Fino a qualche giorno fa, il nome di Esselunga era associato a una maxi evasione fiscale stimata in 221 milioni di euro e a gravissime forme di sfruttamento dei lavoratori. Veramente difficile risollevare il nome dell’azienda in una simile situazione, ma gli esperti di marketing della nota catena di supermercati hanno giocato un jolly che, nell’era dei social media e delle guerre virtuali guelfi vs ghibellini, funziona praticamente al 100%: creare una situazione ‘controversa’ in modo da gettare fumo negli occhi parlando d’altro.
Da quando è stato trasmesso il famigerato spot della pesca e della famiglia divorziata, Esselunga è diventata per taluni una pericolosa istigatrice del fascismo da denunciare urbi et orbi (della serie: non impariamo mai nulla dal caso Vannacci e più in generale da chi vuole sfruttare l’hate watching per darsi visibilità); per altri una coraggiosa azienda che si batte “contro la mercificazione della famiglia tradizionale” (sic! Dei supermercati contro la mercificazione!) e ovviamente Salvini non poteva esimersi da una delle sue solite pantomime. Nel frattempo si sprecano analisi socio-cinematografiche per questo cortometraggio neanche fosse un kolossal alla Oppenheimer.
Siccome fatico a trovare parole, sconfortato da come si finisca sempre vittime degli stessi bassi mezzucci, lascio la conclusione a Miriam Corongiu, contadina già autrice per DFSN:
“La pesca, il conformismo inconsapevole e il primo caporale. Poco da fare: quando si esce fuori dal modello di famiglia tradizionale sul modello del Mulino Bianco, si entra nello spazio dello scandalo. E dell’ipocrisia necessaria ad alimentarlo. Una pesca. O una mela. Simboli di ciò che ci sembra, nonostante tutto, inaccettabile, fuori dagli schemi, non conforme alla linea dettata dal potere. Lo scandalo, però, c’è davvero: è la Grande Distribuzione. Il primo caporale. Il primo termine di sfruttamento. E non c’è, purtroppo, nemmeno bisogno di scomodare Esselunga quando abbiamo fior di esempi vicinissimi a noi”.
“