Apocalittici e integrati

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newearthRiprendo il titolo da un famoso saggio di Umberto Eco del 1964, dove il semiologo piemontese si interrogava sul ruolo dei mass media nella formazione delle coscienze e dell’opinione pubblica. Lo faccio chiedendomi a mia volta quali categorie sociali potrebbero essere più aperte e recettive verso le prospettive della decrescita, rendendomi conto che, detta in questi termini, sembra di rispolverare le vecchie questioni marxiste sulla ‘classe rivoluzionaria’. Ricordo ancora una manifestazione no global dove un comunista vecchio stampo chiese a un anarchico quale classe sociale secondo lui dovesse promuovere la rivoluzione, e l’anarchico strabuzzando gli occhi rispose semplicemente: “chiunque ci sta!”. E si potrebbe dire lo stesso per la decrescita, che essa è aperta a “chiunque ci sta”, con la differenza che i limiti naturali ci imporranno comunque di scegliere tra scelte libertarie basate sull’autolimitazione e varie forme di fascismo ‘ecologico’. Tuttavia, senza scadere nel determinismo e nel comportamentismo, si può provare a riflettere su quali possibili alleati immediati potrebbe contare la decrescita e dove invece si possono incontrare maggiori resistenze.

La risposta in realtà è abbastanza intuitiva: l’opposizione più tenace arriverà da chi pensa di trarre giovamento dal funzionamento del sistema, pur con tutte le sue storture. Di primo acchito vengono in mente finanzieri, capitani d’industria, scienziati impegnati nella manipolazione genetica o nello sfruttamento intensivo delle risorse naturali, tutte figure che in qualche modo attirano l’antipatia generale; purtroppo la realtà è molto più complessa e scomoda.

Prendiamo ad esempio la classe lavoratrice, il soggetto rivoluzionario per eccellenza del Novecento nella mente dei marxisti, fatta eccezione per alcuni pensatori più acuti e realisti consapevoli che dall’Ottocento molto era cambiato nella società industriale. Già nel 1964, pubblicando L’uomo a una sola dimensione, Marcuse aveva liquidato radicalmente l’idea del proletariato e della classe lavoratrice come soggetti rivoluzionari, in quanto troppo integrati nel sistema per poterlo realmente cambiare. La storia successiva sembra avergli dato ragione, basti pensare ai recenti casi dell’ILVA e della TAV Torino-Lione, dove gran parte degli operai hanno hanno sostenuto il diritto a inquinare e causare scempi ambientali per la difesa del posto di lavoro, oppure hanno ceduto ai diktat aziendali in stile Marchionne, quando non li hanno apertamente sostenuti. Il collante principale che sembra tenere uniti imprenditori, rentier e lavoratori stipendiati che conservano (per ora) le vecchie garanzie dell’epoca fordista è la fede nella crescita economica, che si esplica anche nella richiesta continua di ‘governabilità’ e nell’auspicio a mantenere basso il conflitto sociale

André Gorz nel libro Capitalismo, socialismo, ecologia ha approfondito la questione arrivando alla conclusione che oggi l’avversione al capitalismo non viene vissuta principalmente sul luogo di lavoro, bensì laddove il cittadino si sente espropriato dal suo ambiente e dal controllo sulla propria esistenza, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza. In questi ultimi anni abbiamo assistito a dure battaglie per la difesa del territorio e contro le ‘grandi opere’ ad alto impatto ambientale (sempre più spesso anche contro quelle ‘edonistiche’ come i grandi centri commerciali), contro il ritorno all’energia nucleare, contro la discriminazione razziale e sessuale, contro la medicalizzazione dell’esistenza umana, contro la mercificazione dell’acqua e la bramosia di trasformare la natura in una branca di sfruttamento del mercato, sotto forma di manipolazione genetica o di vivisezione e sfruttamento animale. Ne consegue quindi che “il conflitto principale non oppone più capitale e lavoro, ma i grandi apparati scientifici, tecnici, burocratici (che in ricordo di Max Weber e di Lewis Mumford ho chiamato la mega-macchina burocratica-industriale) alle popolazioni in conflitto con la tecnicizzazione dell’ambiente, la professionalizzazione e l’industrializzazione delle decisioni e degli atti della vita quotidiana, gli esperti patentati che vi tolgono la possibilità di determinare da soli i vostri bisogni, desideri, o il modo di gestire la salute e, più in generale, la vostra vita” (Gorz).

