Come difendersi dall’alienazione? Letteralmente, la parola indica l’atto di estraniare da sé, per cui, a rigor di logica, la soluzione al problema consisterebbe nel ‘rimanere se stessi’. È però evidente che, nell’epoca di maggior alienazione che la storia umana ricordi, ‘io sono me stesso’ è diventato lo slogan per eccellenza di milioni di menti omologate suggestionate dalla società dello spettacolo.
Proviamo anche nella seconda parte di questo articolo (cliccare qui per la prima) a seguire le riflessioni di Hannah Arendt. L’antidoto proposto dalla pensatrice tedesca è implicito nella sue analisi delle società: bisogna liberarsi dai meccanismi sociali che, in nome del buon funzionamento del ‘processo vitale’ (cioé la sfera produttiva), tendono al bieco conformismo e all’accettazione acritica dell’esistente. Ma, per prendere le distanze da una società sempre più pervasiva, bisogna conquistare un certo grado di autonomia da essa: al riguardo parlerò di autonomia di giudizio e autonomia esistenziale.
L’autonomia di giudizio allarga il nostro orizzonte culturale al di là dei rigidi steccati della pseudocultura massificata, che tende inevitabilmente – non solo in politica – al pensiero unico. Herbert Marcuse riteneva che la conoscenza della storia fosse un elemento di libertà per il solo fatto di confrontare attualità e passato, scoprendo che l’umanità non consiste in un eterno presente, ma in epoche dove sono prevalsi valori, abitudini e stili di vita talvolta molto diversi dagli attuali. Il Romanticismo, il primo movimento di rivolta al conformismo della nascente società industriale, oppose l’umanesimo letterario alla meschinità della società borghese. Si possono fare innumerevoli esempi, dove anche la religione o la mitologia popolare hanno assunto la stessa funzione, a patto di mantenere una sufficiente coscienza critica per non cadere in un’alienazione di segno opposto.
Più veniamo a contatto con risorse culturali estranee alla massificazione, più siamo capaci di sfuggire al suo appiattimento intellettuale, una constatazione di per sé abbastanza banale. Tuttavia, i tentacoli della società di massa tendono a invadere i confini della cultura ‘alta’, cercando di omologarla e stravolgendola, o comunque depotenziandola. La scuola pubblica – e da docente mi duole ammetterlo – troppo spesso si è asservita a questa funzione: e come certi cristiani partecipano alle ritualità senza essere influenzati dai valori religiosi, allo stesso modo la cultura massificata difficilmente redime le coscienze. Quasi sempre la possibilità di ampliare le proprie visioni deriva dal privilegio sociale.
L’autonomia esistenziale ha invece un carattere molto pratico, basato sulla capacità dell’individuo di sopravvivere indipendentemente dai servizi offerti dalla società di massa. Henry David Thoreau è stato un grandissimo intellettuale, ma se ha potuto prendere posizioni coraggiose contro il governo, disobbedendo ad alcune imposizioni, fu perché, messo alle strette, si trasferì in una capanna sul lago Walden, dove riuscì a sopravvivere (proseguendo allo stesso tempo le sue battaglie politiche e intellettuali) grazie alle proprie conoscenze pratiche. Sempre meno persone al mondo – e pochissime in Occidente – sarebbero in grado di fare altrettanto, ed è molto difficile ribellarsi a un sistema dal quale si dipende per la propria esistenza; è più probabile una rancorosa convivenza. L’uomo artigiano (nonché tecnico) e l’uomo contadino, alienati delle proprie abilità, tendono a trasformarsi in homines oeconomici per adattamento al sistema. (1).
Possedendo la cultura e le abilità manuali di Thoreau, sarebbe molto più facile dire di no e inventarsi nuovi modi di intendere la vita e il mondo, disconnettendosi dal sistema dominante. Sospetto che l’enfasi attribuita dall’ideologia imperante alla ‘libertà’ si debba al fatto che essa, privata dell’autonomia, è in gran parte un dono greco. Forse Thoreau, persona sicuramente fuori dal comune, è una pietra di paragone troppo ingombrante, ma un’associazione di persone che condividesse le rispettive competenze, agendo collettivamente così come Thoreau faceva da sol uomo, avrebbe sicuramente un maggior controllo sul proprio destino. Anzi, uscendo dall’individualismo compierebbe un’azione profondamente politica.
