‘O OGM o carestia’, titolava alcuni anni fa un importante quotidiano italiano. Ma l’ingegneria genetica ha realmente garantito i grandi balzi produttivi promessi? Proviamo a scoprirlo esaminando due agricolture avanzate, quella statunitense e quella francese (probabilmente le più sviluppate del pianeta), dove nella prima si fa abbondante uso di sementi transgeniche, proibite invece nell’altra; confrontiamole in base a diversi parametri, partendo dalla resa per ettaro dei cereali, la coltura su cui ha più senso fare paragoni (fonte: FAOSTAT):
Generalmente, i sostenitori degli OGM terminano qui l’analisi ritenendo dimostrate le proprie tesi: dal 1996 (quando sono state introdotte le prime colture transgeniche) le rese per ettaro americane sono progressivamente aumentate fino a segnare un +33% nel 2011, mentre quelle francesi hanno subito numerose fluttuazioni attestandosi alla fine su valori leggermente inferiori di quelli di metà anni Novanta. Fermarsi qui significa però vedere solo un lato della medaglia; il merito degli exploit è da ascrivere soltanto alle qualità intrinseche delle nuove sementi? Diamo un’occhiata al consumo di fertilizzanti (fonte: Banca Mondiale, elaborazioni it.actualitix.com):
Gli agricoltori statunitensi hanno intensificato nel 2002-06 l’uso dei concimi chimici, finché l’aumento del costo del petrolio si è ripercosso anche su tali input (i quali, per chi non lo sapesse, si ricavano da prodotti del settore petrolchimico), facendone ridurre l’uso. Parimenti, il crollo del prezzo del greggio nel 2009 ne ha nuovamente incentivato l’impiego, al punto che tre anni dopo se ne utilizzava mediamente il 22% in più. I francesi, invece, in un decennio hanno diminuito complessivamente l’apporto del 35%.
Anche i dati relativi ai pesticidi sono molto interessanti (fonte: FAOSTAT):
In Francia l’irrorazione di fitofarmaci è stata fortemente ridimensionata, calando del 33% rispetto al valore registrato a metà anni Novanta; al contrario un contadino statunitense nel 2007 somministrava sostanzialmente lo stesso quantitativo di dieci anni prima. Infine, anche i rilevamenti sulle emissioni di CO2 e sui consumi del comparto agricolo fanno riflettere (fonti: FAOSTAT e IEA):
CONSUMO ENERGETICO AGRICOLTURA USA 2001-13: +39%
CONSUMO ENERGETICO AGRICOLTURA FRANCIA 2001-13: +10%
Avendo ratificato il protocollo di Kyoto (diversamente dagli USA), la Francia ha provveduto a una riduzione sensibile delle emissioni anche in agricoltura, oltreoceano invece le preoccupazioni ambientali sono state decisamente minori e, dopo alcune oscillazioni, le emissioni del settore nel 2012 hanno lambito il massimo storico del 1996. Su questo versante ha sicuramente influito il consumo energetico, il cui aumento in Francia è stato decisamente più contenuto.
Nessuna pretesa di trarre sentenze definitive da queste poche (benché illuminanti) cifre, in ogni caso forniscono alcune preziose indicazioni; in particolare emerge come, per quanto riguarda il rendimento produttivo, la variabile OGM – su cui tanto ci si scanna – sia molto meno decisiva rispetto al contesto generale in cui le sementi vengono inserite. Ciò diventa ancora più evidente se prendiamo in considerazione una nazione come il Brasile, dove i recenti strepitosi risultati produttivi vengono solitamente attribuiti all’impiego di semi transgenici, presentando nuovamente una verità parziale. Dall’inizio del nuovo millennio la resa per ettaro della soia è aumentata del 34% e quella del mais addirittura del 55%; anche in quel caso, però, l’aumento produttivo è stato accompagnato da quello di altri determinanti fattori, su cui spiccano decisamente i pesticidi (+100%):
CONSUMO ENERGETICO AGRICOLTURA BRASILIANA 2001-2011: +37%
In altre paesi in cui sono state introdotte le sementi geneticamente modificate sono osservabili trend analoghi.
Gran parte del dibattito sugli OGM si articola su lunghe (e per lo più sterili) discussioni tra chi auspica il recupero di una dimensione più umana dell’agricoltura per contrastare la sua totale industrializzazione e ingegnerizzazione guidata dalle multinazionali, paventando gli eventuali rischi per la salute umana e per l’ambiente, opposto a chi invece ne decanta le virtù produttive deridendo coloro che, spesso senza una specifica formazione agronomica, inevitabilmente incappano in errori ingenui sulle questioni tecniche. Si tratta di una polemica fuorviante, vero e proprio fumo negli occhi, perché riferita alle proprie sensibilità personali o a questioni fondamentalmente secondarie, slegata dalle grandi problematiche che affliggono il pianeta e possono compromettere definitivamente il paradigma agricolo così come lo abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo. Parlo ad esempio del fosforo oramai prossimo al picco di produzione e delle gravi alterazioni dei cicli naturali causati dai fertilizzanti contenenti questo elemento (leggetevi l’ottima serie di articoli pubblicati da Claudio Della Volpe sul blog della SCI); a ciò si aggiunga il picco del petrolio, problema con cui stiamo facendo già i conti malgrado l’illusione di abbondanza creata dai bassi prezzi (interessanti le analisi di Alessandro Pulvirenti pubblicate Effetto Risorse: fate attenzione soprattutto alle proiezioni più ottimistiche!); come se non bastasse, luglio 2016 è stato il mese più caldo della storia, un macabro disvelarsi del global warming che dovrebbe indurci a non insistere con fertilizzanti liberanti protossido di azoto nell’atmosfera (gas serra circa trecento volte più potente dell’anidride carbonica) e con l’uso intensivo di macchinari molto onerosi sul piano energetico e ambientale.