Queste riflessioni sono molto importanti perché ci fanno capire che, senza attendere incerte dialettiche storiche e futuribili soggetti rivoluzionari, le basi per una società diversa sono già ampiamente presenti in quella attuale. Ci indicano anche che, se c’è una qualche classe ‘rivoluzionaria’, la sua esistenza trascende le differenze economiche e sembra piuttosto legata al grado di integrazione dell’individuo nel sistema: potrebbe comprendere i reietti di cui parla Marcuse sfruttati, immigrati, disoccupati – ma anche persone che, per privilegio sociale, hanno la possibilità di dedicare almeno parte della loro vita a estraniarsi dai processi della mega-macchina, ritagliandosi delle nicchie in contesti alternativi, legati alla cultura, all’arte, all’animalismo e alla difesa dell’ambiente (1).Tutti questi, per riprendere le parole di Eco, sono ‘apocalittici’ o ‘integrati’ solo parzialmente e in modo critico.

Consideriamo i recenti eventi più o meno ‘rivoluzionari’ che hanno coinvolto vasti segmenti della popolazione, come i movimenti indigeni culminati nelle riforme costituzionali in Bolivia ed Equador per il riconoscimento dei diritti della Terra (2006-07), le insurrezioni in Tunisia ed Egitto (2011) e l’attuale rivolta turca (2). Fino a qualche anno fa avrei ascritto l’impatto rivoluzionario genericamente alla povertà, cosa che oggi mi pare del tutto assurda, anche perché si sono verificate alleanze tra fasce sociali molto eterogenee, basti pensare all’Egitto e alla Tunisia dove il nucleo dei militanti era composto da giovani disoccupati con una laurea o un livello culturale medio-alto, a cui però si sono presto associati gruppi di scarsa considerazione sociale, come tifoserie organizzate di squadre di calcio (abituate per altro agli scontri con la polizia). Penso invece che sia il caso di analizzare altri fattori, ad esempio il fatto che sono state coinvolte nazioni con buon livello di alfabetizzazione, un forte radicamento culturale e dove l’influsso dell’ideologia del pensiero unico sul tessuto sociale – in particolare sotto forma di investimenti pubblicitari – è ancora relativamente basso, rendendole quindi meno esposte all’effetto-Matrix creato dai mezzi di comunicazione di massa e dalla loro informazione faziosa.

Per chi come noi vive nei paesi industrialmente più avanzati ed egemonizzati dai mass-media si tratta quindi di saper fare buon viso a cattivo gioco, rivoltando gli strumenti del sistema contro se stesso (ad esempio uno dei miei slogan preferiti del periodo no global era “Don’t hate the media, be a media!”) ma sapendosi anche staccare al momento opportuno in modo critico e consapevole. Se ci troviamo coinvolti a vario titolo nel movimento della decrescita è perché probabilmente ci stiamo già comportando così: sta a noi avvicinare quelle persone che, magari da direzioni diverse, osservano il nostro stesso orizzonte.

 

(1) A costo dell’impopolarità, da docente precario della scuola difendo ad esempio la tanto contestata settimana lavorativa a 18 ore e non la cambierei neanche per un sostanzioso aumento di stipendio. Non mi vergogno di ammettere che il mio aggiornamento professionale, anziché attraverso corsi di dubbia validità, avviene principalmente leggendo libri stravaccato sul divano di casa o d’estate al mare sotto l’ombrellone, tra un bagno e l’altro. Se questa possibilità, attraverso una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, fosse garantita anche alle altre categorie di lavoratori, queste non solo vivrebbero meglio con se stesse e con gli altri ma potrebbero scoprire alternative importanti alla routine nevrastenica del sistema.

(2) Nell’ottica della decrescita quest’ultimo evento, iniziato come manifestazione a difesa dell’ultima area verde di Instabul, è forse il più significativo, ed è fortemente deformato dai media occidentali (per un’analisi obiettiva rimando a questo ottimo articolo pubblicato sul sito Web de L’intellettuale dissidente). Si ricordi che la Turchia viene considerata dal mondo economico un modello positivo e da imitare, visto che nel periodo 2005-10 ha conseguito (dati The Economist) una crescita media del 3,2% annua, due volte e mezzo quella della Germania.

