Lo scorso 31 agosto, nell’incontro di Fonzaso (Belluno) del gruppo Coltivare Condividendo, che ha dato avvio al progetto Cereali Antichi con cui si è lanciato un campo catalogo diffuso nella Valbelluna (ma non solo), Lollo, una delle voci più autorevoli del gruppo, ha lanciato la questione del nome da attribuire alla cosiddetta agricoltura convenzionale. Cioè all’agricoltura normalmente esercitata negli ultimi 50 anni con l’ausilio di tanta chimica, tanta meccanica e un uso spregiudicato della genetica. Non è corretto chiamarla convenzionale, perché nessuno ha convenuto che sia il metodo più corretto in un confronto aperto, né può dirsi agricoltura tradizionale giacché le tradizioni, precedenti alla rivoluzione verde, ancora sussistono seppure in piccole nicchie e sono ben differenti.
Personalmente penso che un nome sintetico e pertinente da dare all’agricoltura oggi dominante sia “agricoltura dipendente”.
Essa infatti induce molteplici dipendenze:
- degli ecosistemi agricoli dagli apporti esterni di fertilizzanti, diserbanti, fitofarmaci, ormoni, antibiotici;
- degli agricoltori dai fornitori di mezzi meccanici ed energetici, chimici, biologici (brevettati), ma anche, da non trascurare, la dipendenza in termini di conoscenze dei processi standardizzati;
- delle comunità locali dalle commodities scambiate world-wide e non più coltivate in zona;
- dei consumatori dalla GDO e dall’industria alimentare, che puntano ai profitti e non certo alla salute di chi si alimenta (nutrendosi poco e male) con i loro prodotti;
- ancora dei consumatori dall’industria farmaceutica, per effetto della carenza e degli squilibri nutrizionali derivati dal consumo di junk food industriale e di avvelenamenti cronici causati da residui di pesticidi, anticrittogamici, ormoni e antibiotici sia nei cibi sia nell’ambiente.
Tutte queste dipendenze poi si possono far risalire ad una prima radicale dipendenza dalla filosofia consumistica per cui anche l’attività agricola ha come vero e unico scopo l’arricchimento – a sua volta funzionale al consumo stesso.
Corollario a questa ideologia: lo strumento per l’arricchimento degli agricoltori è l’esasperazione delle rese. Però l’aumento delle rese arricchisce i settori a monte e a valle, ma date le differenti economie di scale e attraverso il gioco dei prezzi, ben poco gli agricoltori.
E sorvoliamo sulle rendite di posizione date da molti degli strumenti dell’attuale politica agricola comunitaria.
Ho provato a mettere in parallelo alcune delle caratteristiche salienti dell’agricoltura dipendente e di un modello differente, propugnato dal gruppo Coltivare Condividendo, che è l’agricoltura relazionale (nella mia personale visione):
VOCE |
AGRICOLTURA DIPENDENTE |
AGRICOLTURA RELAZIONALE |
Biodiversità |
Un fastidio, rovina la standardizzazione |
Una necessità agronomica e una ricchezza da salvaguardare |
Sementi |
Un acquisto che deve garantire rese elevate |
Un prestito dalle generazioni future, da selezionare anche sulla base della resistenza delle piante |
Fertilità |
Si ottiene apportando ogni anno grosse quantità di prodotti chimici e se disponibili organici |
Si mantiene con le rotazione, le consociazioni, le lavorazioni, l’apporto di sostanza organica |
Lotta alle malerbe |
Diserbanti chimici |
Paciamature, estirpazione meccanica o manuale, favorendo spontanee meno sgradite, rotazioni. |
Lotta a parassiti e patogeni |
Con il prodotto più efficace, anche se chimico. |
Tecniche agronomiche, scelte varietali, macerati e decotti, se veramente necessario antiparassitari biologici |
Costi produzione |
Elevati |
Ridotti |
Fabbisogno di lavoro umano |
Ridotto |
Elevato |
Conoscenze fondamentali |
Modalità di utilizzo dei fattori d’acquisto industriale standardizzati |
Processi naturali, tecniche agronomiche, condizioni pedologiche e bio-climatiche locali |
Finalità dell’attività agricola |
Reddito |
Oltre al reddito preservare valori del mondo rurale |
L’agricoltura dipendente presenta e origina una serie di internalità e, ancor più, di esternalità negative:
– consumo di risorse per produzione energia / macchinari / input produttivi;
