Società decrescente e sistema economico: questioni aperte e prospettive

2
2249

r4ixNpsZIxO166L20bASznCyXBeddCv9XtGM-IhXbl0“[un sistema economico è] una forma particolare di economia, cioè una determinata organizzazione della vita economica nel cui ambito regna una determinata mentalità economica e si applica una determinata tecnica” Werner Sombart (testo fra parentesi mio)

Prima di procedere nella lettura di quanto segue rimando alla prima parte dell’articolo, che ne costituisce la premessa.

In questa sede non intendo avanzare soluzioni bensì problematizzare alcune questioni, mettendo in luce la criticità di scelte e azioni che talvolta sono date per scontate nella letteratura ormai vastissima sulla decrescita.

Una prima domanda che ci si deve porre, qualora si voglia delineare un quadro macrosociale non banale delle prospettive di cambiamento possibili, è la seguente: una società decrescente necessita la presenza di una “mentalità decrescente” egemone per realizzarsi? E cosa si deve intendere per “mentalità decrescente”? E ancora: occorre rinunciare all’individualismo e alla razionalità strumentale, o quanto meno limitarli, al fine di ottenere la realizzazione di una società della decrescita? E un’alternativa auspicabile come dovrebbe configurarsi: nella forma di un collettivismo volontario, come una convivenza fra quest’ultimo e il vecchio individualismo (eventualmente depurato delle sue componenti più inefficienti dal punto di vista ecologico), oppure esistono soluzioni migliori? E queste soluzioni in quale misura dovrebbero essere coordinate dall’alto, e da chi (classe politica, associazioni della società civile, aziende che sposano una visione “verde” dell’economia)? Queste domande – solo apparentemente banali – riguardano il primo punto della definizione di Sombart di sistema economico.

Per quanto riguarda il secondo punto – l’organizzazione economica – ci si deve chiedere innanzitutto se una società decrescente debba rinunciare, o quantomeno limitare, il libero mercato delle merci e dei servizi, o al contrario renderlo più sostenibile. Occorre cioè decidere se il trade-off debba essere fra libero mercato e ambiente oppure il problema non riguardi piuttosto alcune dimensioni specifiche del primo (ad esempio l’entità degli scambi, l’impatto ecologico del sistema dei trasporti, la pubblicità e il marketing che creano bisogni fittizi alimentando un consumismo ipertrofico ecc.). In secondo luogo di quale tipo di sistema finanziario dovrebbe dotarsi una tale organizzazione dell’economia (posto che quello attuale non sembri dare buoni frutti neppure nel contesto dell’economia della crescita)? In terzo luogo quale dovrebbe essere il tipo di organizzazione politica (o, al plurale, di organizzazioni, in una possibile ottica iper-federalista)? Quest’ultima dovrebbe affidarsi ad un’organizzazione delle scelte interamente basata su criteri democratici (e, nel caso, di che tipo di democrazia: rappresentativa, diretta, deliberativa o una commistione fra due o più di queste?), oppure andrebbero elaborate norme specifiche con la funzione di consentire la messa in atto di scelte impopolari qualora fini “più alti” lo impongano (ad esempio quando in gioco ci fosse la preservazione dell’integrità degli ecosistemi o la tutela delle generazioni future)? Quest’ultima questione, se da un lato si ricollega alle problematiche legate alla mentalità economica, e in particolare all’importanza (qualora si voglia rimanere in ambito democratico) di una mentalità decrescente egemone (che andrebbe comunque meglio definita), dall’altro fa sorgere la necessità di una maggiore esplicitazione dei criteri che dovrebbero legittimare in un tale contesto l’adozione di scelte impopolari; questi criteri potrebbero rifarsi infatti a differenti teorie della giustizia, con diverse possibili gerarchie di importanza al cui vertice potrebbero a seconda dei casi trovarsi criteri differenti: il focus può essere sull’equità (e qui un ulteriore problema: equità per chi? Per gli esseri umani o anche per gli altri esseri viventi?), sull’efficienza (in termini economici o anche in termini di sfruttamento delle risorse), sulla tutela dell’ambiente (qualità dell’ambiente e tutela degli ecosistemi e della biodiversità) o su altro ancora. Questi criteri si incrociano poi con la questione del grado di importanza da attribuirsi alla dimensione diacronica; ciò conduce al sorgere di ulteriori interrogativi circa la tutela delle generazioni future (equità per gli esseri umani e più in generale per gli esseri viventi, ma anche livello di benessere medio minimo tollerabile), la sostenibilità sul lungo termine della struttura economica (efficienza e resilienza) e la tutela degli ecosistemi e della biodiversità sul medio-lungo periodo.

