Smart cities e transition towns: due modelli di città a confronto

1
3930

transition-townL’idea di smart city si è andata diffondendo sempre più capillarmente negli ultimi anni, e attualmente sono numerose le iniziative a livello italiano ed europeo che fanno riferimento a tale concetto al fine di fornire, per le più disparate realtà urbane, risposte efficienti alle sfide del cambiamento climatico, del picco del petrolio e delle numerose altre questioni che a queste ultime sono connesse. Lo studio e l’implementazione di modelli efficaci di smart city ha coinvolto discipline molto diverse tra loro – dall’urbanistica all’ingegneria, dalla sociologia urbana alla scienza politica, passando per l’economia e la geografia – , il tutto nella consapevolezza che un approccio multidisciplinare rappresenti, in considerazione della complessità del funzionamento delle città contemporanee e della natura multidimensionale dei problemi che in esse vanno affrontati, la via di gran lunga migliore.

Il lavoro è stato facilitato dall’emergere di realtà che incarnano già in buona parte quell’idea: città come Stoccolma, Amsterdam, Friburgo e Malaga, solo per fare esempi di grandi metropoli, stanno tutte ottenendo buoni risultati in relazione alle sfide di lungo termine a cui si è accennato sopra, ognuna con le sue peculiarità specifiche dettate dalla propria storia, organizzazione e contesto di riferimento.

Una definizione piuttosto condivisa di smart city è quella proposta dal Forumpa 2010 (convegno sulle smart city tenutosi a Roma), secondo cui i criteri principali che identificano una città smart sarebbero cinque:

  1. Mobilità.
    Una città smart è una città in cui gli spostamenti sono agevoli, che garantisce una buona disponibilità di trasporto pubblico innovativo e sostenibile e che promuove l’uso di mezzi a basso impatto ecologico.

  2. Ambiente.
    Una città smart promuove uno sviluppo sostenibile che ha come paradigmi la riduzione dell’ammontare dei rifiuti, la differenziazione della loro raccolta, la loro valorizzazione economica; la riduzione drastica delle emissioni di gas serra tramite la limitazione del traffico privato, l’ottimizzazione delle emissioni industriali, la razionalizzazione dell’edilizia così da abbattere l’impatto del riscaldamento e della climatizzazione; la razionalizzazione dell’illuminazione pubblica; la promozione, protezione e gestione del verde pubblico; lo sviluppo urbanistico basato sul “risparmio di suolo”, la bonifica delle aree dismesse.

  3. Turismo e cultura.
    Una città smart promuove una buona immagine turistica con una presenza intelligente sul web; virtualizza il proprio patrimonio culturale e le proprie tradizioni e le restituisce in rete come “bene comune” per i propri cittadini e i propri visitatori; usa tecniche avanzate per creare percorsi e “mappature” tematiche della città e per renderle facilmente fruibili; promuove un’offerta coordinata ed intelligente della propria offerta turistica in internet; offre ai turisti un facile accesso alla rete dei servizi online in linea con le loro esigenze.

  4. Economia della conoscenza e tolleranza.
    Una città smart è un luogo di apprendimento continuo che promuove percorsi formativi profilati sulle necessità di ciascuno; una città smart offre un ambiente adeguato alla creatività e la promuove incentivando le innovazioni e le sperimentazioni nell’arte, nella cultura, nello spettacolo; si percepisce e si rappresenta come un laboratorio di nuove idee; privilegia la costruzione di una rete di reti non gerarchica, ma inclusiva, in cui i vari portatori di interesse e le loro comunità possano avere cittadinanza e voce; sviluppa alleanze con le università, ma anche con le agenzie formative informali; dà spazio alla libera conoscenza e privilegia tutte le forme in cui il sapere è libero e diffuso.

  5. Trasformazioni urbane per la qualità della vita.
    Una città smart ha una visione strategica del proprio sviluppo e sa definire in base a queste scelte e linee di azione; considera centrale la manutenzione del suo patrimonio immobiliare e la sua efficiente gestione e usa tecnologie avanzate per questo obiettivo; fonda la propria crescita sul rispetto della sua storia e della sua identità e privilegia in questo senso il riuso e la valorizzazione dell’esistente in un rinnovamento che si basa sulla conservazione; nel suo sviluppo fisico crea le condizioni per promuovere la coesione e l’inclusione sociale ed elimina le barriere che ne impediscono la sua completa accessibilità per tutti i cittadini [1].

Dalla definizione riportata, saltano subito all’occhio alcune delle affinità e divergenze con il progetto delle città in transizione (transition towns in inglese), avviato nel Regno Unito all’inizio degli anni 2000 e ormai diffusosi a diversi altri paesi, fra i quali l’Italia (celebre è il caso di Monteveglio, in provincia di Bologna).

Fra le affinità troviamo sicuramente la convinzione condivisa che le sfide globali e locali che le città si trovano a dover fronteggiare necessitino di nuovi modelli urbani più sostenibili, efficienti ed equi. Gran parte di quanto riportato nella definizione dei “cinque pilastri” di una smart city può essere esteso anche al concetto di transition town, ma i due concetti non sono completamente sovrapponibili, così come non lo sono le pratiche che ne derivano.

