Brexit: God save the Capital

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Quando una nazione centrale del sistema-mondo come il Regno Unito è soggetta a un grave sconvolgimento politico, economico o sociale, esso è imputabile a vicende squisitamente interne solo nel caso in cui sia stato provocato da una calamità naturale a carattere locale o da accidenti simili, altrimenti deve trattarsi di un fenomeno che pervade in misura minore o maggiore l’intero sistema, dal centro fino alla periferia. Come tutti ben sanno, terremoti, tsunami e uragani non hanno nulla a che vedere con la Brexit, quindi qualsiasi sua interpretazione va inserita in un contesto più vasto.

Nel libro La grande transizione, Mauro Bonaiuti ritiene che la perdurante stagnazione dell’economia possa causare una repentina e significativa perdita di complessità del sistema politico-economico-sociale, con entità nazionali e sovranazionali travolte da forze centrifughe, le cui manifestazioni politiche più evidenti sono i vari rigurgiti indipendentisti e nazionalisti che stanno lacerando l’Europa. Alcuni analisti delle maggiori banche finanziarie internazionali, dopo il trionfo del Leave parlano apertamente di fine o quantomeno rallentamento del processo di globalizzazione, ed è suggestivo accostare tali dichiarazioni alle recenti analisi sull’andamento petrolifero mondiale, che sembrano certificare l’avvenuto raggiungimento del picco di produzione di tutti i combustibili liquidi.

In molti hanno salutato con grande favore l’esito referendario, essendo una “scelta degli operai e dei lavoratori inglesi che hanno democraticamente votato a favore del Brexit” (frase tratta dal profilo Facebook di Diego Fusaro). Tuttavia, in un’epoca di ritorni decrescenti anche per la democrazia rappresentativa, ai minimi storici per partecipazione e credibilità, è ragionevole credere che quegli stessi poteri forti costantemente accusati di manipolare l’opinione pubblica e di burattinare i governi abbiano permesso con tanta leggerezza lo svolgimento di un referendum per nulla obbligatorio e potenzialmente capace di infliggere una pericolosa falla nel loro schema di potere? Senza parlare poi della previdibilissima eventualità che Scozia e Ulster votassero a grande maggioranza per la permanenza nella UE, con gravissimo rischio di innescare un effetto domino di rivendicazioni secessioniste in grado di disintegrare il Regno Unito? Non è ingenuo confidare nell’ingenuità delle super lobby o, peggio ancora, nell’idealismo del premier David Cameron, patrocinatore del referendum?

Forse per ricostruire correttamente il puzzle andrebbero accantonate alcuni descrizioni semplicistiche, in particolare quella secondo cui il Capitale è sostanzialmente un monolite composto da una super-classe uniforme per visioni ideologiche e strategie di azione. In realtà, il capitalismo ha innumerevoli difetti ma è un fenomeno flessibile e camaleontico come forse nessun altro nella storia umana, la cui unica ideologia è il profitto, per il resto può sposare qualsiasi causa ritenuta congeniale alla sua mission. Le imminenti elezioni presidenziali statunitensi sembrano delineare la presenza di almeno due grandi correnti in seno al mondo degli affari: da una parte la Clinton e il tentativo di perpetuare, in particolare attraverso il TTIP e il TPP (trattato di libero scambio per il Pacifico), il processo di globalizzazione economica, dall’altra Trump portatore di una visione neo-isolazionista, oramai disillusa riguardo alle velleità di americanizzazione del mondo e che punta invece a mantenere inalterato il privilegio dell’american way of life, sempre più insostenibile in un mondo dove le risorse iniziano a scarseggiare e le bocche da sfamare aumentano ininterrottamente.

In quest’ottica, è interessante leggere le riflessioni di Thierry Meyssan in un articolo post Brexit. Raramente condivido in toto le opinioni di Meyssan, che spesso riflettono quel filone di pensiero che provocatoriamente chiamo ‘rossobrunismo’ – di cui il già citato Fusaro, solo per fare un nome, mi sembra un buon esponente – e neanche ora le prendo per oro colato, tuttavia offrono spunti degni di nota:

A differenza delle spacconate di Nigel Farage, l’UKIP non è all’origine del referendum che ha appena vinto. Questa decisione è stata imposta a David Cameron da membri del partito conservatore.

Per loro, la politica di Londra deve essere un adattamento pragmatico al mondo che cambia. Questa “nazione di bottegai”, come la definiva Napoleone, osserva che gli Stati Uniti non sono più né la più grande economia del mondo, né la prima potenza militare. Non hanno dunque più motivo di essere i loro partner privilegiati.

Proprio come Margaret Thatcher non ha esitato a distruggere l’industria britannica per trasformare il suo paese in un centro finanziario globale, allo stesso modo questi conservatori non hanno esitato ad aprire la via all’indipendenza della Scozia e dell’Irlanda del Nord, e quindi alla perdita del petrolio del Mare del Nord, per fare della City il primo centro finanziario off shore dello yuan.