Anche l’ultimo punto della definizione di Sombart – la tecnica – solleva diverse questioni, a cominciare dal rapporto fra innovazione tecnologica e organizzazione economica. Qui si concentra una delle grandi sfide legate al passaggio verso una società della decrescita, ovvero il mantenimento di un equilibrio fra innovazione tecnologica, decrescita dei consumi materiali (o crescita nulla) e occupazione [1]. Occorre al tempo stesso resistere a possibili derive neoluddiste e investire nell’efficienza energetica, cosa che può essere fatta più o meno facilmente a seconda del tipo di organizzazione economica di riferimento. Non si tratta dunque solo di sviluppare tecnologie sempre più efficienti, ma di scegliere in che modo utilizzarle e verso quale (o quali) fini.

Infine è necessario riflettere sul coordinamento fra i tre livelli di azione: culturale (mentalità economica), politico-economico (organizzazione economica) e tecnologico-innovativo (tecnica). Il quesito centrale è “su quale livello occorre agire prima?”, il che comporta anche la possibilità teorica di agire sui tre livelli contemporaneamente. La risposta a tale domanda è ovviamente solo marginalmente determinata da una semplice scelta che valuti i pro e i contro della questione, essendo pesantemente condizionata  dal tipo e dell’entità dei mezzi a disposizione nonché dal livello di coordinamento delle azioni possibile alla luce del grado di condivisione degli obiettivi.

note:

1. Per una sua disamina parziale rimando al libro di Tim Jackson “Prosperità senza crescita”, e al mio saggio (attualmente in corso di redazione e revisione) “La trappola della crescita”.

 

CONDIVIDI
Articolo precedenteDalla parte degli immigrati
Articolo successivoMadama Pubblicità
Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

2 Commenti

  1. Attori e strategie
    Penso che bisogna farsi la domanda su chi possano essere gli attori e quali le strategie di un futuro cambiamento. Un suggerimento che faccio è di non vedere la storia procedere in modo lineare (nel medioevo la contrapposizione era fra la nobiltà e il clero da una parte e la servitù della gleba dall’altra: alla fine del ‘700 in Francia l’ancien regime fu battuto dalla borghesia, che era vissuta ai margini di quelle due grandi “aggregazioni “ sociali!!)
    Prendendo a riferimento le società sviluppate di cui “noi” facciamo parte penso che ci sia un attore interno e uno esterno (espongo pur sempre una prospettiva semplificata!).
    L’attore interno è rappresentato dai giovani, che sempre più sono precari, sottopagati e con scarse prospettive di un miglioramento delle loro condizioni di vita. E’ da loro e dalle loro strategie (che non saranno certamente quelle sperimentate in passato) che potrà venire un impulso al cambiamento.
    L’attore esterno penso che debbano considerarsi tutte quelle aree del mondo che da questi rapporti economici internazionali vedono un pericolo al miglioramento (o all’ ulteriore peggioramento) delle loro condizioni di vita. In queste aree del mondo i paesi che potrebbero giocare un ruolo importante penso possano essere quelli dotati di materie prime e altre risorse naturali.
    Poi c’è il problema delle strategie ma per affrontarlo sarebbero necessarie delle trattazioni molto approfondite. Faccio solamente un accenno a quelle che potrebbero essere le strategie dell’attore interno: penso che queste potrebbero consistere in un attacco alle reti fisiche (stradali, ferroviarie, elettriche, telecomunicazioni, ecc.) piuttosto che in manifestazioni di piazza con eventuali scontri con le forze dell’ordine.
    Armando

  2. Sicuramente il libero mercato non può essere applicato per ridurre l’impatto entropico, pensiamo al sistema europeo dei crediti di emissione di anidride carbonica previsto da Trattato di Kyoto – definito da alcuni economisti con il termine inquietante di libera contrattazione del diritto ad inquinare – sistema che si è dimostrato concretamente inefficace, il meccanismo prevede che chi “immette” meno di quanto sia autorizzato a fare trasforma la differenza in un credito che può essere venduto a chi intende superare la propria soglia di CO2. Per quanto riguarda il rapporto tra individualismo e decrescita felice non credo ci possa essere un punto di incontro mentre c’e’ sempre stato un stretto rapporto tra economia di sussistenza e convivialità senso del dono, reciprocità. Ciao Francesco

Lascia un commento

Inserisci il tuo commento
Inserisci qui il tuo nome

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.