Da questa crisi non usciremo!

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Il titolo di questo intervento potrà sembrare lugubre e malaugurante, ma voglio precisare subito che l’ipotesi negativa è rapportata al quadro di riferimento in cui si muovono oggi la nostra economia, quella europea e quella mondiale, per meglio dire quella del mondo occidentale. Se il modello continua ad essere lo stesso, ovvero quello di una crescita costante basata sulla ripresa dei consumi e conseguentemente della produzione e dell’occupazione, con relativa ripresa della domanda aggregata di merci e di beni e relativa ripresa della crescita del PIL, cioè se ci si aspetta che passata la tempesta ci si rimetta sulla strada che ci ha portato alla crisi attuale, magari accontentandosi di qualche blando intervento ispirato a politiche Keynesiane, tanto per provare a porre qualche timido correttivo agli eccessi del neoliberismo imperante, temo che andremo incontro a cocenti disillusioni e che sprecheremo l’ennesima occasione per cambiare rotta e provare a costruire un’ipotesi di speranza.

Vorrei cominciare con un’analisi inevitabilmente sintetica e limitata del perché di questa crisi, l’ennesima nella storia del capitalismo moderno. Quelli che seguono sono spunti, ciascuno può approfondire come crede.

A seguito della grande depressione, detta anche crisi del 1929 o crollo di Wall Street, l’economista John Kenneth Galbraith individuava almeno cinque fattori di debolezza nell’economia americana responsabili della crisi:
– cattiva distribuzione del reddito;
– cattiva struttura, o cattiva gestione delle aziende industriali e finanziarie;
– cattiva struttura del sistema bancario;
– eccesso di prestiti a carattere speculativo (Margin);
– errata scienza economica (perseguimento ossessivo del pareggio di bilancio e quindi assenza di intervento statale considerato un fattore penalizzante per l’economia).
Non occorre essere delle linci per notare che questi argomenti, mutatis mutandis, si adattano perfettamente anche all’attuale situazione.
La forbice del reddito è andata progressivamente allargandosi, grandi ricchezze sono concentrate in poche mani, un numero crescente di individui e famiglie è entrato nella zona rossa che prelude alla povertà.
Le aziende finanziarie, le banche in primis, hanno perseguito nell’ultimo decennio la scellerata politica della speculazione finanziaria basata più su strumenti virtualii (opzioni, futures, derivati, warrant) che sull’economia reale.
Sulla disinvoltura con cui le banche d’investimento hanno sorvolato sulle doverose richieste d’integrazione della copertura di rischio (i così detti Margin Call che hanno dato lo spunto anche al bel film di J.C. Chandor del 2011, film che fa luce sulle origini cella crisi americana del 2007, ovvero quella che ha contagiato tutto il mondo occidentale e nella cui palude siamo tutt’ora immersi) non c’è tempo di dilungarsi. Valga soltanto la considerazione che dal ’29 ad oggi il lupo ha cambiato il pelo ma non il vizio.

Come fu possibile per gli Stati Uniti uscire dalla crisi del ’29? Sono state scritte su questo migliaia di pagine. Stringendo all’osso potremmo dire che il New Deal Roosveltiano fu possibile grazie all’adozione di politiche Keynesiane che favorirono gli investimenti, il lavoro, la circolazione del denaro e quindi la ripresa dei consumi. Bisogna però doverosamente aggiungere che all’epoca l’immaginario collettivo era ancora fortemente proteso verso uno standard di benessere che rappresentava un traguardo logico e desiderabile per la maggior parte della popolazione e che l’industria americana agiva praticamente in regime di monopolio, essendo ancora lontanissimi i tempi della concorrenza da parte dei mercati asiatici.
Sul piano delle conseguenze socio-politiche per gli altri paesi coinvolti dalla crisi vorrei solo sottolineare che in Germania la conseguenza fu la creazione di centinaia di migliaia di disoccupati che finirono per contribuire alla base di consenso del nazismo, mentre il Giappone si risollevò soprattutto grazie alla ripresa della politica imperialista nei confronti della Cina, andando a precostiruire una delle ragioni a monte della seconda guerra mondiale.