Certamente né la cultura né le conoscenze pratiche, da sole, mettono al riparo dall’alienazione più grave compiuta dalla società moderna, quella dell’individuo dalla comunità. I processi di atomizzazione sociale hanno agito su due livelli: da una parte esasperando l’individualismo solipsista, dall’altro inglobando il singolo all’interno di enormi raggruppamenti e riducendolo a un mero numero. Tutto ciò ha svilito l’essenza dell’essere umano quale animale sociale, facendolo spaziare tra i due estremi, ‘tu sei tutto’ e ‘tu sei niente’, impedendo un punto di incontro che permettesse alle legittime rivendicazioni dell’individuo di confrontarsi con le ragionevoli aspettative della comunità. Il risultato più prevedibile è una hybris insensata del singolo (fatta di comportamenti asociali e violenti del tutto fini a se stessi) contrapposta a una repressione più o meno violenta per il conformismo.
La dimensione dello spazio pubblico ideale è oggetto di forti discussioni. Lewis Mumford sosteneva che la civiltà industriale avesse slegato le persone dalle loro comunità naturali per inserirle in astrazioni massificanti come nazione, classe, razza, non ‘entità organiche o autentici gruppi sociali, ma arbitrari raggruppamenti di individui tenuti insieme da un simbolo di fedeltà e di odio, non da una genuina solidarietà’ (Lewis Mumford, Tecnica e cultura).
Creare cittadini autonomi (intellettualmente e praticamente) e creare comunità consapevoli sono quindi due obiettivi imprescindibili per una società della decrescita: plasmare solo individui autonomi porta a nuove forme di alienazione (motivo per cui diffido profondamente della decrescita a livello unicamente individuale), mentre il comunitarismo senza autonomia conduce all’uniformazione e al provincialismo (produrre a km zero è una buona idea, pensare a km zero no). L’esperienza dei Comuni virtuosi e dei movimenti contro le grandi opere sembra testimoniare che, se inseriti in contesti più naturali e meno alienanti, grandi masse di cittadini possono riscoprire inaspettate virtù civiche. L’esempio dei referendum del giugno 2011, contro il ritorno al nucleare e la privatizzazione dell’acqua, sono un chiaro esempio. All’apogeo del berlusconismo e malgrado l’ostilità delle principali forze politiche e dei numerosi tentativi di boicottaggio, i referendum raggiunsero il quorum del 50+1%, a quasi vent’anni dall’ultimo quesito riuscito nell’intento. (1)
Al contrario, se chiamati a fare da ingranaggio a organismi alienanti, non sorprende che le risposte siano alienate: le recentissime elezioni amministrative, dove nella ‘civica’ Emilia Romagna solo il 37% degli aventi diritto si è recato alle urne, parlano chiaro. La democrazia rappresentativa, proprio perché basata su di un atto di alienazione (la cessione di sovranità), degenera facilmente se non sottoposta a un forte controllo sociale. Organismi burocratici e verticistici come partiti politici e sindacati, superata la dimensione ‘naturale’ (sezione locale, consiglio di fabbrica) tendono inevitabilmente all’oppressione.
Tutto ciò mi porta all’ultima considerazione, in risposta a un commento di Daniele Uboldi al mio precedente articolo Luci e ombre dell’ecologia profonda, sul problema dei soggetti da cui può aver origine un cambiamento nel senso della decrescita. Riporto i pezzi utili al dibattito:
“Il popolo esiste solo per i populisti. Il popolo, in realtà, non esiste o, nel migliore dei casi, è solo un aggregato di milioni di unità statistiche pluridirezionate: foglie al vento d’autunno.
