Miriam Corongiu, redattrice di DFSN, è entrata nel gruppo dirigente di Altragricoltura, segnando un altro tassello importante nella svolta esistenziale che l’ha portata da perdere il precedente lavoro a riscoprire le sue origini contadine, facendone più di una semplice professione, come testimoniato dalla sua militanza in favore di una agricoltura radicalmente diversa da un paradigma oramai in esaurimento e non consono alle sfide che attendono l’umanità. La promozione di Miriam ci induce a riflettere sul tema delicato della riconciliazione tra agricoltura ed esigenze ambientali.
Tale conversione verso la sostenibilità può avvenire per gradi. Il primo, rimanendo nell’alveo del modello attuale, consiste nell’implementare sistematicamente tutti i miglioramenti di efficienza che hanno permesso di ridurre sensibilmente il consumo di sostanze chimiche di sintesi negli ultimi decenni. Benché decantato da molti come il massimo possibile in termini di ecocompatibilità, si tratta di un contenimento del danno che riduce ma non elimina le principali criticità. La massiccia dipendenza da risorse non rinnovabili e la portata delle problematiche ecologiche da affrontare rendono tale approccio insufficiente, anche perché da una ventina d’anni a questa parte i miglioramenti hanno sostanzialmente raggiunto un plateau.
Un passo più deciso nella direzione giusta avviene sostituendo gli input chimici di sintesi con altri di origine organica, come avviene nell’agricoltura biologica. Troppo spesso, però, il processo assume la forma del ‘biologico di sostituzione’, in cui sostanzialmente si scimmiottano le pratiche convenzionali o si adottano operazioni ‘di facciata’ (ad esempio sostituire i fertilizzanti azotati con pellettato di stallatico) senza introdurre concrete modifiche agronomiche: in questa maniera, come ha evidenziato una ricerca promossa da Federbio e Coop, si rischia addirittura un impatto maggiore di quello causato dalle pratiche agroindustriali a input ridotto (ovviamente, i detrattori del biologico cavalcano tali situazioni per dimostrane la presunta infondatezza delle pratiche alternative all’agroindustria).
Siamo quindi giunti al terzo step, quello cioé realmente agroecologico, dove l’azienda agricola viene studiata come un vero e proprio ecosistema allo scopo di far rendere al meglio le diverse colture sfruttando le interazioni naturali. Ciò prevede l’applicazione di pratiche quali:
- creare diversità nell’azienda;
- integrare l’allevamento vegetale con quello animale;
- sistemare il terreno e lavorarlo al minimo;
- adottare sistemi di colture consociate;
- adottare la rotazione delle colture;
- impegare genotipi resistenti agli attacchi parassitari;
- trattare il terreno con letame e materiali organici compostati;
- praticare il sovescio;
- favorire il controllo biologico di erbe infestanti, fitofagi e fitopatogeni;
- proteggere e impiantare le siepi.*
Con l’agroecologia si raggiunge finalmente l’obiettivo della sostenibilità sul piano tecnico, creando la base di partenza per un progetto che superi i confini dell’agronomia per aprirsi a una società che, nel mondo occidentale, non solo assume un carattere prettamente urbano, ma ignora per lo più l’origine del cibo collocato sugli scaffali dei supermercati e bolla come ‘sottosviluppate’ le nazioni dove i contadini rappresentano una parte cospicua della forza lavoro e l’agricoltura ricopre ancora un ruolo economico preponderante.
In questo senso, una delle esperienze più importanti anni è rappresentato dalla cosidetta Community Supported Agricolture (agricoltura supportata dalla comunità – CSA), strategia di mutuo appoggio articolata nel mettere in comunicazione consumatori e coltivatori, incoraggiando la promozione del cibo locale e una corretta gestione del territorio, cercando altresì di valorizzare i saperi dei produttori.
Nata trent’anni fa in Giappone e sviluppatasi poi negli USA e in alcuni paesi europei, la CSA è un’evoluzione del gruppo d’acquisto solidale (GAS), in quanto gli associati contribuiscono pure ad acquistare semi, fertilizzanti, acqua e alla manutenzione delle attrezzature, oltre a fornire saltuariamente prestazioni lavorative. In questo modo, i consumatori possono contare su di un cibo di miglior qualità (spesso a prezzi più vantaggiosi rispetto alla vendita al dettaglio) mentre gli agricoltori si assicurano un mercato sicuro per un’ampia gamma di prodotti; fatto ancora più importante, si riduce la distinzione produttore-consumatore e si restituisce centralità, sia economica che sociale, all’agricoltura.
Esistono insomma diverse possibilità per riconciliare agricoltura, ambiente e società. Con un’unica certezza: il futuro segnerà sicuramente un ‘ritorno alla terra’, resta da vedere quali contorni assumerà.
*Criteri agroecologici tratti da F. Caporali, E. Campiglia, R. Mancinelli, Agroecologia. Teoria e pratica degli agroecosistemi, De Agostini Scuola Edizioni, Novara 2010