero del tutto, mentre altre specie, adatte come le renne ad un ambiente periglaciale, migrarono più a nord, dove ritrovarono le tundre. L’estendersi delle foreste in vaste aree delle zone temperate, subtropicali, tropicali, ed equatoriali aveva provocato notevoli cambiamenti nella fauna di queste regioni. Soltanto nelle zone in cui diverse circostanzi naturali – natura del terreno, altezza, piogge meno abbondanti – avevano favorito la steppa, la prateria o la savana, la fauna non differiva affatto da quella del pleistocene finale. Si aggiunga che la desertificazione di immense regioni dell’Africa e dell’Asia sarebbe iniziata soltanto molti secoli più tardi.
Colpite da questi profondi cambiamenti verificatisi nel loro ambiente, la maggior parte delle comunità umane si trovarono a dover affrontare una situazione critica. Alcune di esse, restii nell’adattarsi alle nuove circostanze, avevano seguito la loro selvaggina abituale – i branchi di renne – nella migrazione verso nord, e si stabilirono nelle regioni dell’Europa del nord, dell’Asia e dell’America lasciate libere dalla calotta glaciale, dove proseguirono ancora per molto tempo nel loro tradizionale modo di vita di predatori, basato sulla pesca e sulla caccia di renne, agli alci e ad altre specie della fauna artica……………Gli Altri gruppi umani, in particolare quelle che abitavano le regioni ora ricoperte dalle foreste nelle zone temperate conobbero un periodo di crisi (che si riflette nelle culture del Paleolitico finale di cui abbiamo accennato) ma pervennero in seguito ad adattarsi piuttosto rapidamente al loro nuovo ambiente. Assistiamo innanzitutto ad un grande cambiamento nelle fonti di sussistenza di tali comunità: la caccia svolge ancora un ruolo importante nell’approvvigionamento, ma non ne costituisce più la parte essenziale. In seguito alla scomparsa o alla migrazione dei grandi branchi di selvaggina delle steppe e delle tundre, gli uomini avevano iniziato a cacciare nelle foreste dove le prede erano costituite da animali che vivevano in gruppi meno numerosi, o addirittura da esemplari isolati (cervi, caprioli, uri, cinghiali). Soltanto nelle regioni che abbiamo sopra ricordato, dove dominavano le savane e le praterie, essi potevano continuare la caccia alle specie che vivevano in grandi mandrie, come i bisonti e le gazzelle. Nelle foreste era anche più difficile bloccare le prede, fu quindi naturale che i cacciatori adottassero sempre più frequentemente, quando non esclusivamente, l’arco e la freccia, la cui invenzione risale al paleolitico superiore. Tale ipotesi è confermata dalla presenza, nelle industrie litiche di queste comunità, di una grande quantità di microliti usate come armature di frecce. Queste stesse condizioni di caccia spiegano perché, in diverse regioni, piuttosto distante le une dalle altre, l’uomo arrivò progressivamente ad addomesticare il lupo e l’antenato del cane divenne per il cacciatore un ausilio prezioso, in grado di stanare le prede nella foresta e nella boscaglia………La caccia nelle foreste era senz’altro più difficile e meno fruttuosa rispetto alla caccia alle renne praticata durante l’epoca precedente e fu per questo motivo che divenne sempre più frequente la caccia alla piccola selvaggina, come gli uccelli acquatici. La minore resa della caccia ebbe conseguenze anche sul piano sociale; le comunità furono composte da un numero minore di famiglie rispetto al passato poiché la caccia nelle foreste richiedeva la partecipazione di un numero più limitato di cacciatori e le prede uccise non erano sufficienti ad assicurare la sussistenza di un gruppo numeroso. …………Alcune comunità giunsero persino a stabilirsi lungo le rive di fiumi e laghi, altre lungo le zone costiere dove vivevano essenzialmente di pesca, della raccolta di conchiglie e della caccia alle foche. I cambiamenti subiti dall’ambiente, infine, fornirono nuove fonti di sussistenza alle quali l’uomo non tardò a ricorrere, saccheggiando i nidi degli uccelli, raccogliendo lumache e altri molluschi e variando la sua dieta con l’apporto di frutta, di un gran numero di piante commestibili e di radici estratte dal terreno.” (6)
a3) L’esplosione demografica e l’adozione della coltivazione delle piante e dell’allevamento del bestiame
L’esplosione demografica che si ebbe nel neolitico è in relazione all’adozione della coltivazione delle piante e a dell’allevamento del bestiame: ma quale è il rapporto esistente fra questi due fenomeni?
L’adozione della coltivazione delle piante e dell’allevamento di alcune specie animali avvenne per sostenere una popolazione divenuta molto numerosa e non più sostenibile con la raccolta e la caccia e pesca?
A parità di territorio la coltivazione e l’allevamento furono in grado di sostenere una popolazione umana notevolmente superiore a quella che sarebbe stata possibile sostenere con la caccia e la raccolta.
In questo lavoro si vuole dimostrare l’ipotesi che l’adozione della coltivazione delle piante e l’allevamento del bestiame avvenne per creare incremento demografico e non per far fronte a un ipotetico già avvenuto incremento di popolazione oppure per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni oppure che fu una conseguenza degli sconvolgimenti climatici o per altri motivi ancora.
Alla fine del lavoro si farà anche l’ipotesi su quale obiettivo si volle raggiungere con l’incremento demografico e quali le condizioni che resero possibile il passaggio fra l’economia “predatoria” e quella “produttiva”.
Foto 3 Scene di agricoltura nell’antico Egitto
a4) Ipotesi sul passaggio dalla caccia e raccolta di vegetali selvatici alla coltivazione delle piante e all’allevamento
Dopo avere esposto per sommi capi la situazione ambientale e umana alla fine del pleistocene, si esporranno adesso le ipotesi finora fatte sul passaggio dalla caccia e raccolta di vegetali spontanei alla coltivazione delle piante e all’allevamento.
a41) L’adozione dell’agricoltura e dell’allevamento come conseguenza degli sconvolgimenti climatico-ambientali
Alcune spiegazioni danno molta importanza ai cambiamenti climatici ed ecologici dovuti alla fine del Pleistocene, che corrisponde alla fine della glaciazione di Würm (che inizia circa 100 mila anni fa e termina circa 15-10 mila anni fa). Viene detto per es. che i grandi erbivori, in conseguenza dei cambiamenti climatici ed ecologici, si spostarono verso nord. Questo motivo viene visto come molto importante, se non fondamentale, per il passaggio dalla caccia e dalla raccolta di vegetali spontanei alla coltivazione delle piante e all’allevamento.
Ma le popolazioni umane allora erano nomadi e/o seminomadi per cui avrebbero potuto seguire i grandi erbivori nel loro spostamento verso nord, senza cambiare stile di vita. Alcune popolazioni, del resto, fecero questa scelta, seguendo la loro abituale selvaggina nello spostamento verso il nord, nelle zone che vennero occupate dalle tundre dopo lo scioglimento dei ghiacci in buona parte dell’emisfero boreale. Inoltre le variazioni climatiche ed ecologiche avvennero in tempi abbastanza lunghi (almeno in riferimento alla vita umana).
