Acrescita: la decrescita è morta, lunga vita alla decrescita!

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Scrivevo in uno dei miei primi articoli pubblicati per DFSN: “Antonio Gramsci definiva ‘rivoluzioni conservatrici’ quei cambiamenti che attingono da idee radicali e innovative allo scopo di annacquarne la portata rivoluzionaria, secondo il motto gattopardesco di ‘cambiare tutto per non cambiare niente’: Gramsci aveva in mente idee come il socialismo e ‘rivoluzioni conservatrici’ come il dirigismo fascista o il new deal rooseveltiano, oggi possiamo vedere nel capitalismo della green economy una diluizione del pensiero ecologista; e domani possiamo essere sicuri che anche la decrescita subirà lo stesso trattamento”

Così iniziava la recensione di La società post-crescita. Consumi e stili di vita, un libro dove il sociologo Giampaolo Fabris analizzava le conseguenze della crescita continua sull’ambiente e la società – già descritte da Latouche, Pallante e altri pensatori decrescenti – approfondendo e sviluppando l’argomento, per poi non solo prendere le distanze dalla decrescita ma addirittura appioppando ogni genere di epiteto insultante verso i suoi sostenitori (ne riportai pari pari una dozzina circa nell’articolo). Ne conclusi che l’opera di Fabris rappresentava sostanzialmente un tentativo, senza dubbio brillante e ben concepito (cadute di stile a parte), per salvare il paradigma sociale e politico attuale malgrado la fine del miraggio della crescita per la crescita, secondo il principio gattopardesco di cambiare tutto per non cambiare niente o quasi.

Acrescita. Per una nuova economia dell’economista Mauro Gallegati (Einaudi, 2016) mi ispira invece ben altra simpatia, per quanto mi paiano evidenti alcuni limiti dell’opera. Permettetemi un breve inciso: mi è capitato di nominare su DFSN alcune persone, anche solo in nota a un articolo, e che queste poi intervenissero nei commenti rivelando un’arroganza e una presunzione senza pari. Sarei invece ben felice di confrontarmi con Gallegati perché, al di là delle differenze di opinione, il libro rivela una personalità intelligente e gradevole; l’opera consiste sostanzialmente in un pamphlet di un centinaio di pagine, molto ben scritto in quanto riesce a mettere insieme verve polemica (senza mai scadere in toni inutilmente astiosi), taglio divulgativo e precisione scientifica (insomma: il mio ideale di scrittura!).

A differenza di Fabris, Gallegati non accenna minimamente alla decrescita (ricorre varie volte invece all’espressione buen vivir), se non a pag.86 dove allude a “…”movimenti per la decrescita” che propongono cambiamenti dal basso, azioni pratiche e stili di vita sobri e sostenibili”; Latouche e altri pensatori analoghi non compaiono quindi in bibliografia, dove possiamo trovare però ecologisti del calibro di Paul Herlich (con Population Bomb, un classico del pensiero ambientalista), il team di ricercatori de I limiti dello sviluppo (Denis e Donella Meadows, Jorgen Randers), Giorgio Ruffolo, il fisico Elya Prigogine e teorici dell’economia stazionaria quali Herman Daly e Tim Jackson. In realtà, le evidenze delle scienze naturali non occupano molto spazio nel libro, essendo l’autore una persona ragionevole e non un sofista  arrampicatore sugli specchi che ama cavillare nel vano tentativo di negare l’evidenza, atteggiamento abbastanza diffuso all’interno della sua disciplina quando si mettono in dubbio alcuni assiomi fondamentali.

Per farsi un’idea della statura accademica dell’autore di Acrescita, basta dare uno sguardo alla pagina Wikipedia a lui dedicata e paragonare poi la sua produzione scientifica, ad esempio,  con quella di  colleghi molto più sotto i riflettori  dei media, tipo Luigi Zingales. Gallegati appartiene a quella schiera di keynesiani ‘classici’ che hanno preso decisamente le distanze dalla cosiddetta nuova macroeconomia keynesiana – Gregory Mankiw e Olivier Blanchard tra i principali teorici – denunciando l’impostura dei cosiddetti modelli economici dell’equilibrio (dynamic stochastic general equilibrium, DSGE), condannando le crescenti disuguaglianze, le chimere del trickle-down effect (Piketty e Stiglitz influenzano moltissimo Acrescita – Gallegati ha compiuto studi congiunti con il premio Nobel ed ex presidente della Banca Mondiale), puntando il dito sulla precarietà del lavoro e spiegando la reale natura del debito pubblico, nonché l’inutilità intrisenca delle politiche di austerità.  Inoltre, rifacendosi a un contributo realizzato da Stiglitz, Fitoussi e Sen su incarico dell’ex presidente francese Sarkozy, Gallegati integra alla contestazione di stampo ambientalista l’idea che il PIL sia un pessimo indicatore di benessere.