Ciò che crea “mode”, leverage è sempre la “causa efficace” ( so di ripetermi ma non vedo altra spiegazione che questa); la quale, di volta in volta, costruisce aggregazioni attorno a un pensiero, un’idea o, molto piu’ spesso, a un prodotto da consumare ( basti pensare alle code interminabili per accaparrarsi l’ultimo giocattolo tecnologico che viene messo in commercio)… Il percorso virtuoso da seguire non è tanto l’autoperfezionamento individuale, quanto il perfezionamento collettivo e questo non può che derivare dall’esempio di una classe dirigente, in grado di costruire una idea-forza per cui valga la pena di battersi… Non c’è un solo caso nella storia, e penso che Igor me lo possa insegnare, in cui motu proprio, il popolo sia andato oltre il ribellismo, forme di brigantaggio o “moti del pane” di manzoniana memoria… Milito in un GAS e nel DES di Parma.
Dunque ho a che fare con una realtà molto sensibile, come affiora dalla bella indagine statistica condotta da Francesca Forno dell’Università di Bergamo.
Non di meno, anche tra questa classe modale esistono difficoltà enormi a salire dal “primo gradino” degli acquisti comuni a filiera corta e chilometro zero a quello del “consumo critico” che sappia mettere in discussione il consumismo come ragione di sopravvivenza del modello capitalistico”.
In realtà, da insegnante, posso dire che la realtà storica è molto diversa da quella descritta da Daniele (chiaramente influenzata… dalla scuola!), e che i grandi cambiamenti spesso sono partiti da gruppi del tutto ignari di qualsiasi missione storica, proprio come i GAS e i DES attualmente. Siccome la faccenda si fa delicata, lascio la parola a chi è più accreditato di me a parlare, nel caso specifico James Scott, docente di Scienze politiche e Antropologia presso l’Università di Yale:
“La Storia, al pari dell’immaginazione popolare, cancella la propria contingenza e attribuisce implicitamente agli attori storici un’intenzionalità e una consapevolezza che probabilmente non avevano. L’effettivo occorere della Rivoluzione francese ha comprensibilmente riscritto la storia del XVIII secolo in Francia in modo tale che questa conducesse inesorabilmente verso il 1789. D’altronde, quella rivoluzione non è stata un singolo evento, bensì un processo, ed è stata alimentata più da dati contingenti come il clima, i cattivi raccolti, la geografia e la demografia di Parigi e Versailles che dalle idee messe giù dai philosophes. Ma di certo chi ha assaltato la Bastiglia per liberare i prigionieri e impossessarsi delle armi non sapeva (né poteva prevedere) che in quel modo avrebbe fatto cadere la monarchia e l’aristocrazia… La Rivoluzione russa, la Rivoluzione americana… la Comune di Parigi del 1871, il movimento dei diritti civili negli Stati Uniti, il 1968 a Parigi, Solidarnosc in Polonia e tante altre realtà simili sono eventi complessi soggetti alle stesse condizioni: la contingenza che li ha caratterizzati viene rimossa, la consapevolezza dei partecipanti viene omologata… e il tumulto delle motivazioni differenti viene congelato.
Scott demitizza anche quella che nei manuali scolastici viene dipinta come un’insurrezione programmata a tavolino da un’avanguardia intellettuale, ossia la Rivoluzione di ottobre:
“…Una volta impossessatisi del potere, i bolscevichi cominciarono a sviluppare un racconto storico che gettava fuori dalle la storia la contingenza, la confusione, la spontaneità e tutti gli altri gruppi rivoluzionari. Una storia ‘riordinata’ che metteva in evidenza invece la determinazione, la capacità e la chiaroveggenza del partito d’avanguardia. In linea con l’ideologia leninista espressa nel Che fare?, i bolscevichi si presentarono come gli iniziatori del nuovo prodotto storico” (James Scott, Elogio dell’anarchismo. Saggi sulla disobbedienza, l’insubordinazione e l’autonomia.)