La campagna per il Brexit è stata ampiamente sostenuta dalla Gentry e da Buckingham Palace che hanno mobilitato la stampa popolare per fare appello a ritornare all’indipendenza.

Contrariamente a quanto spiega la stampa europea, la separazione dei britannici dalla UE non si farà affatto lentamente, perché l’Unione europea crollerà più velocemente rispetto al tempo necessario alle trattative burocratiche per la loro uscita. Gli stati del Comecon non hanno avuto da negoziare la loro uscita perché il Comecon ha smesso di funzionare una volta iniziato il movimento centrifugo. Gli Stati membri della UE che si aggrappano ai rami e continuano a salvare quel che resta dell’Unione non riusciranno ad adattarsi alla nuova situazione con il rischio di sperimentare le convulsioni dolorose dei primi anni della nuova Russia: caduta vertiginosa del livello di vita e della speranza di vita.

Per le centinaia di migliaia di dipendenti pubblici, funzionari eletti e collaboratori europei che perderanno inevitabilmente il loro posto di lavoro e per le élites nazionali che sono parimenti dipendenti da questo sistema, vi è un urgente bisogno di riformare le istituzioni per salvarle. Tutti credono a torto che il Brexit apra una breccia in cui gli euroscettici andranno a introdursi. Ora, il Brexit è solo una risposta al declino degli Stati Uniti…

La domanda è se chi ha concepito questo terremoto avrà la saggezza di far arrivare dei benefici al proprio popolo: il Brexit è un ritorno alla sovranità nazionale, non garantisce la sovranità popolare.

Malgrado i tanti aspetti discutibili, la ricostruzione di Meyssan è molto sensata. Ci parla della reazione di un settore del business inglese, minoritario ma influente, che giudica irreversibile la crisi di quel  sistema-mondo che negli ultimi cinque secoli ha avuto come centro propulsore nell’ordine l’Olanda delle Province Unite, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e che ora, dopo l’inizio del declino americano e il brusco rallentamento dei paesi emergenti, si trova sprovvisto di un leader davvero capace di sostenere il peso della globalizzazione economica planetaria. Invece di legarsi mani e piedi a progetti a lungo termine e nebulosi come la UE, meglio tornare alla sovranità nazionale lasciandosi le mani libere per strategie flessibili  e di breve respiro, interagendo con i partner che di volta in volta sembrano più affidabili per intessere alleanze politiche ed economiche (oggi la Cina, domani chissà). La corrente del partito conservatore guidata dall’ultrà pro-Brexit Boris Johnson sembra proprio aver sposato tale linea di azione.

Insomma, se la globalizzazione rappresenta l’ambizione espansionistica del capitale, la Brexit e l’isolazionismo incarnano i timori  di un ripiegamento difensivo che abbandona la fede nell’utopistica ‘fine della storia’ di Frances Fukuyama, preparandosi anzi a tempi difficili in cui bisognerà sostenere dure battaglie di posizione.  Se il capitale si ricolora di tinte tardo ottocentesche, non deve sorprendere il revival di identitarismo, xenofobia e nazionalismo, fenomeni funzionali a questo schema proprio come l’ideologia liberale dei diritti umani sarebbe congeniale alla globalizzazione.

Su questo punto si levano molte voci preoccupate anche da parte di persone non accusabili di agire da cassa di risonanza del mainstream. Ad esempio Leni Remedios, cittadina italiana residente in Regno Unito, su Megachip smonta con grande vigore tutte le idealizzazioni associate al voto per il Leave, malgrado l’opinione opposta della maggioranza dei frequentori del sito (sottolineature nel testo originale):

Mi permetto di dire che è stato fatto da più parti un grave errore di valutazione politica.

Si dice che questo voto sia espressione di una chiara volontà popolare che ha capito come questa Unione Europea sia un disastro. In poche parole lo si interpreta come un voto anti-establishment. Come se quelli che hanno votato Brexit avessero votato coscientemente contro il TTIP, contro le politiche americane, la NATO etc.

Vi dico che state prendendo un grosso granchio. Niente di tutto questo. L’elettorato brexiteer che ha scelto Leave coscientemente, in questa direzione, è solo una parte davvero minima.