Senza volere sminuire il contesto naturale in cui le popolazioni umane vivevano, si ritiene valida un’altra spiegazione, che sarà esposta chiaramente alla fine della trattazione. Nella spiegazione che verrà data gli sconvolgimenti climatici-ambientali avvenuti alla fine del pleistocene sono da vedersi come uno degli elementi che formeranno il nuovo contesto che porterà al passaggio dall’economia predatoria a quella produttiva e alla conseguente esplosione demografica.
a42) L’agricoltura e l’allevamento come risposta all’incremento demografico
Un’altra spiegazione “tradizionale” sul passaggio dalla caccia e raccolta di vegetali spontanei alla coltivazione delle piante e all’allevamento degli animali, che si aggiunge alla precedente che si basa, come abbiamo visto, sui cambiamenti climatici ed ecologici, è che l’agricoltura e l’allevamento furono adottati per problemi demografici.
“…conviene chiedersi perché si è sviluppata l’agricoltura e anche perché si è sviluppata proprio in certi luoghi e in un determinato momento della storia.
E’ ragionevole pensare che in alcune zone si sia venuta a determinare una densità più elevata di abitanti, che rese difficile sostenere la popolazione locale con la vecchia economia di caccia e raccolta. Si deve essere creato insomma un problema di sovrappopolazione. Probabilmente ciò è andato di pari passo con un cambiamento delle condizioni ambientali che ha interessato in quel periodo l’intero globo terrestre. Il clima è diventato decisamente più freddo, la flora e la fauna sono mutate. In America, per esempio, intorno a 11.000 anni fa si sono estinti i mammuth, per la scomparsa delle loro fonti di cibo vegetale oppure perché sterminati dai cacciatori. Nelle pianure dell’America settentrionali sono stati sostituiti dai bisonti, che è diventato il nuovo cibo, ma non dappertutto l’avvicendamento è stato rapido e indolore; in altri luoghi le popolazioni umane devono essersi trovate in grandi difficoltà.
Questi due fattori possono spiegare perché l’agricoltura ha avuto inizio più o meno in una stessa epoca in punti diversi del mondo, probabilmente nelle zone le cui condizioni favorirono una densità di popolazione più elevata, perché disponevano di un ambiente più ricco, e soprattutto di piante e animali facili da coltivare e allevare.” (7)
“Le prove suggeriscono che .., molte…popolazioni primitive, si dedicarono all’agricoltura non per scelta ma per la necessità di nutrire un sempre maggiore numero di individui. Non penso che i cacciatori-raccoglitori adottarono l’agricoltura se non quando furono costretti, e quando lo fecero scambiarono qualità con quantità” (8)
“Quando la densità della popolazione dei cacciatori-raccoglitori lentamente salì alla fine della glaciazione, le tribù si trovarono di fronte una scelta difficile: o garantire cibo per ognuno adottando l’agricoltura, oppure limitarne la crescita.” (9)
Le due forme di procacciamento di quanto necessario alla sopravvivenza, si dice, non bastavano più a sostenere le popolazioni umane, stante l’incremento demografico… Ma intorno ai 15-10 mila anni fa è stato ipotizzato che la popolazione umana nel mondo ammontasse a circa 5 milioni di individui per cui, considerando che allora le popolazioni umane insistevano su tutto il pianeta (anche quindi sul continente americano e sull’Oceania, territori non raggiunti dalle popolazioni di Homo erectus), è pur sempre molto rada. Per quantificare il problema si pensi che in Italia avrebbero insistito 10 mila individui (fra uomini, donne e bambini) su 300 mila Km2 (il valore viene fuori dalla seguente proporzione: 5 milioni [abitanti della terra circa 10-15.000 anni fa] : 150 milioni [km2 delle terre emerse] = X [abitanti in Italia]: 300 mila [km2 dell’Italia]. E’ anche vero che solamente parte delle terre emerse è abitabile. Anche considerando che solamente due terzi delle terre emerse siano abitabili ciò significa che è come se in Italia avessero insistito non 10 mila ma 15 mila persone. Questo calcolo però è solamente teorico ed è stato fatto senza tenere conto delle differenze fra le varie parti del mondo e non si basa su dati archeologici.
Ma “Come si fa a valutare la densità della popolazione in base a dati archeologici? In linea di massima si conta il numero di insediamenti, di siti archeologici individuati, e si valuta il numero di individui che vi abitavano in base al numero di capanne e alle loro dimensioni. Aiuta molto l’esame delle situazioni etnografiche simili. Moltiplicando il numero dei siti per il numero delle persone per sito ci si può fare un’idea della densità. Naturalmente vi sono varie sorgenti di errore possibili, fra le quali il fatto che ovviamente non tutti i luoghi abitati che esistevano ci sono noti e che comunque dobbiamo limitarci a basare i nostri calcoli su esempi che sono stati ben studiati, su aree esaminate così minuziosamente da poter pensare che tutto quello che c’era sia stato trovato, mentre nella maggioranza delle aree una ricerca così completa non é possibile o non è mai stata compiuta.
I mesoliti (abitanti del periodo mesolitico, che va da 10.000 a 6.000 anni fa [n.d.r.]) in Inghilterra andavano a caccia di cervi; le ossa di cervi ritrovate vicino agli accampamenti dove venivano mangiati sono state contate e in base a questo è stato possibile stimare quella che doveva essere la popolazione mesolitica, cioè preagricola, dell’Inghilterra intera (Gran Bretagna [n.d.r.]). Era tra le 5.000 e le 10.000 persone, un numero ridottissimo se si pensa che oggi gli abitanti sono quasi 10.000 volte di più. Che si tratti di un numero ragionevole lo dimostra però un parallelo storico: è stato possibile contare, benché molto approssimativamente, una popolazione che viveva, ancora nel 1800, di caccia e raccolta. In Tasmania, quando è stata occupata dai coloni bianchi, vivevano in tutto 2.000 o 3.000 indigeni, su un’area che era circa un terzo di quello dell’Inghilterra e presentava condizioni climatiche simili” (10)
Anche ricerche comparate fra le attuali popolazioni di scimmie (soprattutto babuini) e le popolazioni umane preagricole portano a risultati simili. É stato ipotizzato che la consistenza dei gruppi umani nelle società preagricole fosse di 50-60 individui, che ogni individuo disponesse di 8-16 chilometri quadrati e che l’areale di pertinenza di tali gruppi fosse fra i 400 e i 960 chilometri quadrati per ogni gruppo. (11) Con popolazioni in cui gli uomini erano specializzati nella caccia e le donne nella raccolta, non tutto il territorio di una vasta area geografica è utilizzabile. Bisogna escludere zone desertiche, zone montuose e, in ogni caso, altre zone che, in un modo o nell’altro, non sono utilizzabili. Applicando i dati suddetti all’Italia e ipotizzando che per l’Italia un terzo della superficie non sia utilizzabile verrebbe fuori, come popolazione insistente sulla penisola nell’epoca preagricola, il seguente valore: 200.000 (Km2 di superficie utilizzabile in Italia) : 680 (superficie media [in Km2 ] fra 400 e 960) x 55 (consistenza gruppo [media fra 50 e 60]) = circa 16.000 individui. Come si vede il valore che viene fuori da questo ulteriore calcolo è quasi uguale al risultato del calcolo fatto in precedenza in riferimento alla stessa Italia.