In definitiva, per rispondere a Daniele, non esistono meravigliose sorti progressive che porteranno alla decrescita felice, né sembrano oggi esserci motivi di particolare ottimismo. Tuttavia, se la decrescita dovesse avere successo, le cause scatenanti non saranno Latouche, Pallante e meno che mai il DFSN. Tutto avrà avuto inizio da gruppi di cittadini che, a vario titolo, saranno stufi di subire sulla loro pelle il lato oscuro del sistema: stufi di condizioni di lavoro servili, dell’assoggettamento a manager arroganti e multimiliardari, delle delocalizzazioni produttive; stufi delle crescenti disuguaglianze e delle discriminazioni; stufi di rischiare la salute mangiando, bevendo, respirando; stufi di vedere il loro territorio sfigurato e di subire catastrofi ecologiche alle prime piogge di stagione; stufi della mercificazione di tutti gli aspetti della vita umana, delle logiche perverse del mercato mondiale, dello strapotere finanziario; stufi dello sfruttamento animale; stufi di non essere padroni dei propri corpi, di non poter coltivare le proprie tradizioni, di fruire solo di forme di socializzazione massificanti; stufi di istituzioni politiche sempre più parassitarie e autoreferenziali… (3) Ognuno di questi gruppi si sarà liberato da una parte di alienazione senza arrivare a una consapevolezza totale, forse senza sapere neppure che cosa sia la decrescita. Se il pessimismo della ragione ci ancora con i piedi per terra per quanto riguarda il futuro, l’ottimismo della volontà non può non constatare che già oggi sembrano esserci le condizioni ideali per accendere la miccia di un cambiamento positivo.(4)
(1) Murray Bookchin nota che il movimento operaio più agguerrito e radicale è stato quello delle origini, composto cioé da lavoratori ancora fortemente influenzati dal mondo contadino e artigianale, ai cui occhi il solo concetto di lavoro salariato appariva una servitù degradante. Le generazioni successive, cresciute nella ‘disciplina della fabbrica’, tanto apprezzata da Marx ed Engels, ne hanno assorbito l’ideologia – cioé sono stati alienati – limitando notevolmente la portata delle rivendicazioni.
(2) Mi sembra già di sentire chi obietterà che la mobilitazione di massa fu provocata in gran parte dal gravissimo incidente di qualche mese prima alla centrale nucleare di Fukushima. Da parte mia, pur non essendo un sostenitore accanito della pedagogia delle catastrofi, posso solo felicitarmi del fatto che la popolazione non sia rimasta indolente di fronte a una tragedia di tali proporzioni.
(3) Nel caso non si fosse ancora capito, non credo in nessuna dialettica storica, per cui tutte le situazioni che ho appena elencato potrebbero dare origine originare società molto diverse dalla decrescita, influenzate ad esempio da derive neo-identitarie e neofasciste.
(4) Mentre scrivo, la città di Carrara, causa il dissesto idrogeologico, ha da poco subito dei forti fenomeni alluvionali in seguito alle primi piogge autunnali. Di fronte al rimpallarsi di responsabilità tra Comune e Provincia, i cittadini carraresi – dopo aver occupato una sala del Municipio – hanno dato vita a un’Assemblea Permanente per esaminare tutte le criticità del territorio, fortemente condizionato dal business dell’estrazione di marmo. Da un articolo de Il Manifesto online: “Nell’assemblea è palpabile un’allergia alla «politica», dove il termine politica è associato immediatamente alla «partitocrazia» delle istituzioni. I partiti e i gruppi politici, qui, non sono ammessi. Ma, poiché dall’assemblea non si esigono trattati di filosofia politica, resta il fatto che qui, nella sala occupata del Comune, si sta provando finalmente a fare della buona politica, prendendosi cura del bene comune invece che dei vari gruppi d’interesse e potentati economici che hanno spadroneggiato per troppo tempo. E che qui ci si occupa del bene comune è chiaro a tutti, non essendosi mai vista nella sala del Comune così tanta gente alle assemblee. Tanto è vero che un portavoce dell’assemblea, applaudito da tutti, parla di questa esperienza come scintilla per altre realtà. E, a chi ha a cuore le continuità storiche, non possono non venire alla mente le speranze dei moti anarchici del 1894, di essere una «scintilla» che da Carrara avrebbe innescato un processo rivoluzionario in tutto il paese”.
Va segnalato che questa forte presa di posizione dei cittadini avviene in una circoscrizione elettorale, quella di Massa Carrara, ritenuta politicamente apatica, dove alle recenti consultazioni europee la percentuale dei votanti era stata appena del 55,8%.