Facciamo ora un notevole salto in avanti.
“L’economia italiana sta oggi attraversando una delle crisi più gravi vissute nel corso di questo secolo; questo fenomeno è registrato con un senso di disorientamento tanto più drammatico in quanto per ora non esistono segni di inversione di tendenza, e in quanto appare sempre più evidente l’incapacità delle autorità governative di intervenire efficacemente e di garantire la occupazione e il benessere dei cittadini.”
Se pensate che il virgolettato si riferisca alla situazione attuale siete fuori strada. Sono parole scritte nel 1975 e contenute in un eccellente breve saggio di Dario Velo, che analizzava la crisi economica italiana del ’75 (invito tutti a leggerlo per intero a questo link http://www.thefederalist.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=896&lang=it ).
L’autore del saggio è un convinto europeista, non limitandosi al traguardo di un’unione europea economica
(al momento di scrivere il saggio, tra l’altro esisteva già la C.E.E. ed erano già cadute le barriere doganali, ma non esisteva ancora l’unità monetaria, arrivata poi con l’euro). Anzi, con intuito e preveggenza, ammoniva che solo un’Europa politicamente unita avrebbe potuto contrastare la crisi e permettere la risoluzione dei problemi dei singoli stati. Velo era senza mezzi termini per la creazione di uno stato federale europeo, capace di redistribuire le risorse, finanziare lo sviluppo delle aree sottosviluppate, costituire un reale punto di riferimento nei confronti delle altre potenze mondiali (Stati Uniti in primis) sia sotto il profilo economico che sotto il profilo politico.
Mi soffermo particolarmente su questa sua visione, certamente condivisibile oggi più che mai, purché l’Europa tutta si incammini sulla strada di una riproposizione radicale delle idee di sviluppo, di democrazia dal basso, di abbandono di qualunque politica economica ispirata al neoliberismo, di salvaguardia dell’ambiente, di ricerca e sviluppo delle fonti energetiche alternative. Ma su questo torneremo.

E veniamo finalmente alla crisi attuale. Abbiamo già visto come sia nata in America. La scintilla che ha dato fuoco alle polveri viene individuata di solito nell’eccesso di mutui e prestiti subprime, elargiti a soggetti tendenzialmente insolventi. Per inciso subprime sta per “di serie b” e questa forma di credito, proprio perché a rischio maggiore, viene data con tassi di interesse più elevati. Con una specie di effetto domino questa crisi, che ha origini finanziarie, si è estesa a macchia d’olio a tutta l’economia americana prima e mondiale dopo, generando, cito in ordine sparso, fallimenti, disoccupazione, recessione, contrazione del PIL, contrazione della domanda e quindi dei consumi, tutto ciò in una spirale autorigenerante.
Va capito innanzitutto che questa crisi, subprime a parte, è figlia diretta della deregulation economica, del prevalere della finanza speculativa sull’economia reale, delle politiche economiche ispirate ad un neoliberismo sfrenato, spregiudicato e ben oltre le teorie liberiste di Milton Friedman e della scuola di Chicago. A chi volesse documentarsi su tutto il veleno insito nel neoliberismo imperante nell’ultimo decennio, consiglio la lettura del bel saggio di Naomi Klein “Shock Economy” del 2007.
Quando si mette al primo posto nella scala di valori l’ottimizzazione del profitto non c’è più spazio per nessuna forma di rispetto, né dell’uomo, né dell’ambiente. Non c’è più spazio per la lungimiranza, non si vede più il danno irreversibile che sta dietro l’angolo.
A questa crisi le economie occidentali stanno cercando di dare risposta in vario modo, fin’ora con scarso successo. Sembra per lo più di essere in un vicolo cieco. Per far ripartire i consumi con manovre Keynesiane occorrerebbero investimenti massicci che stridono con i pesanti bilanci statali. I privati non possono a loro volta investire perché l’accesso al credito è ridotto ai minimi termini. Inoltre niente e nessuno può garantire la ripresa di una domanda, né interna né estera, sia per via della concorrenza dei paesi (Cina, India, Sud-Est asiatico) a basso costo di manodopera, sia perché è subentrata una sfiducia crescente sul futuro (mi sembra il minimo !) e come è noto chi vede nero non spende.

