SVB e la tecnologia che non salva

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Sembra di tornare indietro di quindici anni, precisamente al 15 settembre 2008 quando, tra lo stupore generale (la banca godeva del rating ‘A’) , Lehman Brothers chiese di avvalersi delle procedure fallimentari. Certo oggi, dopo la grande crisi deflagrata allora e poi ulteriormente alimentata dalle cause più svariate (pandemia, invasione dell’Ucraina, ecc.) i fallimenti della Silicon Valley Bank (SVB) e della Signature Bank, in confronto, fanno meno rumore.

Anche in questo caso, chi avrebbe dovuto vigilare sulla salute di questi colossi finanziari non ha presagito il disastro. A differenza del CEO di SVB che, quando si dice la fortuna, meno di due settimane prima del crac aveva venduto azioni dell’istituto per un valore di 3,6 milioni di dollari. Scrive Luca Ciarrocca sul Fatto Quotidiano:

La verità è che dei 9 trilioni di dollari ed euro elargiti da Bce e Federal Reserve dal 2015 in poi, neanche una briciola è andata a dipendenti, lavoratori e piccole aziende. Il diluvio di liquidità dei banchieri centrali è finito nelle tasche di pochi privilegiati: banche come SVB o piattaforme di criptovalute come FTX (ambedue fallite), multinazionali e mega imprese, la grande finanza globale. Il risultato di troppi anni di irresponsabile ZIRP (zero interest rate policy) di marca Fed e Bce? Bolle finanziarie immense. Capitalismo al suo peggio. Alimentatore di sé stesso, nel ruolo di scommettitore e banco del casinò. Una finta partita di giro senza pari.

Tutto giustissimo, a patto però di specificare che il capitalismo giunto allo scontro con i limiti dello sviluppo può solo comportarsi in questa maniera: se in tempi di alta crescita esercita un certo grado di ‘effetto cascata’ verso il basso, in epoca di vacche oramai marcescenti si trasforma invece in una formidabile pompa che drena denaro dalle tasche di chi ne ha poco per metterne in quelle di chi ne possiede già tanto.

Fa sicuramente un certo effetto che il fallimento, questa volta, tocchi da vicino il mondo della Silicon Valley e delle criptovalute, ossia la prima linea dell’avanguardia high-tech, ma nulla di nuovo sotto al sole, alla luce di eventi come la famosa bolla delle dot-com di fine XX secolo. Se avevamo già capito che la tecnologia non ci avrebbe salvato dalla crisi ecologica, ora pare mostrare anche la sua incapacità nel salvare il capitalismo. Chissà che i capitalisti più avveduti non ci stiano riflettendo…

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

1 commento

  1. Articolo utilissimo a capire in che acque tempestose stiamo viaggiando. In realtà dovrei scrivere stanno viaggiando, riferendomi alle mega-imprese, alle multinazionali, ai colossi della finanza… noi siamo solo i passeggeri di queste navi a rischio di repentino naufragio.
    Mi permetto solo di sottolineare il finale a mio avviso vagamente ingenuo. I capitalisti più avveduti non esistono. Forse se dipendesse solo da un’indole umana diversa e più saggia rispetto alla logica predatoria del capitalismo potrebbero anche essercene. Sarebbero figure antistoriche che identificano la prosperità della loro impresa col benessere dei dipendenti. In epoche nemmeno troppo lontane si parlava di partecipazione nel senso di un’auspicabile partecipazione dei lavoratori alle scelte imprenditoriali con tutte le conseguenze del caso, tra cui ovviamente una più equa distribuzione del profitto. In passato con voli pindarici si parlava anche di autogestione e ci si poneva il problema di come una forza antagonista, la classe operaia, potesse partecipare attivamente alle scelte produttive mantenendo la sua funzione rivoluzionaria.
    I tempi sono radicalmente cambiati. Col patto diabolico tra capitalismo e grande finanza l’idea di un capitalismo giusto e portatore di benessere generalizzato è stata soffocata definitivamente. Oggi il valore di un’impresa non ha più un corrispettivo nel sottostante, ovvero la produzione materiale, ma si basa su capitalizzazioni fasulle, sul valore presunto dei titoli emessi, sulle proiezioni degli analisti economici sulla crescita o meno del fatturato dell’impresa. Insomma un castello di carte a rischio di crollo al primo soffio avverso o se preferiamo un ingranaggio complesso e delicato che si può inceppare per un granello di sabbia. Come possiamo pretendere che un capitalismo che naviga in queste acque e con questi rischi possa realmente essere sensibile al problema ambientale ? Nella migliore delle ipotesi lo farà con la logica fraudolenta con cui fa finta attualmente di occuparsene. Quella del business della green economy, dello sviluppo sostenibile e della resilienza.

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