Immagine in evidenza: David Henry Thoreau (fonte: Wikipedia)
Molto accattivante il titolo di questo articolo.
Come sempre Igor è un laboratorio di idee e stimoli a cui non ci si può sottrarre.
Vorrei partire dall’ultima suggestione:la tragedia di una comunità in rivolta, quella di Carrara.
A leggere il brano tratto dall’articolo de Il Manifesto, qui proposto da Igor, pare che ci sia un popolo vessato da politici inetti, malvagi, maneggioni, incapaci e sempre attenti ai loro interessi.
La colpa, si sa, è sempre di chi comanda e, possibilmente, dell’ultima persona che poggia le terga sulla poltrona del sindaco.
Nel Paese delle Meraviglie va sempre tutto bene, sino a prova contraria.
Le Alpi Apuane le stanno radendo al suolo da un millennio a questa parte.
Col prezioso marmo di Carrara Michelangelo ha confezionato capolavori irripetibili come la Pietà, il Mosè e il David.
Ma da quelle cave è uscito anche il marmo che, in ogni epoca, ha abbellito le residenze signorili, ha rivestito i gradini delle scale dei condomini ed è servito persino per le lapidi cimiteriali.
Per Carrara e d’intorni le cave sono state l’economia: il luogo che ha veicolato lavoro diretto e indotto.
Col marmo di Carrara hanno mangiato tutti, ma proprio tutti.
Però, quando il contrappeso al prelievo sconsiderato si fa sentire e questo si manifesta con virulenza: allagamenti, smottamenti, distruzione di abitazioni, del patrimonio pubblico e privato, allora il passato, come d’incanto, viene cancellato e sopravvive solo l’immagine orrenda della devastazione; per la quale è obbligo trovare UN colpevole.
Ancora una volta ritorna la litania ormai stantia, per cui si sarebbe un popolo migliore di chi lo rappresenta. Un popolo indenne da colpe, mai complice del potere, sia economico che politico e sempre nella invidiabile condizione di puntare il dito contro la politica imbelle.
” L’urlìo crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba nel vòto cortile; ogni buco della casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi di pietre alla porta.
– Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!” ( Manzoni, I Promessi Sposi, cap XIII)
Il fatto è che il popolo obbedisce a delle logiche; la principale delle quali è trovare il modo di vivere, di procacciarsi un reddito per campare la famiglia.
E’ ovvio che in quest’ambito ci sia chi ci cava a malapena da vivere e chi si arricchisce.
E’ altrettanto ovvio che c’è chi crepa di silicosi e chi porta i denari alle Cayman.
Però il risultato è che senza il concorso di tutti: da chi cava il marmo, al camionista che lo trasporta, passando per chi produce gli impianti per l’estrazione e il taglio, alla trattoria che da da mangiare ai turnisti le Apuane sarebbero ancora al loro posto e Carrara non sarebbe sott’acqua.
La conclusione a cui qualcuno potrebbe arrivare è che tutto ciò sia inevitabile e che le disgrazie rappresentino un effetto collaterale per il quale la colpa è sempre del potere pro tempore: possibilmente quello piu’ prossimo: come il povero Vicario manzoniano.
La nostra è la società dell’inevitabile.
E’ inevitabile costruire sulle falde del Vesuvio, a tre chilomentri in linea d’aria dal cratere ( guardare le immagini di Google Earth, prego).
E’ inevitabile deforestare perchè la domanda di legname da costruzione è elevata.
E’ inevitabile consumare suolo per ottenere aree da coltivo
E’ inevitabile che la popolazione si concentri solo nei grandi e medi centri urbani
E’ inevitabile avere aziende siderurgiche che inquinano tutti i terreni di prossimità, ammorbando la popolazione che, peraltro, ricattata dalla prospettiva della perdita del posto di lavoro, accetta e tace.
E tutte queste cose “inevitabili” succedono perchè a sette miliardi di persone bisogna dare delle risposte.
E’ inevitabile perchè la gente alla politica chiede migliori condizioni di vita, di lavoro; senza sapere che, in realtà chiede di essere esattamente come il potere economico e finanziario vuole che essa sia: succube e consumatrice.