“Il problema delle ‘cause’ del passaggio dalla caccia-raccolta alla produzione di cibo non è tale da potersi risolvere univocamente: cause ed effetti, fattori indipendenti e dipendenti si intrecciano e sono malamente misurabili data l’insufficienza ‘statistica’ dei dati e data la loro griglia spazio-temporale ancora troppo larga. In linea generale sembra errata la spiegazione per pressione demografica: sia nella fase di raccolta intensiva e caccia specializzata, sia nella fase di produzione incipiente, la popolazione è ancora talmente rada che le risorse disponibili sono comunque sufficienti. Quanto ai mutamenti climatici (e conseguentemente ecologici) cui abbiamo già accennato, essi costituiscono verosimilmente lo scenario del mutamento tecnologico ed economico, ma non la sua causa”. (12)
Come si vede chiaramente non c’era nessun problema demografico e quindi l’adozione della coltivazione delle piante e dell’allevamento degli animali al posto della caccia e della raccolta di vegetali spontanei avvenne per altri motivi.
a43) L’adozione dell’agricoltura e dell’allevamento per migliorare le condizioni di vita dell’uomo
Un’altra ipotesi che è stata fatta, per spiegare il passaggio dalla caccia e raccolta di vegetali spontanei all’agricoltura e all’allevamento, è che gli uomini, in questo modo, poterono migliorare le loro condizioni di vita.
Ma come erano le condizioni di vita delle popolazioni che si procacciavano da vivere con la caccia, la pesca e con la raccolta di frutti, semi e radici di piante selvatiche?
“In genere si cita a questo proposito una frase di Hobbes, secondo cui l’esistenza di questi primitivi era `disgustosa, brutale e breve ´ . Dovevano lavorare davvero sodo, alla ricerca quotidiana di che sfamarsi, sempre sull’orlo della morte per inedia, privi di comodità così scontate come letti e divani, ed erano condannati a morire giovani.
In realtà l’equazione `agricoltura = meno fatica, più comodità, vita più lunga’ vale solamente per noi ricchi cittadini del Primo Mondo, a cui i prodotti della terra (coltivati da altri al nostro posto) arrivano in tavola da chissà dove. La grande maggioranza dei contadini e dei pastori di oggi, cioè la grande maggioranza della popolazione mondiale, non se la passa poi così bene. Secondo alcuni studi sull’occupazione del tempo, un contadino lavora in media più ore di un cacciatore, e non viceversa! Le testimonianze archeologiche ci mostrano che i primi agricoltori erano spesso più gracili e malnutriti dei loro colleghi cacciatori – raccoglitori, erano soggetti a malattie più gravi e morivano in media prima.” (13)
Nel saggio del 1987 di Jared Diamond a cui ho accennato c’è una enormità di prove che dimostrano il peggioramento delle condizioni di vita, sia dal punto di vista fisico che dei rapporti sociali, delle popolazioni che passarono dall’economia predatoria rappresentata dalla raccolta, caccia e pesca all’economia produttiva rappresentata dalla coltivazione delle piante e dall’allevamento.
Di tale saggio si riportano i seguenti passi.
“recenti scoperte suggeriscono come l’avere adottato l’agricoltura, che si suppone sia stato il nostro maggiore passo verso una vita migliore, fu in realtà una autentica catastrofe da cui non ci siamo mai ripresi.”
“Gli scheletri di Grecia e Turchia mostrano che l’altezza media dei cacciatori-raccoglitori verso la fine della glaciazione era di 1,80 m per gli uomini e 1,70 m per le donne. Con l’adozione dell’agricoltura le altezze crollarono e nel 3000 a.C. si stabilizzarono in 1,60 m per gli uomini e 1,50 m per le donne. Nei tempi classici le altezze molto lentamente aumentarono, ma tanto Greci che Turchi moderni non hanno ancora riguadagnato le altezze medie dei loro distanti antenati.
“A Dickson Mounds, situato presso la confluenza dei fiumi Spoon e Illinois, gli archeologi hanno estratto circa 800 scheletri che rendono l’idea dei cambiamenti nella salute di quella popolazione quando decise di adottare la coltivazione intensiva di mais attorno al 1150 a.C.. Gli studi di Georges Armelagos e dei suoi colleghi dell’università del Massachusetts mostrano come questi primi agricoltori pagarono un alto prezzo per questo nuovo stile di vita. Paragonati ai cacciatori-raccoglitori che li precedettero, gli agricoltori avevano circa il 50% di problemi in più allo smalto dentale (il che indicava malnutrizione), il quadruplo di anemia causata da deficienza di ferro (evidenziata da avanzata osteoporosi), il triplo di lesioni ossee che rivelavano malattie infettive in generale, ed un aumento delle condizioni degenerative della spina dorsale, probabilmente a causa del lavoro troppo duro.”
“Ed infine, il semplice fatto che l’agricoltura incoraggiasse le persone ad aggregarsi in affollate società, molte delle quali poi avevano scambi commerciali con altre società affollate, portò al diffondersi di parassiti e malattie infettive (alcuni archeologi sostengono che fu l’affollamento e non l’agricoltura a portare le malattie, ma rimane un dilemma del tipo uovo-gallina perchè l’affollamento incoraggia l’agricoltura e viceversa).”
“Le epidemie non avevano vita lunga quando le popolazioni erano aggregate in piccoli gruppi che cambiavano continuamente di posto. Tubercolosi e diarrea dovettero attendere l’arrivo dell’agricoltura per affermarsi, così come il morbillo e la peste arrivarono quando si svilupparono le grandi città.”
“Oltre a deficit alimentari, morte per fame ed epidemie, la società agricola ha portato un’altra maledizione all’umanità: profonde divisioni di classe. I cacciatori-raccoglitori avevano pochissimo cibo immagazzinato e nessuna risorsa alimentare concentrata come frutteti o mandrie: si sostentavano grazie ad una varietà di animali e piante selvatiche. A seguito di ciò non potevano esserci né Re né classi parassite che ingrassavano grazie al cibo sottratto ad altri.”
“Con l’agricoltura arrivarono anche le grandi diseguaglianze sociali e sessuali, le malattie e il dispotismo che maledicono le nostre attuali esistenze.” (14)
Ovviamente di questo saggio di Jared Diamond non si condivide il giudizio che questa scelta fu “il peggiore errore nella storia della razza umana”. Per la verità non è da considerarsi nemmeno un “semplice errore” perchè la storia non si tratta con questi termini che possono andare bene quando si tratta di fatti della vita quotidiana, della vita domestica.
Si continua la trattazione di questo punto riportando i contributi di altri studiosi.
Con le grandi civiltà dell’antico Medio Oriente ormai la base economica è costituita saldamente dall’agricoltura e dall’allevamento. Di queste grandi civiltà si è avuto fino a non molti anni fa l’idea che esse fossero costituite da bellissimi palazzi con una lussuosa vita di corte, di splendidi templi, di gioielli d’oro e pietre preziose, di stupende opere d’arte, ecc. Questa però è stata una idea molto parziale delle antiche civiltà del Medio Oriente, perché esse consistettero in “un mondo che fu nella stragrande maggioranza di villaggi e di economia agro-pastorale…un mondo che fu analfabeta al 90% (se non al 99%)…..un mondo che fu alle prese con un endemica penuria (di cibo, di risorse, di lavoro, di uomini)….” (15)
La situazione era invece completamente diversa quando l’uomo nel paleolitico superiore praticava la caccia, integrata dalla raccolta di frutti, semi e radici di piante selvatiche.
