Ritorno al futuro — quando potremo gettare la maschera

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Prima siamo spaesati.

Usciamo con la mascherina, ci guardiamo attorno prima di incamminarci, finalmente, a strada libera, ci avviamo. Vigiliamo a destra e a sinistra, sempre guardinghi cercando di non darlo a vedere, aggiustiamo la direzione per scostarci il più possibile da chi arriva in senso opposto, facciamo zigzag, attraversiamo la via per evitare qualcuno.

Ci prepariamo al sorpasso spostandoci un passo o due lateralmente qualche metro in anticipo, poi accelerando, superiamo. Ci irritiamo in vista di una strettoia, quando un potenziale sorpasso e un’altra persona stanno per allinearsi sui lati opposti della via proprio mentre ci apprestavamo a passare. Dobbiamo allora rallentare, trovare una posizione in diagonale rispetto a entrambi e temporeggiare per non trovarci mai sulla stessa linea, perpendicolare alla strada, in mezzo ai due.

Se incontriamo due persone che camminano insieme ma a un metro l’una dall’altra in orizzontale ci innervosiamo davvero: dove dovrei passare io, in mezzo a voi? Non capite che se la strada è stretta, o vi mettete in fila indiana o state vicini? Se non vivete insieme, incontratevi in spazi più ampi, se vivete insieme evitate di uscire insieme! Ma davvero non ci arrivate da soli?

Dopo un po’ di tempo — almeno un mese — di uscite mascherate ad alto livello di guardia, cominciamo a rilassarci un poco. Un po’ per la stanchezza di dover camminare come su un sentiero minato, un po’ perché ci convinciamo che il semplice respiro altrui non è pericoloso, un po’ perché l’abitudine alla fine vince sempre, il passo diventa meno nervoso, più fluido. Acceleriamo e deceleriamo con naturalezza, cediamo il passo automaticamente, cominciamo ad avere meno paura.

Il lavoro riprende in tutte le sue forme. Gli uffici e i negozi sono ora tutti aperti. Ci organizziamo nel frequentarli. Negli ambienti chiusi manteniamo la distanza di sicurezza, se si deve interagire più da vicino usiamo schermi protettivi. Negli uffici indossiamo la mascherina se dobbiamo discutere in privato. Nei negozi entriamo in pochi per volta, a seconda dello spazio a disposizione, e aspettiamo di fuori, in fila.

Calma, calma, pazienza, pazienza.

Aspettare in fila il proprio turno, con pazienza.

Uno degli effetti della pandemia è che ci sono imposti il rallentamento, la pazienza. Dobbiamo per forza essere pazienti. Pazienti, aspettando che l’epidemia si esaurisca o, per lo meno, si riduca a livelli non più preoccupanti; pazienti, contenendo il desiderio di uscire all’aria aperta senza doversi guardare spalle e fianchi; pazienti, seguendo i nuovi ritmi delle giornate con orari dilatati, sognando un’estate normale, liberi di sciogliere, beati, i pensieri al sole e subito dopo imprecare contro il troppo caldo che, in un’estate normale, ci spingerebbe a chiuderci dentro qualche stanza con l’aria condizionata.

Rallentiamo, e questo ci aiuta a essere più pazienti. Niente più minuti da incastrare, secondo con secondo, per riempire le ore di azioni frenetiche, congrue o no che siano.

Qualcuno che di tanto in tanto perde la pazienza e sbotta c’è. Si sfoga in invettive in genere innocue, che tutt’al più creano un po’ di tensione, ma gli astanti, che hanno reimparato la calma, lasciano correre. Talvolta purtroppo le sfuriate degenerano, e questi si scatena fisicamente sulle persone più vicine e aggiunge danno al danno.

Nel complesso, però, pazienza impera. C’è di mezzo la vita, la scelta è obbligata.

Nella quiete delle azioni, troviamo a poco a poco quella dello spirito. Scopriamo il tempo di fare, pensare, essere.