Se la pars destruens è abbastanza chiara, quale proposta costruttiva viene avanzata? Per la verità il libro non si sbilancia granché, dedicando al riguardo qualche pagina del capitolo finale. Oltre a una sana politica di sinistra incentrata sulla redistribuzione dei redditi e delle risorse, Gallegati accenna vagamente al raggiungimento della piena occupazione tramite lo sviluppo del terziario avanzato, la riduzione dell’orario di lavoro, la riqualificazione ambientale del territorio, l’innovazione tecnologica e l’enfasi sulla qualità (valorizzare il marchio di fabbrica del made in Italy, sostanzialmente). Insomma, un mix di proposte che di per sé si sono sentite spesso sulla bocca di politici, teorici dello sviluppo sostenibile, sostenitori ma anche detrattori della decrescita.

Sarebbe molto facile indossare i panni del critico intransigente evidenziando alcune palesi ingenuità emergenti dal libro: la più grave riguarda il fatto che un’economia che si limitasse allo stato stazionario, vista l’entità del degrado ambientale e la limitatezza della disponibilità di risorse, non è semplicemente concepibile; inoltre, si sopravvalutano parecchio le virtù ‘dematerializzatrici’ del terziario avanzato. Tuttavia, si tratterebbe di un atteggiamento profondamente ingiusto verso l’autore il quale, provenendo dalla scuola economica keynesiana, si trovava per certi versi nella posizione peggiore per elaborare critiche così raffinate sulla crescita economica, l’esito più probabile era trovarsi di fronte a un nuovo Bagnai (non caso nemico implacabile della decrescita e paladino del PIL).

Leggendo Acrescita mi è venuto in mente uno scambio di opinioni avuto tempo prima su Facebook con Luca Pardi – per chi non lo sapesse, il presidente della sezione italiana di ASPO (associazione per lo studio del picco del petrolio). Lamentandomi della capacità del business as usual (BAU) di compiere disastri anche ricorrendo a tecnologie potenzialmente positive sul piano ecologico, Pardi replicava che una buona fetta dell’élite ha già compreso la limitatezza del BAU, un commento che mi ha stupito non poco, provenendo oltretutto da una persona molto più simile a Cassandra (l’inascoltata profetessa delle sventure imminenti) che a Polly Anna (la ragazzina che anche nelle disgrazie vedeva sempre il lato positivo delle cose).

Ora invece capisco meglio il suo pensiero: la parte più illuminata e lungimirante del ‘sistema’ (non riesco a trovare parola migliore) ha fatto proprie molte riflessioni dei suoi contestatori. L’opera di Gallegati rientra perfettamente in questa importante revisione concettuale, dunque non deve stupire più di tanto che derivi da un genuino epigono di John Maynard Keynes, ossia l’uomo le cui idee sono state fondamentali per salvare il capitalismo liberale dalla grave crisi degli anni Trenta. Il contributo di Gallegati, così come quello di Fabris, va salutato come una buona notizia e allo stesso tempo va valutato per quello che è, ossia una rivoluzione conservatrice nel senso gramsciano dell’espressione, con tutti i limiti che ciò comporta. Il titolo provocatorio “Acrescita: la decrescita è morta, lunga vita alla decrescita!” si riferisce alla constatazione che, in qualità di decrescenti, portare avanti una classica campagna di sensibilizzazione incentrata quasi esclusivamente sul motto “è impossibile una crescita infinita in un mondo finito” potrebbe presto provocare conseguenze molto diverse da quelle a cui eravamo abituati nel recente passato. Le medesime persone che, a quelle parole, prima reagivano disgustate quasi si inneggiasse all’incesto, ora potrebbero limitarsi a esibire un sorriso compassionevole replicando: “Ma certo, lo sappiamo già, noi infatti sosteniamo la acrescita/postcrescita, abbiamo dato un risvolto scientifico alla vostre intuizioni ingenue basate sul semplice buonsenso e la lettura non troppo attenta di alcuni studiosi. Avete altro da dire prima di tornare ad autoprodurvi lo yogurth? Ah, abbiamo provato anche noi a farlo, è facile ed è buono, avevate ragione. Adesso scusate ma dobbiamo analizzare l’andamento borsistico dell’economia circolare e spartirci i dividendi della nostra impresa di turbine eoliche”.