“Le testimonianze lasciate dai nostri antenati che abitavano l’Europa 15.000-20.000 anni fa suggeriscono una elevata qualità di vita. Attraverso la caccia e la pesca e la raccolta di piante, frutta, radici, gli uomini si procuravano il necessario per il sostentamento di comunità di piccole dimensioni e vivevano bene: lo testimoniano strumenti perfezionati, oggetti ornamentali e opere d’arte che ci lasciano ammirati ancora oggi.” (16) … e dipinsero, fra l’altro, la grotta di Lascaux in Dordogna, Francia, quella grotta che è stata definita la Cappella Sistina della preistoria.
Ugo Plez nel suo saggio “La preistoria che vive” dice che il 99% della vita umana si è svolta nella preistoria per cui i nostri comportamenti e le nostre idee sono stati elaborati in quel periodo. “La Preistoria è la vera storia dell’uomo. Essa abbraccia un arco di tempo che oltrepassa di gran lunga il milione di anni, di fronte a cui i 5.000 anni della storia ufficiale sono una ben misera cosa.
………………………
Tutti i nostri istinti, i nostri atteggiamenti, i nostri problemi psicologici, sociali, culturali, le nostre razze, le nostre lingue, i nostri atteggiamenti sessuali, le nostre concezioni artistiche, estetiche, filosofiche e religiose si sono formate in questo periodo.”(17)
“Fin dalle elementari, quando noi siamo andati a scuola, ci hanno spiegato che la storia dell’umanità si suddivide in quattro età: età della pietra grezza (Paleolitico [ n.d.r.]), età della pietra levigata (Neolitico [n.d.r.]), età del bronzo, età del ferro. Una analoga suddivisione del tempo la si trova presso le leggende classiche e le leggende di tanti altri popoli; si inizia con l’età dell’oro, che è seguita da quella dell’argento, poi del bronzo, poi del ferro. Oro, argento, bronzo, ferro: questa è la sequenza delle innovazioni tecniche e coincide perfettamente con il ricordo che gli uomini creatori delle leggende hanno conservato. Non è certo un caso, questa coincidenza. Perché l’età che noi chiamiamo della pietra nelle antiche leggende corrisponde all’età dell’oro e dell’argento? Noi usiamo un termine tecnico, le leggende ne adoperano uno simbolico. All’età dell’oro gli antichi attribuivano un periodo senza guerra e senza dolore, l’uomo viveva secondo ciò che la natura offriva, in armonia con essa e mai contro di essa, non esistevano ricchi e poveri e l’uomo era una creatura tra le altre, e con esse divideva i frutti e le prede nei boschi. Questo periodo corrisponde a ciò che noi conosciamo del “Paleolitico”, ossia della prima età della pietra (la seconda è il Neolitico [n.d.r.]), di cui il nuovo Homo sapiens fu il protagonista. Per molto tempo i nostri antenati furono consumatori di cibo, ma non produttori di esso, conducevano una vita nomade in cui non esisteva nemmeno il concetto di proprietà del suolo, non avrebbero infatti potuti sopravvivere se non inseguendo di continuo le mandrie di animali di cui essi si nutrivano; per lo stesso motivo è assolutamente impossibile attribuire loro un’attività bellica al di là della rissa e forse del duello: infatti le prime armi di difesa appaiono più tardi. L’uomo non ne aveva bisogno. Un’età senza dolore. Infatti è dimostrato dalle tribù che oggi vivono nello stesso modo che, a parte una potente selezione alla nascita, le malattie frequenti e fastidiose o quelle gravi erano quasi sconosciute. L’uomo cacciatore si mantiene sano e vigoroso, finché l’età e i pericoli lo schiantano definitivamente.” (18)
E’ la cultura che in Europa, ma non solo, sarà chiamata Magdaleniana (dal sito La Madeleine in Dordogna, Francia) e il periodo in cui si sviluppò (dal 18.000 all’11.000 a.C. circa) è l’età che in molte leggende sarà ricordata come l’età dell’oro.
“La civiltà magdaleniana fu tramandata come il periodo dell’età dell’oro.
………………….
I magdaleniani potevano sopravvivere con pochissime ore di caccia. Le caverne di questo periodo sono ricchissime di disegni e lasciano intuire che doveva esistere una grande quantità di tempo libero. Inoltre alcuni disegni ritornano con la stessa forma e le stesse dimensioni in tante grotte diverse. Questo presuppone l’esistenza di “modelli” fissi che, probabilmente, alcuni artisti già specializzatisi portavano con se facendo il giro delle regioni. Con questi modelli decoravano le caverne di chi lo richiedeva, in cambio di qualche cosa. L’arte dei Magdaleniani raggiunse alti vertici, erano ormai state scoperte le regole della simmetria, della rappresentazione del movimento mediante il tratteggio, ecc. ecc. Si sono superate in audacia le immaginazioni dei più moderni pittori, come l’uso di sfruttare protuberanze naturali per disegnare in “rilievo”, a “tre dimensioni”, delle cose, degli animali e delle persone.
…………………
I Magdaleniani avevano vestiti assai simili ai nostri……Inoltre questi vestiti non erano affatto sbrindellati, ma cuciti benissimo con aghi di osso. “ (19)
Forse anche nella Bibbia è possibile intravedere il passaggio fra una età dell’oro e dell’argento (che corrisponde al paleolitico, cioè al periodo in cui l’uomo viveva di caccia, pesca e raccolta di frutti, semi e radici) ad una età del bronzo e del ferro (cioè al neolitico, che corrisponde al periodo in cui l’uomo inizia a domesticare le piante e gli animali e inizia a praticare l’agricoltura e l’allevamento).
– Dio dopo avere creato il cielo e la terra, la luce, il firmamento, le acque, le piante, i pesci e gli animali, ecc. alla fine del sesto giorno disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra” (Genesi capitolo 1-26). Poi Dio disse:” Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo.” (Genesi 1-29)
Ma l’uomo trasgredì l’ordine divino di non mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dio allora lo cacciò dal giardino dell’Eden e disse:” Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dall’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. (Genesi 3-17) Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre (Genesi 3-18) Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;…(Genesi 3-19) Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto (Genesi 3-23)-.
Riguardo all’ultima ipotesi sull’adozione dell’agricoltura fatta per migliorare le condizioni di vita dell’uomo bisogna dire che, se fosse valida l’interpretazione fatta di questi passi della Bibbia, l’agricoltura fu la condanna che Dio dette all’uomo per aver trasgredito al suo ordine di non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.
a44) La coltivazione delle piante e l’allevamento del bestiame come strumento per ottenere incremento demografico
Stante così le cose bisogna farsi con più vigore la domanda: cosa spinse le popolazioni di Homo sapiens sapiens ad abbandonare quella che le leggende classiche e di tante popolazioni primitive ricordano come età dell’oro? quell’età in cui gli uomini praticavano la caccia e la raccolta di piante selvatiche?
Ogni invenzione umana è volta al soddisfacimento pieno e per un tempo infinito dei suoi bisogni e, contemporaneamente, al superamento della vita quotidiana: ogni nuovo contesto che si crea viene piegato al raggiungimento di quegli obiettivi.
Stando così le cose bisogna chiedersi: quale contesto si creò alla fine del pleistocene e che portò alcune popolazioni umane a iniziare a domesticare e poi coltivare alcune piante e ad allevare alcuni animali?
Quelli che seguono si ritiene siano i principali elementi, fra cui ci sono stati continui rapporti di feed back, che compongono il nuovo contesto creatisi alla fine del paleolitico.
