Uno dei leit-motiv ricorrenti contro la decrescita è l’incapacità presunta delle persone di rinunciare ai beni superflui e al consumismo in genere. Se da una parte non si può non condividere il fatto che, oggettivamente, non esistono condizioni tali da parlare di ‘crisi’ nel senso di una situazione di pericolo per la sussistenza della società (lo ha ben illustrato Paolo Ermani e io stesso ho parlato del carattere prettamente ideologico della crisi), è anche vero che bisogna interrogarsi sul carattere realmente ‘voluttuario’ e ‘superfluo’ di certi comportamenti e abitudini, prima di bollare la maggioranza dell’umanità come ignava e parassitaria. Siccome questo ammonimento deriva da una riflessione di Jacques Ellul, uno dei padri spirituali della decrescita, conviene prenderla seriamente in considerazione.
Scrive il pensatore francese ne Il sistema tecnico:
“L’ipotesi comunemente ammessa è che ci troviamo in presenza di una società tradizionale dotata di una straordinaria potenza di produzione e di un uomo sempre uguale, solo consumatore privilegiato. Se così fosse, si potrebbe dire all’uomo di ridurre i propri consumi e alla società di produrre solo il necessario per tutti. Sfortunatamente si tratta di un’ipotesi errata. Il massiccio sviluppo della tecnica causa un certo numero di trasformazioni nell’individuo (in particolare per quanto riguarda la creazione di bisogni tutt’altro che falsi o artificiali) e nella società, incapace di conservare le stesse strutture. Consideriamo due fatti: l’uomo può vivere e lavorare in una società tecnica solo se riceve un dato numero di soddisfazioni complementari che gli permettano di superare gli inconvenienti. I divertimenti, le distrazioni, la loro organizzazione, non sono un superfluo facilmente eliminabile a vantaggio di qualcosa di più utile, non rappresentano un reale innalzamento del livello di vita: sono strettamente necessari per compensare la mancanza di interesse del lavoro, la tendenza a sottrarsi all’influenza della cultura tradizionale provocata dalla specializzazione, la tensione nervosa dovuta all’eccessiva velocità di tutte le operazioni, l’accelerazione del progresso che richiede difficili adattamenti: tutto ciò che lo sviluppo tecnico provoca può essere tollerato solo se l’uomo trova compensazioni a un altro livello. Allo stesso modo il cambiamento nell’alimentazione, l’aumento di consumo di azotati e glucosio non è un sovraccarico dovuto alla gola, ma una risposta compensatoria al dispendio nervoso causato dalla vita tecnicizzata.
Non si può chiedere a un uomo immerso nelle attività tecniche e nell’ambiente urbano di nutrirsi in modo uniforme e di essere per lo più vegetariano: non può farlo fisiologicamente. I gadget sono indispensabili per tollerare una società sempre più impersonale, i rimedi sono necessari agli adattamenti, ecc. L’orientamento del potere produttivo verso prodotti considerati di lusso o superflui deriva più da necessità fortemente avvertite dall’uomo che vive nell’ambiente tecnicizzato che da un desiderio capitalista di profitto o da un insieme di bisogni anormali. Se questi bisogni non fossero soddisfatti, l’uomo non potrebbe vivere. Si ha l’impressione che, aumentando la produzione e la tecnicizzazione, i bisogni si accrescano in numero e qualità. La potenza produttiva è quindi sempre più indirizzata alla soddisfazione di questi bisogni. Se non riuscisse nell’intento, significherebbe solo che è bloccata da una sorta di impossibilità umana ad adattarsi a questo genere di vita: in ogni caso, la potenza produttiva non potrebbe essere applicata a qualcosa di più utile. Credo ci sarebbe addirittura il rischio di regressione… Non si è liberi di decidere in favore di una data produzione utile, e più la produzione aumenta, più si cresce nei propri aspetti secondari, ma i bisogni ai quali risponde sono futili solo in apparenza. In realtà essi sono incoercibili giacché creati dall’ambiente artificiale nel quale l’uomo è obbligato a vivere”.
Si può obiettare che molti abitanti delle aree più sviluppate del mondo riescono a scongiurare l’esigenza di questi bisogni ‘superflui e necessari’ in modo anche molto radicale. Tuttavia – e qui devo per certi versi riabilitare le critiche di qualche detrattore del movimento – nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a persone che, per privilegio sociale, culturale o familiare, dispongono degli strumenti necessari per contrastare questa tendenza.
Parlo per me stesso: ho faticato spesso nella vita, ma non ho mai dovuto sottopormi a un lavoro alienante che segnasse profondamente la mia esistenza. In quel caso non posso dire quali sarebbero state le conseguenze della stanchezza fisica e mentale, della completa disarmonia con l’ambiente circostanze, del senso di frustrazione e impotenza.
Azioni insensate come l’appartenenza fanatica a una squadra di calcio, l’uso compulsivo di cellulari e internet, l’adesione incondizionata alla moda e la sacralità del consumo si rivelano chiaramente surrogati di bisogni essenziali negati.
Ne consegue che non possiamo chiedere alle persone di fare rinunce di alcun genere senza cambiare profondamente il carattere alienante ed eteronomo della società; e chi attualmente si trova nelle posizioni di vertice di tale società, difendendola e perpetuandola, non ha il diritto di imporre il minimo sacrificio.
Il problema fondamentalmente non è ecologico (lo diventa conseguentemente), ma esistenziale, sociale e politico. Richiede di lottare contro l’ingiustizia che, contrariamente alle aspettative del pensiero di sinistra tradizionale, non si limita alla concessione di eque condizioni di lavoro o al conferimento di qualche diritto civile: necessita invece di una politica di limiti dello sviluppo (come la chiamava Illich) per vivere appieno la propria umanità, con ritmi e dimensioni su scala umana. E’ una questione di sopravvivenza della specie, stretta parente della problematica prettamente ecologica.
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