5 Commenti

  1. Egregio Sig. Giussani ho letto con molto interesse il suo articolo, Le vorrei proporre una riflessione sulle ‘categorie sociali’.
    L’affermazione di un sistema economico, come ad esempio avvenne per quello capitalistico, avviene attraverso una mobilità sociale collettiva cioè un processo di riorganizzazione della struttura sociale e la ‘classe sociale’ si misura con il livello di prestigio che le persone appartenenti hanno nei confronti degli altri.
    Quando il capitalismo e il consumismo si affermarono come sistema economico, il prestigio della classe sociale si definì in base al grado di accesso alle risorse economiche e ai beni di consumo nonché alla loro produzione.
    In un contesto di ‘decrescita’ la mobilità verrebbe invertita con una rinuncia consapevole delle classi sociali più abbienti, ad accedere ai beni di consumo consueti e costringerebbe i produttori di tali beni in conseguenza alla mobilità della classe consumista, a invertire e cambiare i processi di produzione fino ad una riduzione essenziale di beni strumentali che mettano in condizione tutti di auto prodursi quello che fino ad oggi verrebbe acquistato sugli scaffali dei supermercati etc etc. Potrebbe essere una soluzione quindi rivolgersi a chi consuma per costringere anche chi produce a cambiare rotta.
    Tra chi consuma però esistono delle differenze culturali ad oggi notevoli, l’auto formazione e’ una propensione di pochi e la scuola e’ ricca di forme anche discutibili e povera di contenuti validi.
    Sarebbe opportuno quindi , alla luce del mio ragionamento, iniziare un certo tipo di cultura scolastica e di insegnamento dalle elementari ma chi insegnerebbe? Allora si potrebbe cominciare a formare gli insegnanti e contestualmente promuovere l’auto formazione attraverso i social e ogni altro strumento di comunicazione di massa.
    La cultura è la chiave, lo strumento, la via e anche la meta.

    • Cara Ivana, innanzitutto grazie per l'”Egregio Sig. Giussani” ma direi che basta semplicemente Igor 🙂 Cercando di rispondere alle tue riflessioni, devo dire che alla tua analisi basata sulla rinuncia aggiungerei un piccolo corollario ‘positivo’: la limitazione sempre più stretta delle risorse, se accompagnata da una strenua difesa del possesso materiale oltre ogni considerazione etica e di utilità, degenerebbe gradualmente in una legge della giungla che escluderebbe ulteriormente enormi fasce di umanità, quindi una concentrazione di potere tale da richiedere probabilmente l’attuazione di uno stato totalitario. A quel punto si potrà contastare di persona se può essere bello e felice essere ricchi nel nazismo…
      Quanto alla scuola, realtà di cui faccio parte, posso dirti che qualcosa si muove ma a titolo molto personale, e non può che essere così. I programmi ministeriali statali, inevitabilmente direi, si occupano di ecologia ma tendono in una direzione abbastanza esposta, quando non appoggiano direttamente iniziative propagandistiche del business. Ricordo un concorso al liceo artistico dove tenne una conferenza un manager dell’ENI, che dileggiò apertamente tutti i critici delle ‘grandi opere’.

  2. La “classe rivoluzionaria” risiede in quegli individui, in genere giovani perché dotati ancora di una buona vitalità e non ancora anestetizzati da tutte le distrazioni e le preoccupazioni della vita, che hanno con intelligenza fatto lo sforzo cognitivo necessario a capire le logiche del sistema e data la loro sensibilità non possono accettarle. Insomma direi che il protagonista del capolavoro di Bresson “Il diavolo probabilmente” interpreta bene questo personaggio.

    L’opposizione più difficile la fanno proprio i più deboli, quei lavoratori che non avendoci il pane sono disposti a mettere a rischio la propria salute e l’ambiente in cui vivranno i loro figli pur di sopravvivere, di mandare avanti le cose.

    Non penso che si possa giungere ad un rovesciamento di tutti i valori senza che vi sia un forte scossone, che avvenga un qualche evento di una certa gravità. E’ più probabile che l’umanità continui nella sua razionale follia, arrivando perfino a negare o a sorvolare sull’evidenza – come nel caso del riscaldamento globale.

    • Sempre difficile ovviamente fare previsioni sul futuro. Sulla catastrofe però mi chiedo: cosa servirebbe? Un mega-uragano (come Katrina)? Un disastro atomico (come Fukushima)? Supertornadi (come quelli di qualche settimana fa)?
      Non ho molta fiducia nelle soluzioni d’emergenza. In fondo le grandi utopie si sono sviluppate in momento di consolidamento di periodi di benessere: il socialismo durante la seconda rivoluzione industriale e prima della grande depressione, l’ecologismo all’apice del boom post-bellico. Siccome non credo in particolare leggi storiche ciò non mi deprime più di tanto, ma non si può negare che sia un fatto.
      Forse il problema fondamentale è che tendiamo a presentare molto esempi di pratiche della decrescita ma raramente di società della decrescita. Perché se lavoro otto ore sottopagato e con un contratto da schiavo in un call center, me ne torno solo soletto nel mio monolocale e per di più devo fabbricarmi lo yogurt e il detersivo da solo, allora è veramente uno schifo assoluto. Diverso sarebbe invece tentare di far sperimentare nuove forme di associazione lavorativa, nuove forme di vita sociale e di condivisione della conoscenza. Su questo sto cercando di scrivere il mio secondo libro, sperando che l’estate sia profiqua!

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