Primo elemento
Gli sconvolgimenti climatico-ambientali avvenuti alla fine del pleistocene, avevano dimostrato ai molti gruppi umani interessati da questi sconvolgimenti che la vita basata sulla caccia e sulla raccolta significava per l’uomo che la propria esistenza, come specie, fosse appesa ad un filo sottilissimo e quindi addirittura a rischio di estinzione.
Era urgente quindi dare più stabilità alla specie con la creazione di un rapporto più stabile con la natura e questo obiettivo si raggiunse con la domesticazione di piante ed animali e quindi con l’´invenzione´ dell’agricoltura e dall’allevamento che portarono a un forte incremento demografico. Nel modo di vita paleolitico gli uomini non erano padroni del loro destino perché il loro modo di vita era essenzialmente predatorio, e le prede (animali o frutti e semi spontanei, ecc.) dipendevano da condizioni esterne all’uomo. Col neolitico invece, con l’adozione della coltivazione delle piante e con l’allevamento, le popolazioni umane divennero produttrici delle loro condizioni.
Secondo elemento
Con le variazioni climatico – ambientali avvenute alla fine del Pleistocene aumentò notevolmente l’areale di diffusione di quei cereali selvatici, come il grano e l’orzo, che costituiranno, una volta domesticate, insieme alle leguminose e ad altre poche piante, la base dell’alimentazione delle popolazioni neolitiche.
Terzo elemento
Alla fine del pleistocene i gruppi umani avevano raggiunto uno sviluppo culturale che gli ha reso possibile passare a un altro modo di vita (questo elemento ovviamente è difficilmente individuabile e misurabile).
Quarto elemento
Lo sviluppo tecnologico (che è un aspetto dello sviluppo culturale di cui si parla nel punto precedente) raggiunto alla fine del paleolitico era tale che avrebbe consentito di approntare la strumentazione necessaria per coltivare le piante e allevare gli animali. Per esempio la tecnologia esistente nella cultura acheuleana (risalente al paleolitico inferiore cioè fra i 750 mila e i 120 mila anni fa) non avrebbe consentito la manifattura di falcetti su cui erano incastonare delle schegge affilate di selce e con cui mietere i primi cereali domesticati come l’einkorn e l’emmer, non avrebbe consentito la molitura dei loro semi e non avrebbe consentito di svolgere moltissime mansioni connesse alla economia produttiva.
Foto 4 Strumenti chirurgici dell’antico Egitto
Nel neolitico i gruppi umani non vivono più nelle caverne e, soprattutto, non sono più composti da un massimo di 40-50 individui. Per gruppi sparuti della consistenza massima di 40-50 individui il rischio di estinzione era all’ordine del giorno e ciò, con l’idea, con il desiderio del soddisfacimento pieno e per un tempo infinito dei suoi bisogni è in ovvia e aperta contraddizione.
“Una comunità di ridotte dimensioni ha minori probabilità di sopravvivere nel tempo: è più esposta a soccombere a crisi violente, ed è anche meno atta a perpetuarsi in un gioco combinatorio alterato da vincoli fisici e culturali (incompatibilità matrimoniali, endogamia, età matrimoniale, ecc.). Certamente una comunità più vasta è più in grado di riassorbire crisi minori (di esserne cioè decurtata ma non estinta) conservando una adeguata base di ripresa, ed offrendo ai suoi membri una più larga scelta e più frequenti compensazioni.“(20)
“Il primo effetto dell’agricoltura è stato quindi la possibilità di nutrire molte più persone nella stessa regione e di consentire un aumento della densità della popolazione. Le abitudini, i costumi, che determinano la natalità, sono sempre molto radicati. Prima dell’agricoltura questi costumi permettevano una crescita lentissima della popolazione. L’agricoltura ha reso possibile, e utile, un aumento della natalità. Una volta che essa è salita diventa difficile arrestarla.
I cacciatori-raccoglitori di allora presumibilmente si comportavano come quelli di oggi, che hanno in media cinque figli, uno ogni quattro anni circa. Con un intervallo di quattro anni fra le nascite possono sempre viaggiare portando con sé, in braccio o sulle spalle, l’ultimo nato, mentre i precedenti sono già in grado di camminare, se non a un passo veloce, almeno a un’andatura ragionevole. Distanziando le gravidanze è possibile proseguire l’allattamento finché il bambino ha tre anni di età, e questo a sua volta diminuisce la possibilità di una nuova gravidanza. Con una media di cinque figli per donna, in pratica la popolazione si mantiene all’incirca costante, perché di questi cinque figli più della metà muore prima di arrivare all’età adulta, in genere nei primi anni di vita. Ogni coppia di marito e moglie tende così ad avere solo due figli che raggiungono l’età adulta e si riproducono a loro volta; la popolazione rimane stazionaria, cioè non aumenta, o tutt’al più aumenta molto lentamente.
Il contadino non ha più motivo di limitare il numero dei figli come il cacciatore-raccoglitore. E’ diventato sedentario, non ha il problema di spostarsi con figli troppo piccoli né quello di averne troppi e di non riuscire a nutrirli tutti, anzi ha bisogno di averne molti per potere coltivare la terra.” (21)
L’uomo “A parità di condizioni, cerca di massimizzare la quantità di calorie o di sostanze nutritive rivolgendosi ad alimenti che danno il massimo risultato con la massima certezza, nel minimo tempo e con il minimo sforzo. Cerca anche di assicurarsi contro i rischi della morte per fame: una quantità modesta ma sicura e costante di cibo è preferibile a quantità in media maggiori ma assai fluttuanti. L’orticello del nostro proto-contadino di 11.000 ani fa poteva servire proprio a questo: era una assicurazione contro i tempi di magra, una dispensa utile nel caso la caccia fosse stata scarsa.” (22) (con questa citazione Jared Diamond si riscatta per le considerazioni fatte nel saggio del 1987 che è stato richiamato)
Col neolitico e con la coltivazione delle piante e dell’allevamento degli animali, i gruppi umani abitano in capanne circolari seminterrate e raggiungono la consistenza di 250-500 individui per villaggio. Con la dilatazione spaziale del gruppo umano si ha anche la sua dilatazione temporale, nel senso che sono superati i rischi di estinzione del gruppo umano stesso.
La scelta dell’agricoltura e dell’allevamento (all’interno di un contesto che la rese possibile) avvenne quindi non per rispondere ad un preesistente incremento demografico ma per creare un incremento demografico, condizione essenziale per evitare il rischio di estinzione di piccoli comunità umane.
Con l’agricoltura e l’allevamento le popolazioni umane si sono messi alle spalle il rischio di estinzione. Il rischio di estinzione per piccole comunità di cacciatori-raccoglitori era all’ordine del giorno. Intorno a 15.000-10.000 anni fa “L’insediamento è ancora in caverne, per piccole comunità di 40-50 individui al massimo, caratterizzati da mobilità al seguito degli animali che forniscono il principale contributo alla dieta. La sopravvivenza è ancora un problema di portata quotidiana: non si hanno tecniche né per la produzione di cibo né per la sua conservazione” (23)
Nei millenni successivi le cose cambiano notevolmente. Nel Medio Oriente antico, in quella zona che successivamente sarà chiamata Mezzaluna fertile. “…il periodo 7500-6000 può ormai dirsi pienamente neolitico: comunità di villaggio (di 250-500 persone) sedentarie, con abitati in case di fango o mattoni crudi, di pianta quadrangolare, e con un’economia basata sulla coltivazione di graminacee e leguminose e sull’allevamento di caprovini e suini (alla fine del periodo anche bovini).” (24)
3) Il VI millennio BP (Before Present): la creazione di un nuovo contesto
Ma si potrebbe dire che in seguito l’umanità non si è fermata perché l’incremento demografico è continuato incessantemente.