Ecco quindi la necessità di chiudere questo articolo con una critica, costruttiva ma pungente, nei confronti di Acrescita. I seri, preparati e sinceri riformatori del sistema, come Gallegati, rischiano di proporre soluzioni che, per quanto efficaci sulla carta, cozzino contro le logiche intrinseche e imprescindibili del sistema stesso. Ad esempio: siamo tutti d’accordo sul fatto che il PIL sia un pessimo indicatore di benessere (persino alcuni acerrimi nemici della decrescita lo riconoscono!), ma siamo altrettanto sicuri che si tratti di un parametro poi così ‘sbagliato’? La sua inossidabile persistenza si deve solamente al carattere autoreferenziale e pseudoscientifico del pensiero economico mainstream (per altro opportunamente denunciato nel libro)? Non è forse più probabile che, essendo la crescita una condizione necessaria del sistema per la preservazione della gerarchizzazione sociale (“la crescita è in fuzione della disuguaglianza” – Baudrillard), in quest’ottica il PIL non rappresenti invece un indicatore eccezionalmente efficace per ‘loro’? Le politiche autenticamente keynesiane, quelle del boom economico e dei ‘trenta gloriosi’, permisero alle fasce sociali più basse di migliorare il proprio reddito monetario di X e a quelle superiori di X+Y: è proponibile nella logica sistemica un’operazione come quella avanzata da Gallegati, una riduzione della disuguaglianza senza crescita, dove la povertà viene combattuta diminuendo il reddito dei più ricchi?

Forse no, la decrescita non è ancora morta. Ma per assicurarle davvero una lunga vita bisogna trovare la capacità di andare oltre il proprio naso, proprio come Gallegati è stato capace di fare nel suo ambito.

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

9 Commenti

    • Ringrazio ovviamente il prof. Gallegati per il solerte feedback. Consapevole della difficoltà di iniziare uno scambio tramite la piattaforma commenti, però sarei curioso di chiedere una cosa: se le sembra che le sue idee, eterodosse per l’ambito accademico dell’economia, negli ultimi tempi ottengano un po’ più di attenzione (non foss’altro per la paura della ‘stagnazione secolare’, come l’ha chiamata Summers) oppure se si sente la classica mosca bianca.

      • un po’ “mosca bianca”
        ma l’economia dominante è morta. non lo dico io ma Godel coi suoi teoremi contro i sistemi assiomatici. e non a caso tutti i teorici dell’equilibrio generale (quello del liberismo) da Arrow a Hahn a Debreu, lo hanno abbandonato.
        se possiamo, usiamo il tu?

        • Nessun problema ovviamente per il tu, anzi ringrazio! Allora passami la battuta: l’economia dominante è morta ma… gliel’hanno detto che è schiattata o si aggira ancora come zombie per le facoltà di economia? 🙂 Seriamente invece: ritieni che, al di là dei manuali di macroeconoia, un discorso come quello di Summers sulla ‘stagnazione secolare’ (prima suggestione che mi viene in mente) rappresenti un’incrinatura per aprire uno squarcio di realismo anche dove hanno dominato le teorie fondate sulla crescita economica continua? Pensi che tra una decina di anni i testi di Daly (o Gallegati, perché no) potrebbero diventare imprescindibili nei corsi di economia o che comunque parlare di economia dello stato stazionario (lascio volutamente fuori la decrescita dal discorso) non sia visto come un’eresia?

          • cambieranno le cose? non sarà semplice. nn ci arrenderemo. ma occorre cambiare modo di vivere, uscire da schemi logori e logoranti. inventarci un futuro possibile. che sia sostenibile da tutti gli abitanti del pianeta

  1. Grazie Igor della recensione, da mio punto di osservazione posso dire che molte aree apicali del sistema sono ben consapevoli della situazione e ben consapevoli del fatto che nel modello economico attuale non ci sono soluzioni (e per questo bloccati e spesso letteralmente paralizzati e terrorizzati). Su fatto che la decrescita sia inevitabile (che si voglia pronunciare o meno il termine) c’è molta chiarezza (e fatta in questo modo non è certo “felice”), sennò non si farebbero incontri al Consiglio d’Europa su “come evitiamo la guerra civile qui da noi”. Il termine “resilienza” compare ormai in ogni documento strategico ad ogni livello e anche per questo c’è il suo perché.

    La situazione nuova è che ora in molti strati del sistema la consapevolezza è molto più diffusa, siamo molto vicini a un tipping point definitivo, ma subiamo ancora gli effetti dell’inerzia e dalla resistenza al cambiamento. Mentre però in precedenza la resistenza era una resistenza da guerra di trincea, ora è una resistenza dinamica, moltissimi sono pronti a cambiare posizione (multinazionali dell’orrore comprese), ma mancano le prospettive. Ci siamo concentrati molto sul combattere i cattivi, non sul trovare per loro percorsi evolutivi. Quella è un’area dove c’è un grande spazio e molte delle risorse disponibili sono in quelle mani e servono per aggiustare tutto ciò che si può ancora aggiustare e adattarsi a tutto quello che non si può più aggiustare.

