Un modello economico, un modello cognitivo

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In un modello economico dove la domanda è schiava dell’offerta; dove la produzione ha perso lo scopo di soddisfare i bisogni e ne produce di nuovi, attraverso le campagne pubblicitarie e il marketing; dove rompere una lampadina fa girare l’economia perché poi l’elettricista viene a ripararla; dove il verbo consumare ha sostituito il verbo utilizzare, e perfino i rapporti sessuali si “consumano”; dove un cellulare perfettamente funzionante viene accantonato perché è uscita una nuova versione, le cui funzioni innovative, di cui forse neppure verrò mai a conoscenza, non utilizzerò comunque; dove il tempo libero non si vive ma si spende, magari in uno dei molti centri commerciali prodotti in serie in città tutte uguali, per annientare la fantasia con l’omologazione; dove infine l’accezione economica di povertà ha assorbito tutte le altre. In un modello del genere, il modello di un’epoca, concetti come consumo, crescita e progresso plasmano le nostre prospettive. Quelli di democrazia, libertà e individualismo ci inducono a credere che siamo noi a plasmarle. E forse ciò è in parte vero. Ora però vi devo lasciare, sto consumando troppa energia e il tempo che avevo da spendere per questo articolo è terminato. Bella cosa il linguaggio, vi si può ravvisare riflesso il subconscio di un intero popolo.

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Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

6 Commenti

  1. sante parole federico! ti ringrazio per aver diffuso questa tua chiara analisi, ti prego di parlarne a tutti anche nella vita reale, l’unico antidoto a questo modello economico è la presa di coscienza di un numero sempre maggiore di persone.

  2. Ti ringrazio per il complimento. Ovviamente ne parlo anche nella vita reale e anzi sto scrivendo una tesi di laurea su un argomento affine.
    L’unica via per la decrescita percorribile senza immolare sulla strada la democrazia è proprio la decolonizzazione dell’immaginario. Via non violenta, ma tutt’altro che facile.

  3. Ma più di tutto condivido e mi interessa l’ultima cosa che affermi: l’unica via possibile senza sacrificare la democrazia è la decolonizzazione dell’immaginario. Questo è il punto, ne sono sempre più convinto. Il che vuol dire trasformare il linguaggio quotidiano, e non solo quello verbale, anche quello visivo, e penso a quanto ci sarebbe da mettere in discussione nel mondo televisivo e pubblicitario in particolare.
    Se la tesi sarà su questo devo dire che mi interesserebbe molto conoscerla.

  4. La tesi in realtà è incentrata sullo sviluppo di una serie di criteri per l’analisi delle politiche.
    Più che a Latouche, che è il teorico della decrescita che parla più esplicitamente di “decolonizzazione dell’immaginario”, mi riferisco nella tesi alle idee di Georgescu-Roegen, oltre che agli approcci delle capacità sviluppati da A. Sen e M. Nussbaum; questi ultimi tra l’altro sono molto criticati da Latouche, in particolare nel suo ultimo libro (“come si esce dalla società dei consumi”).
    Dopo averla discussa ho intenzione di modificarla e ampliarla, integrandola anche con alcune delle intuizioni di Latouche e Illich, per poi distribuirla tramite internet, magari anche su questo sito.

  5. Io sono daccordo, tesi fantastiche, il problema è che in questa società io ci vivo. Ho amici, relazioni,uno stile di vita. La debolezza della teoria della decrescita è la stessa debolezza della teoria neoclassica.Non considerano l’uomo, le sue debolezze. Aderire allo modello di sviluppo proposto da Roegen significa desocializzarsi. Cambiare improvvisamente modo di vestire, di spostarsi, di lavorare, di vivere, significa isolarsi,almeno temporaneamnte, almeno fino a quando non troverai un nuovo universo relazionale, ma tutti hanno paura della solitudine. Gli uomini sono vittime delle loro stesse debolezze.L’economia contemporanea preme sugli istinti e sulle paure, detta un ordine difficile da scardinare.Una nuova civilità, quando la ragione dominerà la paura e l’istinto, è il traguardo dell’umanità.La questione è come si arriverà a questo traguardo,sarà la natura, con le sue leggi, a precipitare gli uomini in nuovo dimensione, o sarà la consapevolezza che guiderà passo dopo passo l’uomo verso un nuovo mondo? Temo che sarà la natura a presentarci il conto, a sbatterci in faccia i limiti della nostra umanità.

  6. Anche io ci vivo. Ci viviamo tutti. La debolezza della proposta della decrescita è insita soprattutto nella debolezza dell’uomo, sono d’accordo. Però se la transizione è graduale non c’è rischio di isolamento, né di perdere le proprie relazioni; di cambiarle forse, ma non di rimanere soli. Già ora non siamo in pochi a pensare che questa transizione sia necessaria: un gruppo può anche essere isolato, ma gli individui che lo compongono possono sorreggersi a vicenda. Però se la “rivoluzione” dolce della decrescita prevedesse una società formata da Buddha per essere realizzata, tanto varrebbe lasciare perdere. Forse la cosa più probabile è che sempre più persone prenderanno coscienza che una società diversa è non solo possibile ma necessaria, e questa presa di coscienza sarà sicuramente facilitata dalle ripercussioni sempre più violente che le azioni dell’Uomo stanno avendo sugli ecosistemi e di conseguenza sugli esseri umani. O forse, come dici tu, sarà la natura, e a quel punto sarà o decrescita o barbarie. Ma fosse anche un’utopia, non vale la pena provarci?

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