Il problema è che l’obiettivo che persegue l’umanità è il soddisfacimento pieno e per un tempo infinito dei suoi bisogni e contestualmente il superamento della vita quotidiana, e ogni nuovo contesto che si crea viene piegato a questo obiettivo, qualunque sia il prezzo da pagare.
Foto 5 Il saccheggio e la distruzione della città di Susa da parte degli Assiri
Nel VI millennio BP (Before Present) arrivarono a maturazione nella Bassa Mesopotamia diversi fenomeni, fra di essi in stretto rapporti di feed back, come un forte incremento demografico, l’urbanizzazione, la specializzazione del lavoro, lo sviluppo tecnologico, l’agricoltura irrigua basata sulla coltivazione di cereali, legumi e ortaggi, l’allevamento caprovino, la creazione di un surplus alimentare che andava a coloro (artigiani, mercanti, sacerdoti, scribi, ecc.) non addetti direttamente alla produzione agro-pastorale, ecc.
A questa struttura fu dialetticamente collegata la creazione di un nuovo sistema di valori basati sull’individuo (inteso come centro di interessi prima solamente diversi ma poi anche in contrapposizione [visto la scarsità, storicamente determinata, di risorse] a quella degli altri individui), sulla gerarchia (intesa come orizzonte, il contesto, in cui si situano gli individui, indicandone le diverse posizioni e i connessi diversi oneri e diritti nella distribuzione di beni e servizi), sulle derive sociali (con la formazione di corporazioni in conseguenza dei rapporti particolari che si formavano fra gruppi sociali e le attività lavorative che svolgevano), e, infine, sulle derive culturali (intese come quel fenomeno per cui ogni popolazione umana, a contatto con un ambiente ecologico particolare, acquisisce un pacchetto culturale particolare e, in presenza di condizioni di penuria di risorse materiali, in contrapposizione a quello di altri gruppi umani).
Un altro valore culturale iniziava a prendere piede e attraversava tutti gli altri valori culturali: la massa critica. Le origini di questo valore si perdono nella notte dei tempi (ma l’incremento demografico avutosi col neolitico è da vedersi alla luce di questo valore!) ma solamente in questo periodo subisce una accelerazione e inizia a investire anche i rapporti fra le varie popolazioni-culture. Questo valore si concretizzava nella esigenza di sempre maggiore grandezza della popolazione e sempre maggiori territori conquistati. La popolazione doveva essere sempre più numerosa perché solamente in questo modo era possibile fare costruzioni sempre più grandi (canali di irrigazione, magazzini, templi, mura di fortificazione delle città, ecc.), coltivare sempre più terreni, conquistare sempre maggiore territori con eserciti più numerosi di quelli delle popolazioni nemiche, con sempre più artigiani addetti nella forgiatura dei metalli, nella produzione di vasellame, tessuti, utensili, armi, ecc. (con conseguente sviluppo tecnologico), sempre più mercanti addetti a fare affluire materie prime e altro verso il centro del mondo (che allora era la Bassa Mesopotamia). I vari re che si succedevano nei territori della Bassa Mesopotamia, al culmine del loro sviluppo, si fregiavano del titolo di re dei quattro mari, nel senso che nello sviluppo territoriale del loro impero avevano raggiunto i quattro mari (Golfo Persico, Mar Rosso, Mar Mediterraneo e Mar Nero). Le continue guerre portavano a volte a un decremento demografico: a ciò si ovviava con la deportazione delle popolazioni vinte. Se si vede bene le somiglianze sono fortissime con quanto avvenuto nei periodo successivi (per esempio con l’impero romano) e col colonialismo occidentale negli ultimi cinquecento anni.
Le conseguenze di millenni di storia (con i caratteri visti) hanno portato al mondo attuale.
1) Aurelio Peccei Cento pagine per l’avvenire” pag. 59 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Milano 1981
2) si veda il mio “Gli anni settanta del XX secolo Una nuova età assiale” al seguente indirizzo http://www.decrescita.com/news/gli-anni-settanta-xx-secolo/)
3) Il riferimento è soprattutto a quelle zone della Terra che una volta si chiamava Terzo
Mondo. Ovviamente le pessime condizioni di vita in cui versano le popolazioni in questione hanno una causa: è il mondo sviluppato, che le ha depredate delle ricchezze dei loro territori, ha inferte profonde ferite nelle loro cultura e le ha private di speranze.
4) Il saggio è reperibile sul WEB in più siti però la prima volta l’ho reperito sul sito http://www.appelloalpopolo.it, dove tra l’altro c’è anche il collegamento al sito http://www.mnforsustain.org/food_ag_worst_mistake_diamond_j.htm dove c’è il documento originale
5) AA.VV. La Storia, 1 Dalla preistoria all’antico Egitto, Mondatori 2006, pagg. 99-100;
6) idem pagg. 101-104;
7) Luca e Francesco Cavalli Sforza, Chi siamo – La storia della diversità umana, Oscar Saggi Mondatori, 1995, pagg. 207 e 209;
8) Il peggiore errore nella storia della razza umana – saggio del 1987 di Jared Diamond (in questo caso l’espressione riportata è di Mark Cohen della State University di New York)
9) idem
10) Luca e Francesco Cavalli Sforza, Chi siamo – La storia della diversità umana, Oscar Saggi Mondatori, 1995, pagg. 206 e 207;
11) S.L. Washburn e Irven DeVore, Il comportamento sociale dei babuini e dell’uomo preistorico, in Sherwood L. Washburn, Vita sociale dell’uomo preistorico, 1971, Rizzoli Editore, Milano; i dati sono presi dalla tabella di pag. 169;
12) Mario Liverani Antico oriente – Storia società economia, 1988-2006, Editori Laterza, pagg. 69-70;
13) Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie – Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, 1998 e 2000 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, pag. 77;
14) Il peggiore errore nella storia della razza umana – saggio del 1987 di Jared Diamond
15) Mario Liverani Antico oriente – Storia società economia, 1988-2006, Editori Laterza, pag. 16;
16) Luca e Francesco Cavalli Sforza, Chi siamo – La storia della diversità umana, Oscar Saggi Mondatori, 1995, pag. 189;
17) Ugo Plez, La preistoria che vive, 1992 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, pag. 5;
18) idem pagg. 270 e 271;
19) idem pagg. 274 e 275;
20) Mario Liverani Antico oriente – Storia società economia, 1988-2006, Editori Laterza, pag. 40;
21) Luca e Francesco Cavalli Sforza, Chi siamo – La storia della diversità umana, Oscar Saggi Mondatori, 1995, pagg. 199 e 200;
22) Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie – Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, 1998 e 2000 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, pag. 80;
23) Mario Liverani Antico oriente – Storia società economia, 1988-2006, Editori Laterza, pag. 64;
24) Idem pag. 66 e 69;
Fonte foto: le foto sono tutte tratte da Wikipedia
Caro Armando, ho letto con vivo interesse il tuo lungo e documentato articolo. Ho un paio di perplessità che vorrei illustrarti.