Guardate i dati sui votanti, in termini di età e di provenienza sociale. La stragrande maggioranza del popolo britannico che ha votato Brexit esprime la working class più povera e meno istruita –  in gran parte vecchi –  che è stata manipolata anche in maniera davvero molto grossolana dai vari Farage e Johnson, i quali sono la versione britannica dei nostri Bossi e Salvini e ripetono i soliti meccanismi di ricerca del capro espiatorio che abbiamo sempre visto nella storia nei momenti di crisi economica, né più né meno. Dopo il voto hanno praticamente ammesso candidamente di aver mentito al popolo britannico sull’immigrazione e sull’ammontare di soldi che, dopo il divorzio con l’UE, arriverebbe all’NHS, il servizio sanitario nazionale. Un servizio piegato, a sentir loro, dai soldi che vanno all’Unione Europea invece che alle strutture sanitarie ed alle lunghe liste d’attesa dovute proprio alla presenza dei migranti (sorvolando sul fatto che i migranti sono massicciamente presenti nel sistema sanitario anche dall’altra parte, in veste di infermieri, medici, specialisti, etc) .

Hanno detto questo dopo che, ripeto, la maggioranza dei Brexiteers ha votato così proprio per frenare gli immigrati, non per frenare la NATO. Sullo spauracchio immigrazione è stata focalizzata tutta la campagna elettorale. Si è parlato davvero pochissimo di austerity, di politiche economiche, di TTIP, etc. La gente non ha votato Brexit per contrastare queste.

Ora, molti di quelli che hanno votato Brexit sulle basi sopra descritte si sono già pentiti e se potessero rivotare voterebbero Remain, come si evince dalle numerose interviste ad elettori pentiti disperati, dalle varie petizioni per un secondo referendum etc. Ma è troppo tardi…

Ora, chiarito questo, sappiate che non è che tutto si fermi lì. La montante xenofobia ed il razzismo becero che è emerso avranno un peso enorme nella vita futura del paese e dell’Europa tutta.

Il danno è fatto. La tensione sociale che si respira qui, almeno come la percepiamo noi, ha tutta l’aria di un conflitto insanabile, di una lacerazione che sarà veramente dura da guarire. Sta lacerando famiglie, comunità intere. Sono tutti sotto shock, arrabbiati, delusi e confusi sul proprio futuro.

Ma non si ferma al locale, la maglia si allarga: questo non sta facendo altro che rendere le destre xenofobe, sia britanniche che europee, sempre più sicure di sé, come d’altronde avete già avuto modo di apprendere a riguardo di paesi come la Francia o nell’Europa dell’Est. Sarà difficile risollevarsi da questa europa xenofoba e lacerata. Ci vorrà un tremendo sforzo.  

Paul Mason ci aveva messo in guardia su questo. Aveva ragione. Ribadisco: non cadete nella trappola, questo voto non è affatto espressione di un popolo illuminato.

Sicuramente è stato uno schiaffo a Obama e soci. Ciò è un bene.

Ma a quale prezzo.

Personalmente, mi sento sollevato di non essere stato un cittadino britannico coinvolto nel referendum, evitando così di finire dilaniato da prolungate crisi di coscienza nel vano  tentativo di scegliere tra padella e brace. L’attuale UE dei banchieri e le sue nauseabonde politiche neoliberali sono ovviamente indifendibili, e bisogna riconoscere al Leave di aver agito da classico sasso nello stagno: i tecnocrati europei avrebbero salutato la vittoria del Remain al canto ‘va tutto bene Madama la marchesa’, senza scalfire minimamente lo status quo. Tralasciando poi le lagnanze sull’abuso di democrazia (Monti) e sull’inaffidabilità del popolo (Saviano), trasudanti di uno spaventoso elitarismo.

Per contro, conosco la storia e mi è noto quale è stato l’esito finale delle passate politiche economiche protezioniste. Inoltre, si commette un gravissimo errore definendo ‘anti-sistemiche’ formazioni quali l’UKIP, il Front National, la Lega Nord e altri partiti dell’estrema destra; esse non sono contrarie  al ‘sistema’ (cioé al capitalismo, detto brutalmente), semplicemente ne contestano le veilleità universalistiche e cosmopolite che assume (almeno a parole) nella variante a globalizzazione matura, imputando le cause della stagnazione economica alla finanziarizzazione, ai movimenti migratori e all’eccessiva burocratizzazione, scambiando in gran parte le conseguenze per le cause; ciliegina sulla torta, le proposte energetiche dell’UKIP favorevoli allo shale gas, al carbone, al nucleare e all’abolizione degli incentivi alle rinnovabili, incentrate sull’idea che il global warming sia solamente una gigantesca bufala catastrofista.

Che fare, quindi? Bisogna assolutamente sfruttare l’incresparsi delle acque della palude che, nel bene e nel male, la Brexit sta provocando. Il nostro Manifesto per un’Europa decrescente è sempre al suo posto, pronto a fungere da serbatoio di idee nonché a ibridarsi con contributi di ogni genere. Alla ricerca di un vero piano B, quello che sembra drammaticamente mancare sia ai sostenitori a oltranza della UE sia agli euroscettici.

Fonte immagine in evidenza: rielaborazione personale della copertina dell’EP ‘God save the Queen’ dei Sex Pistols.

 

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