In un felice passagio del suo articolo Igor parla di coloro, pochi per la verità che cercano e trovano riscatto da questa condizione di dipendenza. Rompono l’assedio e reinventano se stessi ed il proprio intorno cambiando vita; sottraendosi alle logiche di dominio a cui il modello capitalistico condanna le persone.
Siccome sono tra questi, considero che questa scelta sia non solo possibile ma anche auspicabile.
Disporre di se stessi, del proprio tempo, potere decidere cosa serve e cosa no, imparare a gestire correttamente le risorse, abituarsi al riuso, al riciclaggio, allo scambio, alla solidarietà, alla bellezza di riscoprire il valore della (piccola) comunità, non è certo cosa da poco.
Sono profondamente convinto che, per capire l’Italia, i suoi drammi ma anche le sue enormi possibilità, serva consultare la cartina geografica.
Guardare il territorio, comprendere l’enorme pressione antropica da una parte e il desolante abbandono dall’altra, è già un’ottica che può indurre a scelte conseguenziali.
Per me pranzare in due ( strabene!) con cinque euro in tutto rappresenta un punto di orgoglio; così come vedere che riesco a non buttare quasi nulla e riciclare quasi tutto. Vedere come la natura mi dia gran parte delle cose che mi servono aumenta la mia autostima e la convinzione che cambiare si può.
In questa fase congiunturale, che potremmo definire “del disagio”, la gente si accorge di stare male ma non sa come porvi rimedio, se non reagendo scompostamente alla ricerca di capri espiatori.
Mi auguro che arrivi la fase successiva: quella in cui si prende consapevolezza che la crisi non è la causa ma il sintomo di un male profondo che si chiama capitalismo, pure nella sua forma moderna e accattivante ma non per questo meno alienante.
Qui si innestano le idee della decrescita.
La velocità con la quale potranno affermarsi dipenderà (anche) dalla presa di coscienza che, ciascuno di noi, a suo modo e suo malgrado è oggettivamente complice di un sistema malato.
Può non piacere la parola “complice” ma le picconate al marmo di Carrara le hanno tirate tutti.
Non so se sia il caso di citare Manzoni, nel senso della validità per la nostra causa. Manzoni era per la conservazione dell’esistente e per affidare alla Provvidenza tutte le modifiche del caso. Quindi si può sparare a zero sulle persone che, in modo confuso, stanno andando alla ricerca dei motivi. Io non posso farlo, perché sarebbe il bue che dà del cornuto all’asino.
Io, almeno fino ai 25-26 anni, ho creduto nella validità sociale della crescita, nella socialdemocrazia, nello sviluppo sostenibile… ed ero già diplomato e laureato, con tempo libero, accesso alla cultura. L’ho scritto in Svolta Radicale non è una confessione improvvisa. Sì, ero un simpatizzante del movimento no global e di molte questioni correlate, ma non mi è bastato per fare 2+2.
Ho fatto lavori non particolarmente renumerativi (da 800 euro al mese) ma neanche particolarmente duri, con la famiglia mia e della mia compagna a sostenerci nei momenti difficili: ho avuto tempo per passioni intellettuali. In quel frangente mi sono avvicinato alla decrescita: ma se avessi fatto un lavoro dove si esce di casa alle 7 del mattino e si torna alle 7 di sera (ma penso anche un lavoro d’ufficio 9-17 ininterrottamente davanti a un computer) avrei voluto saperne solo di staccare la spina, una volta a casa. Diabolik avrebbe sicuramente avuto la meglio su Latouche.
Allora mettiamola così: io non posso scagliare pietre, specialmente se devo farlo contro persone che hanno goduto di molto meno privilegio sociale di me. 10-11 anni fa bastava che la mia vita prendesse una piega diversa e sarei magari non nel popolo-bue, ma farei discorsi di sinistra un bel po’ stantii. Sarei un complice anche io, come dici tu. Queste ragioni mi portano a simpatizzare per persone che, con tutti i loro limiti, ne hanno in fondo meno di me 10 anni fa.