I suicidi causati dalla crisi economica fanno notizia; molto più di quelli per un amore finito, o per la vita infame in un carcere italiano. Suscitano anche maggiore compassione. Ma che cosa spinge chi si ritrova senza lavoro a compiere un gesto estremo? La paura di un futuro incerto? La minaccia della povertà? La vergogna di non avere più un posto nella società?
Perdere il lavoro è una tragedia quando tutti i messaggi che riceviamo ne sottolineano l’importanza, la centralità nelle nostre vite. A cominciare dalla nostra Costituzione, che lo pone a fondamento della Repubblica (1).
Perdere il lavoro è una questione molto seria quando ci identifichiamo con esso e lo consideriamo il principale elemento che ci caratterizza agli occhi degli altri. Allora, se viene meno, con lui se ne va la nostra parte più importante, e la crisi d’identità è dietro l’angolo.
Perdere il lavoro è gravissimo quando – come dice Pallante – lo si fa coincidere riduttivamente con “occupazione”, cioè con “posto di lavoro”, sottovalutando o ignorando quello non remunerato economicamente. Ovvero tutte le attività che non sono fonte visibile di reddito: quelle di gestione, accudimento e cura in ambito domestico/familiare (svolte prevalentemente dalle donne), quelle di volontariato, quelle basate sul dono e la reciprocità.
La disoccupazione è un vero dramma per chi non sa fare più nulla, a parte il proprio lavoro, sicché – sottolinea ancora Pallante – deve acquistare tutto.
E’ un grosso problema anche per chi non ha parenti, amici, vicini con cui scambiare oggetti e servizi: per chi non può godere del supporto di una comunità.
Perdere il lavoro, infine, è terribile per chi ha sempre immediatamente trasformato le entrate in uscite, il reddito in consumo. Sotto la spinta – denuncia Latouche – della pubblicità e del credito: due potentissimi fattori che portano a sviluppare una spropositata dipendenza dal denaro per soddisfare crescenti “bisogni”, o come tali percepiti, anche se tutt’altro che indispensabili.
Quanti soldi servano per vivere è una questione molto soggettiva. Il limite tra bisogni essenziali e superflui non è così definito, ma varia a seconda del contesto geografico e culturale. La maggior parte degli Italiani – scommetto – considera “valori non negoziabili” il telefonino, l’automobile, i venti gradi in casa (quando sono solo venti…) E le varie forme di dipendenza (fumo, alcol, droghe, farmaci, gioco…) dimostrano come ognuno abbia la sua idea di ciò a cui non sarebbe mai disposto a rinunciare.
Tuttavia, anche concordando sulla definizione di “bisogni essenziali”, la quantità di denaro necessaria per soddisfarli è conseguenza di scelte personali.
Per vivere, bisogna anzitutto nutrirsi, ma il relativo costo dipende dall’acquisto di “materie prime” oppure di cibi pronti, dalla quantità di alimenti di origine animale nella dieta, dalla parziale autoproduzione di ciò che si mangia, da quanto si getta via sotto forma di “avanzi”.
Il bilancio familiare è poi fortemente influenzato dal luogo (città, piccolo comune, campagna, con relativa accessibilità) e dalla casa in cui si abita (in particolare la coibentazione e l’autoproduzione energetica), dal numero dei figli, da quanto/come/quale automobile si usa, dal saper prevenire le malattie anziché curarle, da quanto si fanno durare gli oggetti.
Prendiamo ad esempio abiti e scarpe: ci vogliono anni di uso intenso per usurarli, a meno che non si comprino già rotti come avviene paradossalmente oggi. Se si sostituiscono tanto velocemente, è dunque perché ci si stanca presto di portarli. La moda – si sa – cambia a ogni stagione, e buona parte della gente sembra tenerne conto. Altrettanta attenzione alla stagione, invece, non pare influenzare le scelte alimentari: perciò ci si può sentire imbarazzati a indossare un vestito fuori moda, ma non a mangiare tutto l’anno la medesima frutta e verdura.
Per non soccombere alla schiavitù della moda, ci sono due strade. La prima è ignorarla, se la propria autostima è sufficiente a fugare sensi di inadeguatezza e complessi d’inferiorità. La seconda è conservare i vestiti negli armadi, perché tanto le mode ciclicamente ritornano, sia pure con piccole varianti, finalizzate proprio a smascherare gli eventuali capi attempati e ben tenuti!