– distruzione equilibri naturali (monocoltura) con incremento dei problemi fitopatologici e dei costi di produzione (antiparassitari, fertilizzanti, irrigazione, sementi);
– distruzione di biodiversità;
– inquinamento di falde, terreni, aria con diserbanti e antiparassitari, minaccia alla sopravvivenza di specie vegetali impollinate da api e altri pronubi uccisi dai pesticidi;
– avvelenamento dei cibi con antiparassitari, ormoni, fertilizzanti, conservanti;
– perdita della fertilità del suolo;
– perdita di posti di lavoro;
– dissesto del territorio (estensione arativi, eliminazione siepi);
– peggioramento della qualità nutrizionale e organolettica del cibo (sementi adatte a rese – resistenza, crescite forzate, conservazioni, trasporti);
– sovrapproduzioni (con conseguenti distruzioni sovvenzionate) e spreco (nella catena fino al consumo finale);
– “espropriazione” delle terre, urbanizzazione e pauperismo;
– privatizzazione dei beni naturali (semi, animali, acqua, terra), che sottratti al controllo collettivo restano alla mercé degli interessi economici di pochi;
– estremizzazione della competizione tra produttori/ perdita di relazioni umane;
– perdita di consapevolezza della connessione tra cibo e ambiente (agricoltura solo professionale);
– perdita di consapevolezza dell’origine e del valore anche per la salute del cibo (cibo spazzatura);
– incapacità di alimentarsi correttamente e di gustare il cibo;
– desocializzazione e desacralizzazione del cibo – entrambi veicoli per una alimentazione corretta e una società salda.
Al contrario l’agricoltura relazionale senza l’ossessione delle rese, con l’uso di sementi antiche (fertili per infinite generazioni, vocate, con minori esigenze colturali, più saporite, preservano biodiversità, evitano speculazione e schiavitù economica), senza chimica (no antiparassitari di sintesi o tossici, no concimi di sintesi, no ormoni), con i campi aperti, con l’incoraggiamento degli orti sociali, ottiene diversi vantaggi:
– la conservazione della fertilità suolo (preoccupazione costante dell’agricoltore),
– pari dignità agli autoproduttori (recupero di mano d’opera anche part time);
– la circolazione delle idee, delle conoscenze, delle pratiche per la diffusione di una alimentazione sana e di una coscienza agricola, ambientale e alimentare;
– rapporti di fiducia con consumatori al posto di costose certificazioni, anche grazie all’associazione con GAS;
– promozione del cibo locale (senza trasporto su lunga distanza e conseguente inquinamento, migliore qualità e sicurezza degli alimenti, sovranità alimentare delle comunità;
– recupero di pratiche tradizionali a basso impatto energetico;
– sperimentazioni di varietà tradizionali, anche alloctone, e di nuovi ibridi.
È superfluo sottolineare quale tipo di agricoltura sia compatibile con l’attuale modello di sviluppo basato sulla crescita e quale con modelli ispirati alla decrescita, ma è importante che i consumatori siano ben consapevoli che esistono produttori dei due tipi, che li individuino nel loro territorio e che possano quindi orientarsi verso uno stile di acquisto di generi alimentari che salvaguardi la loro salute e l’ambiente in cui vivono.
Ciao Gerhard,
naturalmente sono d’accordo su tutto quello che hai scritto.
Vivo la realtà dei GAS e del DES di Parma.
Ci sono molti segnali incoraggianti sul come il consumo critico e l’economia solidale vadano evolvendosi e coinvolgendo sempre piu’ persone.
Certo: la strada è ancora lunga ma la buona semente inizia a germogliare.
Non so se conosci la realtà descritta nel link che allego. E’ la dimostrazione che la crisi fa riflettere molte persone e, piu’ ancora, il fatto che in tanti non la considerino solo un evento transitorio dai risvolti meramente economici.
C’e’ voglia di cambiare e questa esperienza lo insegna.
http://comune-info.net/2014/11/patata-etica/
Ciao Daniele, grazie della segnalazione, davvero molto interessante. Proprio stasera parlavo con una collega, la cui azienda è attualmente certificata biologica, che sta propendendo per abbandonare quella certificazione per una partecipativa.