Vediamo alcune linee di distinzione:

  1. Il modello socio-economico di riferimento

    Mentre il progetto smart city si inserisce a pieno nel modello socioeconomico della crescita continua, e semmai cerca di limitarne gli effetti nefasti sull’ambiente e sugli stock di risorse, il progetto transition town rigetta in gran parte tale modello, avvicinandosi alle idee della teoria della decrescita felice; questo per via dell’adozione di una serie di assunti espliciti ed impliciti, fra i quali ne ricordiamo due centrali:

  • La convinzione che una crescita infinita del PIL non sia sostenibile in virtù del secondo principio della termodinamica (come dimostrato da Nicolas Georgescu-Roegen) [2].

  • La convinzione che tale crescita, a prescindere dalla sua insostenibilità ecologica, non apporti necessariamente un maggiore benessere alle persone [3].

  1. Fattori economici VS fattori socioculturali

    Proprio in virtù del modello socio-economico di riferimento, e nonostante il coinvolgimento di una pluralità di saperi specializzati, il criterio di analisi e progettazione centrale nel progetto smart city resta quello economico, utilizzato di volta in volta nella definizione dei modelli di sviluppo urbano, nell’elaborazione di cambiamenti nelle strutture di welfare, nell’ideazione di politiche pubbliche efficienti e così via.

    Il progetto transition town focalizza altresì la sua attenzione prevalentemente sugli aspetti socio-culturali e relazionali, in vista della creazione di una città-società orientata al perseguimento di obiettivi comuni; questo ci collega direttamente al punto 3.

  1. Approccio top-down VS approccio bottom-up

    La progettazione di una smart city (o, più spesso, la trasformazione di una città in smart city) è generalmente coordinata dall’alto da parte dell’amministrazione comunale e/o provinciale e regionale, coadiuvata da un pool di esperti di varie provenienze (ingegneri, economisti, esperti di politiche pubbliche), il che consente una forte integrazione delle varie componenti dell’organizzazione cittadina (a livello tecnologico, istituzionale e logistico) e la creazione di una città efficiente (dal punto di vista energetico ma non solo) e interconnessa. In tutto questo il coinvolgimento dei cittadini è tenuto generalmente nella massima considerazione e viene incentivato, ma rimane necessariamente limitato a causa del sapere altamente tecnico necessario alla comprensione e alla gestione di gran parte delle innovazioni apportate all’organizzazione cittadina.

    Al contrario, la progettazione di una transition town poggia in larga misura sulla nascita di reti attive di cittadini, ha origine direttamente dalla cittadinanza e cerca solo in un secondo momento di coinvolgere/influenzare la politica locale. Al centro del progetto non vi è un sapere marcatamente tecnico, bensì la messa in atto di buone pratiche quotidiane da parte dei cittadini, l’adozione volontaria di stili di vita più sostenibili e la cooperazione fra persone, anche estranee fra loro, attraverso la creazione di reti di solidarietà che si attivano per il bene della città. Se quindi da un lato il progetto di una città in transizione è generalmente meno coordinato e pianificato, dall’altro è più democratico e partecipato.

Va sottolineato che nella realtà non esistono spartiacque netti, e in entrambi i casi (ma specialmente nel caso delle smart cities, entro il quale alcuni fanno addirittura rientrare il progetto delle transition towns) si assiste a idee e implementazioni anche molto diverse fra loro, per via delle caratteristiche specifiche dei casi a cui si applicano i modelli, nonché delle scelte di volta in volta adottate dagli stakeholders locali.

Non è dunque da escludersi la possibilità di una convergenza dei due modelli nella pratica, il che consentirebbe forse di compensare i limiti di entrambi: buone pratiche dal basso, in coordinamento con amministrazioni specializzate e dotate di una coerente visione di lungo termine, potrebbero agevolare il cammino verso risposte efficaci alle sfide ineludibili che le città contemporanee si trovano di fronte.

note:

1. “Atlante delle smart cities, modelli di sviluppo sostenibili per città e territori”, E. R. Sanseverino, R. R. Sanseverino e V. Vaccaro, Franco Angeli Editore, 2012.

2. “The entropy law and the economic process”, N. Georgescu-Roegen, Harvard University Press, 1971

3. In riferimento all’equazione I=PAT (cfr. mio articolo precedente), si può inoltre notare che mentre l’approccio Smart City tende a porre la propria enfasi sulla T (technology) dell’equazione, nella convinzione implicita che ciò possa essere sufficiente a conseguire un decoupling assoluto o quantomeno ad aumentare drasticamente il decoupling relativo (fra crescita economica e impatto antropico), l’approccio transition towns, pur non rinunciando a riconoscere l’apporto potenziale dell’innovazione tecnologica al fine di ridurre I, suggerisce al tempo stesso di incidere sui consumi superflui (A, da affluence), nella convinzione, già accennata nel testo, che oltre un certo livello di consumo un’ulteriore unità di consumo possa non solo non apportare maggiore benessere, ma addirittura diminuirlo (paradosso di Easterlin).

Fonte immagine: http://www.imperialbulldog.com/wp-content/uploads/2013/03/transition-town.jpg
CONDIVIDI
Articolo precedenteLe regole del risparmio – Consiglio nr. 18
Articolo successivoLa Mamma in scatoletta
Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

1 commento

  1. Ad Agosto ho partecipato alla summer school di ENoLL, la rete di living lab per la creazione di smart city . Sono tornato ieri dalla prima Transition Fest'(a) della rete italiana per le transition town.
    2 approcci completamente differenti, difficile pensare che possano comunicare, anche se sarebbe molto utile che lo facessero. Mi piacerebbe scrivere un report sul confronto fra le due, spero di farlo appena avrò tempo

Lascia un commento

Inserisci il tuo commento
Inserisci qui il tuo nome

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.