Un altro esempio, sempre a proposito di durata degli oggetti, è offerto dai giorni di pioggia, in cui abbondano gli ombrelli rotti e abbandonati ovunque. Questo la dice lunga sulla loro qualità media, ma anche sulla scarsa attitudine generale alle riparazioni, se persino a me – che di mestiere non faccio l’ombrellaio – sono bastati cinque minuti di ago e filo, oppure una piccola vite, per risuscitare alcuni di quelli trovati in giro.
Socrate andava al mercato per ricordare quante fossero le cose di cui non aveva bisogno(2). A me fa lo stesso effetto la pubblicità. Quando non la fuggo, infastidita dalla sua invadenza, mi fa un po’ pena, coi suoi sforzi patetici di farmi apparire desiderabile ciò per cui non provo il minimo interesse. Purtroppo è così onnipresente che non ci facciamo più caso, abituati alla sua molestia come alla bruttezza delle periferie urbane, o degli alberi deformati da potature dissennate.
Ma ci rendiamo conto di quanto siamo manipolati? E di quanto l’ossessione per il denaro abbia deteriorato le nostre coscienze e i rapporti interpersonali? In pratica, di come stia distruggendo la nostra società? Provate a contare le volte che – in un giorno – sentite nominare la parola “euro”…
Gli Italiani si impoveriscono sempre più, martellano i media. Finiamo per lasciarci convincere che vivere con meno di mille euro al mese sia impossibile, o perlomeno da “sfigati”. Non importa che un “povero relativo” – come evidenzia Pallante – possa avere una qualità di vita superiore a quella di una persona con un reddito ben più consistente. E’ una questione di scelte: ormai l’abbiamo capito.
Qualcuno obietterà che mille euro al mese, in una città come Milano o Roma, non bastano neanche per l’affitto. Già, a Milano o Roma. E almeno il 70% delle famiglie italiane vive in una casa di proprietà…
Ad essere critici nei confronti del denaro e del lavoro, si rischia di passare per idealisti, o per privilegiati cinici e un po’ snob, soprattutto se si ha un posto fisso e non si deve mantenere una famiglia. Può darsi che io lo sia. Ma la prossima volta che andate al supermercato, sbirciate nei carrelli in coda alle casse.
(1) Come già evidenziato in un post di Rosanna Napoli, pubblicato su questo blog il 21/4/13.
(2) Cito dall’ottimo libro: “Ufficio di scollocamento”, di S. Perotti e P. Ermani, ed. Chiarelettere, 2012.
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Trovo questo articolo molto rispondente alla situazione attuale ma lancio solo un quesito per far riflettere: se non esistessero i suicidi per colpa della crisi? Se fossero suicidi e basta? Se il gesto eclatante del darsi fuoco avesse una radice psicologica diversa della situazione economica? Può essere uno tanto ignorante al punto tale da non sapere che se ha una cartella esattoriale e si suicida, lascia il debito ai figli e alla moglie? Non è come in India che il debito si estingue con la morte del debitore e le multinazionali con il monopolio delle sementi modificate hanno ridotto al suicidio dei poveri contadini per salvare la famiglia da un raccolto mancato…qui si tratta di gente che è vero che aveva dei problemi di soldi ma al mondo,esistono milioni e milioni di poveri e non è che le strade sono illuminate da fiaccole umane per fortuna e carità del cielo! Quelle persone si sarebbero suicidate lo stesso per altri motivi..può essere? Trovo che sia pericoloso scrivere ‘suicidi per la crisi’…non crede?
Concordo: solo che si toglie la vita può conoscere le ragioni profonde del proprio gesto. Ho parlato di “suicidi causati dalla crisi economica” perché così li definiscono i media, col rischio di strumentalizzarli. Forse, per maggiore chiarezza, avrei dovuto porre la frase tra virgolette. Posso immaginare quale disperazione colga chi perde improvvisamente il proprio lavoro (o continui a non trovarlo dopo lunghe ricerche), ma nel mio post ho tentato di individuare alcune delle attuali condizioni che determinano un tale stato d’animo, e di conseguenza anche come potrebbe essere forse attenuato assumendo un diverso atteggiamento mentale e stile di vita. Un cordiale saluto.
Dio Onnipotente!
Allora c’è qualcuno che ha cervello, che vede le cose e riesce a raccontarle in modo semplice, chiaro, attraente, da giornalista!
Grazie mille! Perlomeno ci provo… 🙂
Non posso che concordare. E grazie per la citazione. Ti riferivi chiaramente a questo
http://www.decrescita.com/news/lincubo-peggiore/
rosanna napoli