Salve. Mi chiedevo cosa è e dove si trova la certificazione partecipativa. Grazie
Un’ottima spiegazione si trova nel link suggerito qui sopra da Daniele, lo ripeto:
http://comune-info.net/2014/11/patata-etica/
Gerhard,
penso che un’altra differenza fra le due agricolture riguardi lo spreco.
L’agricoltura convenzionale porta alla spreco mentre quella tradizionale non porta allo spreco.
Mi riferisco soprattutto alla conservazione dei prodotti freschi (frutta, ortaggi e verdura).
I prodotti agricoli ottenuti con le antiche tecniche produttive duravano molto anche senza l’utilizzo di frigoriferi (che tra l’altro non esistevano).
Un esempio concreto: i limoni.
Ricordo che fino a circa una decina di anni fa i limoni venivano venduti in retine che ne contenevano 5. Non consumo molti limoni per cui passava del tempo fra il consumo di un limone e il consumo del successivo. Succedeva che di quei 5 limini ne consumavo 1-2 mentre gli altri venivano buttati via perché nel frattempo erano marciti. Ovviamente i limini venivano conservati in frigorifero.
Negli ultimi anni però i supermercati hanno introdotto la vendita anche di singoli limoni per cui adesso il problema dello spreco dei limoni è fortemente ridotto (al limite butto via il mezzo limone avanzato dal primo uso e che nel frattempo è marcito).
Ma quanto dovrebbe durare un limone?
Questa estate una signora, mia parente, mi ha regalato tre limoni. Li ha raccolti da un albero che ha in giardino e che ovviamente non sottopone a nessun trattamento.
Di quei limoni due sono stati consumati. E’ rimasto il terzo limone, che mi guardo bene dal consumare perché voglio scoprire quanto dura prima di andare a male. Quei limoni mi furono dati a metà di agosto di questa estate: quindi il limone avanzato ha già tre mesi di vita a partire dalla raccolta.
Ricordo che in passato alcuni ortaggi venivano conservati senza nessuna tecnica di conservazione (come l’essiccamento o la salatura). Ricordo che c’erano dei meloni (chiamati “Invernali”) che si raccoglievano d’estate e si consumavano di inverno (è per questo motivo probabilmente che si chiamavano “invernali”). Molto diffuso era la conservazione dei pomodori “a pendolo”: erano pomodori che si raccoglievano a grappolo e si appendevano a uno spago in modo da formare delle corone che poi si appendevano a un’asta. Anche questi pomodori venivano consumati in inverno.
Gerhard, penso che in futuro si dovranno necessariamente introdurre le vecchie tecniche produttive e, necessariamente, le vecchie varietà.
Riguardo a questo ultimo punto bisogna aggiungere una cosa: quelle vecchie tecniche vanno bene con le vecchie varietà e non con altre. Ricordo che una volta un agricoltore mi disse che, per il consumo della sua famiglia, piantò dei pomodori senza sottoporle a nessun trattamento (diversamente dai pomodori che produceva per il mercato). Mi disse, dispiaciuto, che quei pomodori andarono tutti a male. Penso che la spiegazione sia che quei pomodori sono stati selezionati per essere coltivati con un certo modo, con molto uso di acqua, prodotti chimici e quant’altro [invece quei pomodori di cui ho parlato e che venivano conservati per l’inverno erano “asseccagni”, non ricevevano apporto di acqua se non con le piogge, e non ricevevano nessun concime “chimico”).
Ciao
Armando
Gerhard, scusami per non avere usato i nuovi termini per definire le due diverse agricolture.
Ciao
Armando
Ciao Armando,
concordo per quanto riguarda lo spreco, prodotti raccolti per essere trasportati lontani e per maturare durante o alla fine del trasporto hanno una deperibilità ben differente dei prodotti naturali a volte più breve a volta più lunga, ma allora c’è da inquietarsi anche di più perché bisogna chiedersi con che trattamenti viene ottenuta.
Le varietà locali, selezionate dalla natura e dal lavoro di molte generazioni di agricoltori presentano grandissimi vantaggi agronomici, solo sono in genere meno produttive. Il recupero delle vecchie varietà è tra l’altro una delle principali attività di Coltivare Condividendo.
Penso che il futuro dell’agricoltura sia necessariamente l’abbandono della chimica e un mix di nuove tecniche e di ritorno alle pratiche antiche. ciao