    Le cose andranno avanti molto velocemente d’ora in poi, un aspetto molto critico è però il ritardo dei sistemi di formazione, continuo avere richieste di persone che vorrebbero educarsi al pensiero sistemico, ragazzi che sono figli di imprenditori e che chiedono dove potrebbero imparare a gestire un’azienda secondo principi nuovi, ma l’Università italiana è immobile (salvo qualche caso specifico in cui ci si prova) e anche all’estero, dove a volte le cose vanno un po’ meglio, nessuno è ancora riuscito a fare dei percorsi trasversali davvero completi.

    I percorsi sistemici non possono essere collocati nemmeno nei bandi di formazione classici finanziati dall’Europa, molti che lavorano in quel settore hanno chiesto aiuto più volte per fare “cose che servono invece del solito corsificio”, ma la realtà è che i bandi non consentono i cambi d’approccio che servirebbero. Ancora oggi, se vuoi cercare di fare qualcosa di utile, devi fare finta di fare altro per avere il minimo indispensabile delle risorse necessarie (e spesso nemmeno quelle).

    Ora come mai è importante vincere le nostre paure, rimane davvero poco tempo e ogni piccola spinta è fondamentale. Non ho letto il libro di Gallegati e quindi mi limito a un commento sul titolo: sembra davvero dettato dalla paura di pronunciare la parola, comprensibile, ma non adatta ai tempi che stiamo vivendo (magari scelta dell’editore, non so). Il mio invito a lui e ad altri è: date una mano in questo. Evidenziate la necessità di introdurre nel sistema i concetti nuovi che abbiamo marginalizzato perché non funzionali fino ad oggi. Voi stessi, venite ad aggiornarvi da chi sta facendo tanto lavoro sul campo a tanti livelli con risultati davvero apprezzabili. Mettiamo almeno un po’ di accademia al servizio di una reale evoluzione della funzione economica. Il momento è ora… non credo ci sia più alcun margine di attesa.

    • Ciao Cristiano,
      dopo Acrescita mi sono messo a leggere La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, e devo dire che e le tue riflessioni me lo hanno fatto venire subito in mente. Un paradigma scientifico si dovrebbe sostituire a un altro, ma la ‘scienza normale’ ha alle spalle il più grosso apparato di potere che la storia umana ricordi, quindi le cose non sono poi così semplici.

  2. “Il nostro Pil ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel PIL – se giudichiamo gli USA in base ad esso – comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, ed i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini.Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”. Bob Kennedy, 18/03/1968
    Per questo poi nacque il PIL PPA (corretto per potere di acquisto, di cui mi resi conto quando ero in Cina, circa 10 anni fa, quando un collega ospedaliero mi invitò a cena a casa sua e scoprii che pur guadagnando 1/10 di me, aveva un tenore di vita superiore al mio) e il PIL PPA Pro capite. La differenza è chiara: un Paese come l’Italia, che litigava con la G.B. per il 7° (se ricordo bene) posto al mondo precipitava vicino al 30° e si vedeva superare da piccole economie come Irlanda, Islanda, Finlandia e più di recente dalla Corea del Sud.
    Le dispute teoriche, filosofiche o anche di grandi economisti su come cambiare il mondo mi fanno tornare in mente i primi tempi della mia “militanza” gandhiana, quando pensavo che il grande erroe di Gandhi è stato … l’Ashram. Si, insomma, per me le cose che si teorizzano vanno vissute nel quotidiano, in un condominio, il più possibile popoloso e malfamato, così ti rendi conto se la tua teoria ha qualche possibilità di avere successo, cioè diventare pratica.
    Con tutto il rispetto per i professori ma finchè avremo nazioni dove il 75% della spesa sanitaria è dovuto alle malattie del benessere (come l’Italia) e gli economisti non vanno oltre la proposta della piena occupazione grazie, anche, alla riduzione dell’orario di lavoro forse non riusciremo a risolvere i problemi della nostra epoca, come i grandi flussi migratori, che andranno peggiorando.
    Se gli economisti continueranno a guardare il proprio orticello e non vedranno alcuna relazione fra le malattie del benessere e le masse di migranti, sarà del tutto inutile che le organizzazioni mondiali sfornano incicatori migliori del PIL, come l’Indice di Sviluppo Umano (ISU). Che ne direste se si prende il Primo Stato al mondo per ISU, la Norvegia, e lo si gemella con l’ultimo, il Niger? Che ne direste se invece di chiudere le frontiere ai migranti, si creano strutture di accoglienza che facciano formazione e quindi i migranti si costruiscano le loro case, i loro villaggi producendo una mentalità organizzativa che può costituire un valore aggiunto, specialmente se domani tornano nei loro Paesi? Magari usando per i campi la pompa a padali di Pollack?
    Forse qualche economista vede tutti gli appalti che perderemmo noi o i futuri concorrenti che potrebbero nascere?

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