La prima riguarda il rischio di estinzione come leva della storia umana. Credo che all’uomo come a qualsiasi altro animale della sopravvivenza della propria specie non interessi molto. L’individuo fa ciò che gli garantisce la sua personale sopravvivenza il che incidentalmente porta poi alla sopravvivenza della specie (vedi Richard Dawkins). Non penso che il passaggio all’agricoltura sia stato un passaggio studiato e intenzionale, ma un passsaggio graduale i cui esiti erano del imprevisti.
In secondo luogo la visione antropocentrica tipica della storiografia trascura di considerare l’impatto ambientale dell’avvento dell’agricoltura. Il neolitico segna il più grande punto di rottura degli equilibri naturali della storia umana, l’inizio della drammatica perdita di biodiversità e un primo rilevante impoverimento della dieta umana. Trascurando il fenomeno delle enclosures, che pure ha un posto importante nella storia dell’agricoltura e della societò umana, il secondo grande punto di rottura costituito dalla rivoluzione verde ha in realtà solo accellerato in modo esponenziale il processo di squilibrio tra una razza divenuta ormai predatoria nei confronti dell’intero pianeta e il pianeta stesso.
Concordo con te che non ha molto senso parlare di bene e di male nella storia, ma dal punto di vista ambientale l’avvento dell’agricoltura apre una serie di conseguenze che possiamo ben definire catastrofiche.
Che quel processo abbia poi portato parallelamente lo sviluppo di conoscenze enormi è un dato di fatto, che però non tiene conto degli sviluppi che comunque si sarebbero potuti avere anche nelle societò di raccoglitori-cacciatori.
L’importante è che oggi queste conoscenze ci aiutino a reindirizzare la storia dell’uomo verso una nuova fase come giustamente tu ben sottolinei.
Ciao Gerhard
Ti ringrazio per il commento.
Vorrei risponderti in merito a un aspetto del tuo commento (relazione fra individuo e specie) riproponendo un tema che posi alcuni anni fa su un blog di antropologia.
Il tema riguardava il dono e aggiungeva (secondo me, ovviamente!) qualcosa di fondamentale al significato che al dono è stato dato finora in ambito dell’antropologia culturale.
Il testo era questo:
“È possibile dire qualcosa di nuovo sul dono?
Come si legge nella vasta letteratura in questione, il dono è caratterizzato da tre fasi: dare, ricevere e ricambiare. Il dono viene visto come la base dei rapporti sociali fra gli uomini: il dono serve a creare relazioni. I rapporti fra gli uomini non sono solo utilitaristici ma hanno anche altri scopi.
Jacques T. Godbout in Lo spirito del dono dà del dono stesso la seguente definizione :” Definiamo dono ogni prestazione di beni e servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”.
Il dono viene contrapposto allo scambio mercantile e viene detto che ciò che muove l’uomo non è sempre una motivazione utilitaristica.
Mi permetto di aggiungere due cose nuove all’analisi che da più parti è stata fatta del dono.
1) La prima cosa è che certi doni possono prevedere costitutivamente la mancanza della restituzione.
Questo è il caso del dono nei rapporti coniugali e in quelli fra genitori e figli. Se in questi due casi il dono non prevedesse costitutivamente la mancanza della restituzione questi rapporti (cioè fra coniugi e fra genitori e figli) non potrebbero sorgere.
Una coppia di genitori effettua un dono con questa caratteristica quando accudisce un figlio affetto da sindrome di Down; in questo caso non è corretto dire che non c’è garanzia di restituzione del dono: si è sicuri che non ci sarà restituzione perché il bambino down non potrà mai ricambiare.
Se un coniuge assiste l’altro durante una malattia quando poi il coniuge assistito guarirà potrà a sua volta ricambiare assistendo l’altro coniuge: ma l’assistenza avviene anche quando si sicuri che il coniuge assistito (per la malattia che lo ha colpito o per altri motivi) non potrà mai ricambiare.
2) La seconda cosa è che il dono, come lo scambio commerciale, ha sempre una funzione utilitaristica, cioè è volto al massimo soddisfacimento e per il maggior tempo possibile dei bisogni umani.
Esistono indubbiamente delle differenze formali fra dono e scambio commerciale ma per quanto riguarda la sostanza è che lo scambio commerciale ha una funzione utilitaristica per un individuo (o gruppi di individui legati da rapporti di affari) mentre il dono ha una funzione utilitaristica per realtà che vanno al di là dell’individuo che possono essere la famiglia, la comunità, la nazione, ecc. oppure tutto il genere umano.”
Questo tema del dono che proposi in quel blog di antropologia devo dire che non suscitò molto interesse.
Ciao e a risentirci
Armando
Sai Armando, resto sempre molto sorpreso da come arriviamo a conclusioni simili (se non proprio identiche) pur partendo da presupposti a volte completamente diversi. Ma va bene così: vuol dire che le nostre elucubrazioni astratte stanno sbattendo addosso a qualcosa di concreto, pur partendo da direzioni differenti.
Ho letto molto tempo fa qualcosa sull’importanza dei doni nella società polinesiane e penso che la ritualizzazione del dono possa realmente avere una funzione sociale importante, purchè sfugga alla logica consumistica dell’acquisto e dello spreco (doni inutilizzati e non ri-scambiati). Tu però parli mi pare di un concetto più alto di dono, che seppure abbia dei punti di contatto con la logica mercantilistica, mi sembra senza dubbio preferibile. Potrebbe essere interessante capire come muovere da un alogica all’altra, ma qui mi fermo perchè non sono preparato.
Ciao
Gerhard
Credo che, in via preliminare, sia bene soffermarsi un attimo sul significato della parola “decrescita”.
la particella “de” che precede “crescita”, seguendo anche l’etimo latino, fa pensare ad una azione contraria alla crescita: praticamente il suo opposto.
Ora si tratta di stabilire se crescita e decrescita siano, ciascuna a suo modo, frutto di “disegni”.
Vale a dire chiedersi se, in diversa misura e con diversi attori secondo le varie epoche, vi sia stato un “disegno” che ha portato allo sviluppo economico e, in conseguenza di ciò, ad uno sviluppo demografico.
Nel neolitico, con l’inizio dell’agricoltura, sono nate le comunità stanziali che si sono differenziate da quelle nomadi proprio per avere intessuto “legami” con la terra , tramite l’avvio delle coltivazioni e, parimenti, l’allevamento di bestiame.
La crescita demografica è stata conseguenziale perchè, mentre per i nomadi gli infanti rappresentavano un impiccio ai loro spostamenti, per gli agricoltori erano forza-lavoro potenziale.
Faccio fatica a individuare nelle azioni del neolitico un “regista” che dipanasse una mappa dello sviluppo.
Ritengo, piuttosto, che la conversione verso l’agricoltura sia stata generata da eventi casuali, da esperienze episodiche che poi, considerato il loro successo, hanno avuto seguito e consolidamento.
Comunque siano andate le cose è abbastanza giustificata “l’esplosione” demografica come aspetto conseguenziale della stanzialità.
Va altresì rilevato, per quanto il Neolitico sia un “leverage” nella storia umana che, a tutto il secolo XVI la popolazione umana si è mantenuta entro limiti di crescita annua pari allo 0,2%.