Infine due parole sulla situazione italiana. Quanto male vadano le cose per noi (Stato e cittadini) ce lo sentiamo ripetere ormai come un leit motif da tutti i notiziari. Il paese è in recessione, la disoccupazione è in aumento, il PIL è in calo, il debito pubblico ha toccato i 1900 miliardi di euro, ovvero il 120% della ricchezza prodotta dal nostro paese in un anno. Siamo a rischio ingovernabilità, non abbiamo ancora intrapreso la strada di riforme strutturali capaci da un lato di abbassare la spesa (per es. abolizione delle provincie, dimezzamento del numero dei parlamentari, abolizione del finanziamento pubblico ai partiti), dall’altro di creare posti di lavoro. In una situazione oggettivamente drammatica si moltiplicano gli auspici, da destra e da sinistra, a una ripartenza della crescita. Per il raggiungimento di questo obbiettivo le proposte sono varie e tra loro in contrasto. C’è chi parla di riduzione della pressione fiscale, chi di investimenti ingenti da parte dello Stato nelle grandi opere, chi di una patrimoniale a carico dei redditi più alti, chi di vendita massiccia del patrimonio pubblico. Siamo palesemente in confusione e in stallo.
Quello che vorrei sottolineare con forza è che da questa crisi non si esce senza un ribaltamento di orizzonte, senza una nuova visione del mondo e del futuro che cambi l’ordine delle priorità.
Per uscire dal vago farò tre esempi legati alle emergenze economiche e ambientali del nostro paese.
Industria automobilistica. Non si devono produrre nuovi modelli a benzina. Bisogna incentivare la produzione e la circolazione di veicoli a metano di fascia media. Bisogna favorire la riconversione a metano o GPL del maggior numero possibile dei veicoli circolanti. Bisogna aumentare la possibilità di rifornimento del metano su tutta la rete stradale nazionale e soprattutto su tutte le autostrade (attualmente del tutto sprovviste di stazioni attrezzate).
Al tempo stesso bisogna incentivare il trasporto di uomini e di merci su rotaia e quindi farla finita col progetto TAV e dirottare tutti gli investimenti previsti sul potenziamento delle reti ferroviarie locali e dei collegamenti interregionali.
Edilizia. Non si devono costruire nuove abitazioni, siamo anche troppo cementificati ! Bisogna incentivare in ogni modo la ristrutturazione dell’esistente rendendo le nostre case, anche quelle vecchie di decine di anni, efficienti dal punto di vista della coibentazione termica, recuperando su paesi, come la Germania e l’Austria, che questo lo stanno già facendo da tempo.
Territorio. Assumiamo tutto il personale che occorre (la domanda di lavoro non manca) per il riassetto del nostro territorio, valli, fiumi, coste, foreste. Ogni alluvione, ogni cedimento, ogni esondazione costa milioni di euro alla comunità !
Sono solo 3 esempi di possibili percorsi per creare occupazione e tentare una rinascita.
E’ chiaro a tutti, credo, che hanno bisogno di una volontà politica a monte, condivisa dalla maggioranza dei cittadini.
E’ altrettanto chiaro, spero, che questa non può essere una via nazionale per l’uscita dalla crisi, ma una strada da percorrere con l’Europa tutta.
Cominciamo però a fare la nostra parte subito, senza attendismi e senza alibi.

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Avevo 60 anni quando ho cominciato a collaborare a questo blog, ora qualcuno in più. Mi occupo prevalentemente di musica, ma anche di informatica e di grafica web. La mia è una formazione umanistica (liceo classico, Scienze Politiche, Sociologia). Ho collaborato a lungo all'informazione e alla produzione di trasmissioni cultural-musicali di una nota emittente bolognese. Conosco il pensiero e le opere di Serge Latouche ed ho cominciato ad interessarmi con passione e continuità ai temi della decrescita dopo la lettura di "Entropia" di Jeremy Rifkin (10 anni fa). Vorrei contribuire, nel mio piccolo, ad arricchire queste tematiche e a dare una speranza soprattutto alle nuove generazioni.

3 Commenti

  1. Condivido in pieno nella sostanza l’analisi della crisi
    come presentata da Danilo Tomasetta. Concordo
    sull’idea, di cui ognuno di noi ha evidenza empirica diretta
    sotto gli occhi, che cercare correttivi o palliativi all’interno
    del quadro esistente non puo` in alcun modo invertire la tendenza allo stallo, per ora, e al collasso, nel prossimo futuro. Occorre un new deal, che non puo` che essere a livelllo planetario, perche` la sovrapopolazione del pianeta e l’esaurimento delle risorse vitali lo richiedono senza alternativa alcuna. E` un fatto fisico. L’dea che lo sviluppo globale, inteso come aumento di produzione e consumo di beni da parte di tutta la popolazione del pianeta, sia la via per il benessere e` definitivamente tramontato, perché impedito dal II principio della termodinamica: l’energia totale U e` costante, quindi, per aumentare l’energia libera F – cioe` quella fruibile per la vita – non resta che diminuire l’entropia S e/o la temperatura T, e cioe`, lo spreco, il disordine, il consumo, la combustione. In una formula U=F-TS.

  2. Sottoscrivo tutto. Gli esempi che fai di attività sensate nell’ottica di ripartenza dell’economia senza aumentare glli sprechi sono chiarificatrici. Solo un appunto che magari puzza di keynes. La revisione della spesa di cui si fa un gran parlare, nei termini in cui viene pensata dai governi non è affatto auspicabile. Intanto non è un problema realmente economico ma semmai morale. In soldoni se licenzi diecimila bidelli inutili non fai altro che creare diecimila disoccupati che anziché essere un carico per lo stato diventano un carico per le famigle di appartenenza e l’economia non ne trova alcun beneficio. Certo sarebbe meglio pagare le stesse persone per fare attività piu utili. Io francamente non capisco più se la classe politica che non attua proposte come quelle che fai in fondo all’articolo, sia una massa di persone banalmente stupide, oppure incompetenti o peggio asservite a poteri occulti. Forse è un mix di queste tre cose.

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