Dopo questa breve digressione, torniamo al confronto USA-Francia, introducendo una delle parole più abusate degli ultimi trent’anni, ossia ‘sostenibilità’. Al di là degli slogan e del marketing, in che cosa consiste realmente la sostenibilità? L’enciclopedia Treccani la definisce così: “Nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. Se prendiamo alla lettera la definizione, non significa semplicemente ‘consumare un po’ meno risorse e ridurre l’impatto inquinante’, come sembra invece intendere anche qualche prestigioso agronomo. In campo agricolo, significa utilizzare risorse non rinnovabili in modo parsimonioso con l’obiettivo di abbandonarle definitivamente, riciclare i nutrienti nonché lottare senza quartiere contro i processi che causano degrado ambientale (erosione dei terreni, inquinamento delle falde acquifere, eutrofizzazione delle acque e anossia delle zone costiere, immissione di sostanze climalteranti, ecc.).
Sulla base di questa premessa, USA e Francia non se la passano bene, anche se vanno giudicate differentemente. Sul versante americano, troviamo un’agricoltura pro-OGM ostentante risultati produttivi ‘dopati’ dal massiccio impiego di input, constatazione a cui i sostenitori delle biotecnologie replicano spesso ‘senza sementi transgeniche sarebbe peggio’, non accorgendosi che così facendo ne rimarcano il carattere ben poco rivoluzionario (immaginate una persona che, per minimizzare l’inquinamento atmosferico provocato dal traffico automobilistico, dicesse: ‘senza le auto catalizzate sarebbe peggio’). Condizione necessaria (non sufficiente) per la sostenibilità è ‘fare di più con meno’, non certo ‘fare di più con di più’, che invece è l’assioma fondante del business as usual!
‘Risparmio’ sembra invece la parola d’ordine dell’agricoltura transalpina, la quale ha tenuto d’occhio gli obiettivi di Kyoto e si è impegnata a contenere l’apporto della chimica (a causa anche delle normative ambientali europee, più stringenti di quelle statunitensi): sforzi incoraggianti, ma siamo ancora lontani dalla sostenibilità, si può parlare al massimo di efficienza nello sfruttamento delle risorse e riduzione del danno.
Morale della favola? Se vogliamo davvero un’agricoltura sostenibile dobbiamo comprenderne pienamente i fondamenti imprescindibili, senza addurre problematiche (per altro reali) come il progressivo aumento della popolazione mondiale quali giustificazioni per insistere con comportamenti ecologicamente insensati. Dobbiamo concepire un’agricoltura dove il bilancio energetico sia il più possibile in pareggio, in cui le calorie prodotte dalle colture eguaglino quelle spese per la loro coltivazione (oggi ci troviamo in pesante deficit), circoscrivendo l’apporto della meccanizzazione; riscoprendo pratiche tradizionali arricchite dalle conoscenze scientifiche attuali, secondo i dettami dell’agroecologia; senza demonizzare la chimica ma limitandola e usandola virtuosamente, ad esempio recuperando nutrienti da acque reflue e allevamenti; e dove le biotecnologie abbiano ancora diritto di cittadinanza ma proponendosi realmente quali ‘tecniche della vita’, promuovendo la biodiversità e non mortificandola, abbandonando assunti teorici su cui comincia ad aleggiare profondo scetticismo (in particolare il cosiddetto ‘dogma centrale’ un gene/una proteina), ammettendo i fallimenti della Rivoluzione Verde e accettando l’impossibilità di creare ritrovati artificiosi per rendere invulnerabili le monocolture e analoghi abomini ecologici, se non causando alla lunga conseguenze peggiori dei mali che si intendeva risolvere.
PS: in passato mi è capitato, trattando di OGM, di subire la reazione sdegnata di accademici e luminari del settore agronomico (unitamente agli insulti di una massa di vigliacchi digitali), condannanti la mia ignoranza in materia e accusandomi di essere un ‘baro’ e altre amenità per aver trascurato questo e quell’altro dettaglio, ‘invitandomi’ caldamente a non occuparmi più dell’argomento. Qualora ce ne fosse bisogno, ricordiamo che DFSN non è una rivista scientifica, quindi non deve ottemperare ai rigidi criteri della ricerca accademica: siamo un sito di opinione dichiaratamente ‘di parte’ (nel senso che non nascondiamo i nostri orientamenti dietro una falsa parvenza di neutralità) che si sforza di fare una buona divulgazione, intellettualmente onesta nonché – con tutte le difficoltà del caso – credibile e obiettiva. Le mie conoscenze agronomiche sono davvero infime rispetto a quelle di un esperto ma questi, passatemi la metafora, tende a guardare il mondo con un microscopio, conosce perfettamente il suo ambito ma spesso gli sfuggono quelle dinamiche percepibili solo tramite uno sguardo d’insieme e facilmente ignorabili rimanendo ancorati all’ottica ristretta della specializzazione disciplinare. Allargare la visuale, nulla più di questo mi propongo: non impartire lezioni ad agronomi e genetisti bensì – con i miei enormi e forse insormontabili limiti – provare a delineare i contorni di quel quadro d’insieme. Ovviamente osservazioni educate e rispettose del sottoscritto nonché dei lettori di DFSN sono sempre gradite.
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