Solo alla fine dei seicento e, dopo la Rivoluzione Economica Inglese, assistiamo ad una impennata demografica, passando dallo 0,2 allo 0,5%, per arrivare al record (1950) dello 0,8%
L’aumento della popolazione già nel XIX secolo destò molta preoccupazione.
capofila dei preoccupati fu Malthus, il quale teorizzò che, mentre la popolazione cresce in modo quadratico le risorse alimentari crescono solo in modo geometrico.
In effetti, dal 1700 in poi, la curva di crescita della popolazione è spiegata da un polinomio di secondo grado; mentre, precedentemente, ha avuto un andamento ben spiegato da una retta.
In estrema sintesi possiamo dire che, nonostante la terribile peste nera del ‘300, quella successiva ( di cui parla Manzoni) del 1630, oltre ad altre pandemie ( tifoidi, colera) hanno inciso poco e nulla sulla crescita demografica; così come sono state abbastanza ininfluenti le due grandi guerre mondiali.
Tornando al “disegno” della crescita, credo si possa concludere, mutuando il pensiero di Adamo Smith, che sia stato l’egoismo, associato all’accumulo del capitale finanziario e il suo ingresso a sostegno dello sviluppo industriale a fare lievitare l’economia, piu’ che un disegno concepito da qualche “regia”.
Il torto di Malthus stava nel fatto che, benchè la crescita economica non può essere quadratica come l’andamento demografico, è altrettanto vero che l’ingegno umano ha potuto ( in realtà per brevi periodi) sopperire all’accresciuto fabbisogno alimentare.
Gli investimenti in agricoltura, le trasformazioni da coltivazioni estensive in intensive, l’introduzione delle marcite e dei canali irrigui, il superamento dell’allodio e dell’enfiteusi hanno portato ad uno sviluppo impetuoso, almeno nei paesi del nord Europa, della produzione agricola e, parimenti, lasciato regioni geografiche come la penisola italiana nel retaggio feudale.
Se pensassimo che la crescita abbia corrisposto a un “disegno”, parimenti dovremmo pensare che anche la decrescita possa essere frutto di un “disegno” che qualche agente esterno possa azionare a suo piacimento sostituendo un “modello” con il suo opposto.
In realtà vi è stata molta anarchia nei processi della crescita. Anarchia che ha portato a crisi acute, come le guerre, le pestilenze, la sottonutrizione, gli esodi di massa di cui si ha il punto piu’ alto attorno alla metà del XIX secolo.
Personalmente, parafrasando Gramsci, mi piacerebbe ci fosse un “moderno Principe” in grado di impiantare un modello economico basato sulla decrescita o, per meglio dire, sulla crescita di valori e la decrescita dei consumi sotituendola con la produzione di beni e servizi utili allo sviluppo della personalità umana, singola e collettivamente intesa.
Invece, anche ai tempi nostri, siamo qui a parlare di “spontaneità” di iniziative che devono essere coltivate “dal basso” utilizzando gli spazi che si aprono nei territori, tra le contraddizioni di uno sviluppo allo sbando.
Del resto nemmeno la crescita, come ho già sottolineato, ha mai avuto un suo “Principe”.
Nel mondo contemporaneo, finiti gli imperialismi e le politiche di dominio, c’è una pluralità di soggetti che non “remano” nella stessa direzione, pure dichiarandosi unanimi sull’esigenza di “tornare a crescere”.
Al posto dell’egoismo, di cui parla Smith, ci sono gli egoismi al plurale e le politiche degli interessi particolari o di gruppo.
Questo impedisce che vi sia un “disegno” unitario per la crescita.
Quello che è avvenuto, dal tardo settecento in poi, è tutto uno “stop and go” tutt’altro che lineare.
Non si può parlare di “caos” se non altro perchè la Borghesia ha avuto l’ossessione dell’ordine, della razionalità, della precisione.
Tuttavia il contrasto degli interessi ha impedito, da sempre, politiche comuni: basti vedere quanta fatica faccia ad affermarsi l’Idea dell’Unione Europea, divorata dalle frammentazioni.
Ho letto l’articolo ed i commenti.
Cerco di leggere con la mente più aperta che posso, per capire.
Senza voler affermare il mio punto di vista, solo confrontarlo.
.- Quando leggo, mi trovo di fronte a delle “notizie”, che sono dei fatti, e anche a delle “non notizie”, che sono dei fatti non riportati nell’articolo.
Potrei anche trovare “notizie non vere”.
.- Poi, mi trovo di fronte all’interpretazione di chi scrive, e alle sue conclusioni.
Questo articolo mi tocca in quanto parla della crescita della popolazione che secondo me necessita di una decrescita, e delle possibili cause del fenomeno.
Sono contento che alcuni Homo Sapiens si pongano il problema e dedichino del tempo a riflettervi.
A risentirci.
In risposta a Gianni Tiziano
Ti ringrazio per avere letto questo lavoro.
Devo però subito dire che siamo perfettamente d’accordo sulla necessità della decrescita: questa necessità viene messa ben in evidenza già nelle prime righe dell’articolo (per poi essere ribadita più volte in seguito).
L’articolo infatti inizia in questo modo: “Questo lavoro vuole dimostrare preliminarmente che la crescita e la decrescita sono fasi diverse della storia e tutte e due dotate di validità: il punto è che c’è un momento per la crescita e un momento per la decrescita (per la precisione c’è un contesto che richiede la crescita e un contesto che richiede la decrescita). L’obiettivo della crescita che c’è stata finora è identico all’obiettivo della decrescita che segnerà la storia futura…”
L’esigenza che la storia futura sia improntata alla decrescita, come dicevo, viene ribadita più volte all’interno dell’articolo anche se il tema principale è quello dell’esplosione demografica che avvenne nel neolitico e delle motivazioni per cui ciò avvenne.
Questo lavoro vuole essere però anche una critica a quella che potrebbe essere considerata una visione moralistica della storia per cui le cose o sono sempre buone oppure sono sempre cattive, indipendentemente dal periodo storico.
Da poco tempo sono venuto a conoscenza del “collo di bottiglia di Toba”. Toba è un lago che si trova a Sumatra. Sotto questo lago c’è un vulcano che sembra sia eruttato circa 73.000 anni fa e abbia ridotto la popolazione di sapiens sapiens addirittura del 99% (queste notizie ovviamente sono molto frammentarie e fragili ma penso che sia chiaro il senso del discorso: a tale riguardo invio il seguente link https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_della_catastrofe_di_Toba ). Se già il rischio di estinzione era un problema quotidiano per le radi popolazione di sapiens sapiens figuriamoci dopo l’esplosione di questo vulcano!
Ma l’uomo non poteva estinguersi perché nella sua testa, qualunque fosse stata la causa, s’erano formate idee come “Vita eterna”, “Straordinario”, “Paradiso” , ecc. e l’uomo era sempre più “agito” da queste idee e, quindi, tutto doveva essere fatto in vista di questo. In passato questo obiettivo è stato raggiunto con la crescita mentre in futuro, dopo quell’età assiale rappresentato dagli anni settanta del XX secolo (ti invito a tale riguardo alla lettura del mio http://www.decrescita.com/news/gli-anni-settanta-xx-secolo/ ) questo obiettivo sarà raggiunto tramite la decrescita.
Spero che in futuro si continui a confrontarci costruttivamente come abbiamo fatto in questa occasione.
Cordiali saluti
Armando