Così parlò Pasolini…. [parte 4]

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Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?

No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i “figli di papà”, i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari – umiliati – cancellano nella loro carta d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di “studente”. Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello “televisivo” – che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale – diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.

(Pierpaolo Pasolini, “Corriere della Sera”, 9 dicembre 1973)

 

Questo ultimo passo dell’articolo di Pasolini con cui ormai ho intasato il DFSN, mi pare una buona fotografia del processo di grande trasformazione che chi, come me, è nato negli anni ’90 ha avuto modo di vedere solo in minima parte. Oggetto polemico di Pasolini, in particolare, è la perdita del “particolarismo” che caratterizza i vari gruppi sociali, in direzione di un modello umano unico e spersonalizzato. Questo è un processo anomalo, nel senso che non comporta semplicemente l’ascesa di una classe sociale o il degrado di un’altra bensì un livellamento culturale e sociale, un appiattimento delle differenze su un piano medio. Conseguenza finale è la devastante e desolante perdita della diversità, quella diversità che genera tanti problemi ma che in fondo è l’unica possibilità per instaurare un dialogo e muovere le corde della Storia. Nei precedenti articoli già tanto ho insistito sul carattere “monologico” della nostra cultura: sistema di informazione, consumismo, mercato, svuotamento valoriale. Vorrei soffermarmi ora su un aspetto, che è stato proprio quello che mi ha portato a contatto con questo articolo: la lingua.

La polemica di Pasolini si colloca in un dibattito, particolarmente vivo negli anni ’70, riguardo all’obiettivo di radicare una lingua italiana vera e propria (reso possibile concretamente dalla televisione) e il rischio conseguente della perdita delle lingue storiche: i dialetti. Parlare di lingua non è solo una faccenda da linguisti o filologi, essa è il nostro pane quotidiano e tantissimo ha a che vedere con la nostra stessa mentalità. Ci aveva visto lungo Orwell in 1984 descrivendo la “neo-lingua”, una lingua artificiale che sostituisse la vecchia visione del mondo e impedisse ogni forma di pensiero divergente da quello imposto.

La lingua è uno strumento di controllo, è un prodotto che subisce profonde variazioni a seconda dello strato sociale in cui viene parlata, ed è per questo che don Milani riconosceva nell’educazione linguistica la conditio sine qua non dell’uguaglianza tra le persone. “Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli.” Non solo ma, aggiunge anche: “E non basta solo l’italiano, che nel mondo non conta nulla. Gli uomini hanno bisogno di amarsi anche al di là delle frontiere. Dunque bisogna studiare tante lingue e tutte vive.” [1] Affascinante, no? La lingua è uno strumento “di amore”, perché è lo strumento che sta alla base del dialogo, quindi del cambiamento; perché è il canale che ci mette in comunicazione con gli altri in modo funzionante ed efficace. Altrimenti si crea una situazione simile a quella che si crea tra il povero manzoniano Renzo Tramaglino e il coltissimo dottor Azzecca-garbugli (un nome, un programma!) che, pur parlando a lungo, non capiscono nulla di quanto si dicono: “Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l’occhio, cerando di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover essere il suo aiuto.”[2]

E se le “sacrosante parole” rispetto alle quali l’ “illetterato” Renzo erano quelle di un italiano dotto, fitto di latinismi e termini aulici, quale sono le “sacrosante parole” alle quali ci inchiniamo noi oggi?             

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Giuseppe Antonelli, professore associato di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Cassino, osserva come alla terminologia filosofica e giuridica (la lingua “alta”!) si sia sostituita una nuova terminologia: la terminologia finanziaria, “che dà un’idea di oggettività e di efficienza manageriale.” [3] Siamo passati dal latino all’inglese dell’economia e della finanza, “il nuovo gergo dei politici”. Si sta verificando, dice Antonelli, “una decisa identificazione tra lingua del potere e lingua settoriale dell’economia, che finisce col relegare ai margini del dibattito pubblico i saperi umanistici e la tradizionale figura dell’intellettuale.” Questa lingua, tecnica e non padroneggiabile se non dagli addetti ai lavori è – al pari dell’italiano aulico del dottor Azzecca-garbugli, una lingua morta, artificiale e manipolabile. Una lingua “sacrosanta” perché non confutabile, che gode del prestigio della scienza esatta e che rende impossibile ogni forma di dialogo e di comprensione piena e critica delle vere dinamiche della società.

 

E in tutto questo…la decrescita?

Per come la vedo…In tutto questo la decrescita è la voce alternativa che può rompere il muro del silenzio, è la voce che ci può riportare con i piedi per terra mentre siamo persi nelle allucinazioni del consumismo e della finanza. È la voce diversa con cui far ripartire un dialogo. È una voce che nasce (anche) dalla nostra cultura, che ne guarda il riflesso e che cerca di trasformarla.

È una voce, quindi, ben carica di mandati…

Ma quale spazio troverà per farsi sentire?

 

[1] Don Milani, Lettera ad una professoressa.

[2] A. Manzoni, I promessi sposi. Cap. III

[3] Andrea Afribo, Emanuele Zinato (a cura di), Modernità italiana, Carocci, 2011.

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Sono nata e vivo a Carpi (Mo). Sono laureata in Italianistica e sono insegnante di lettere presso la scuola secondaria di primo grado. Oltre ai libri, alla poesia, alla musica e alla montagna, amo molto i temi della pace e del dialogo interreligioso e interculturale.

2 Commenti

  1. Il pezzo di Pasolini è, come “tutto” Pasolini, scritto non oggi, ma “domani”. Di un’attualità e profondità ante-retrospettive impressionanti. Bellissima la “sacrosanta parola” decrescita. Riappropriazione.
    Un saggio di cultura per capire l’asocialità social di oggi.

  2. Un semplice grazie per questo articolo (in tutte le sue parti) che dà moltissimi spunti interessanti.
    Ho seguito anche il tuo consiglio di leggere l’enciclica (anche se un po’ a salti) e l’ho trovata davvero apprezzabile, sia per quanto riguarda i temi a noi cari sia in generale per il modo di porsi.
    Ciao
    Gerhard

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