Affiora così, timida dapprima, come se debba chiedere il permesso, un po’ della nostra vera natura finora camuffata e conformata, stordita dal modello impostoci di esaltazione dell’apparenza, dalla droga del dover possedere ciò che non ci serve, dal praticare ossessivamente il solo sport insegnatoci con assiduità dalla nascita, quello di accaparrarsi cose inutili, cercando di riempire il vuoto di idee e di rimediare all’incertezza dei valori con quantità esorbitanti di mediocrità e insulsaggini.

Ma ora la nostra natura emerge loquace, e cominciano così a zampillare idee.

Quelli con spirito pratico si mettono a inventare per soddisfare le esigenze del nostro nuovo stile di vita. Dalle soluzioni più semplici per la quotidianità alle più sofisticate per situazioni complesse e delicate. Le prime, le si vedono presto in giro: cappelli estivi colorati con un’ampia visiera sbilenca e trasparente che scende su naso e bocca proteggendo a doppio senso e liberando i sorrisi dalla mascherina, leggeri schermi, alcuni con disegni fantasiosi, per baristi e camerieri, da fissare al capo e abbassare sotto gli occhi, divisori in varie fogge per separare, arredando, i tavoli al ristorante, e altro ancora per poter tornare ad aggregarci.

Alcuni scoprono di trovarsi bene nella “lentezza”, prima d’ora mai davvero esercitata. La “lentezza”, infatti, si esercita. E lentezza non è mollezza, non è torpore e inerzia a cui ci abbandoniamo lasciando che si esercitino su di noi. Lentezza, in realtà, è ritmo naturale. Ritmo dei pensieri e delle sensazioni inframmezzati da momenti sospesi in cui si amalgamano i nostri moti intimi schiudendo spiragli, facendo intravedere attimi di ignoto.

Ci accorgiamo di zone scure nel mezzo di noi stessi. Ma, anziché passare oltre, come al solito, presi dalla fretta di accumulare “azioni” concrete nelle nostre giornate, ci fermiamo sull’orlo a scrutarle, ne tastiamo i bordi, proviamo a capirne la profondità, con cautela ci addentriamo. A volte perdiamo il controllo all’improvviso e ci cadiamo dentro, nell’ignoto, altre volte continuiamo ad avanzare prudenti, sempre meno timorosi e sempre più curiosi. In ogni caso, anche dopo il tonfo, una volta rassettatici, esploriamo. Cominciamo così a vedere, scopriamo dettagli, troviamo qualche pezzo insperato del nostro speciale magnifico mosaico.

Dopo lo spaesamento iniziale, quindi, ci organizziamo.

Si tratta di cambiare stile di vita. Staremo insieme e condivideremo momenti ed esperienze in modi diversi dai soliti. Dimenticheremo la confusione, dovremo imparare il rispetto. Impareremo a fare a meno del superfluo e del tutto subito, ci scopriremo appagati dall’equilibrio. Alla smisurata quantità del mediocre ingannevole che dà la sensazione di ricchezza, privilegeremo il valore—la bellezza, l’intensità, l’utilità, la bontà, l’armonia, la semplicità.

Col tempo, la novità un po’ scomoda diventerà abitudine, ci adatteremo, quasi dimenticheremo il “prima”.

Senonché, col tempo, il pericolo sparirà, e questo stile di vita, ancora nuovo rispetto a quello che l’ha preceduto durando per qualche decennio, non sarà più necessario. Torneremo a mischiarci senza paura e finalmente a fare festa insieme.

Ma che fare, a quel punto, di ciò che siamo stati e diventati nel tempo del pericolo? Buttare la mascherina e tutto l’armamentario ad essa associato di gesti e di comportamenti, riattivare immediatamente il motore a pieni giri, lasciarci in fretta alle spalle l’esperienza provante, come se il vissuto recente fosse stato un incubo da cui ci siamo risvegliati, immutati?

Saremo chiamati a una scelta.

Alcuni continueranno imperturbati nel loro ritmo innovativo, più vicino al ritmo della natura umana, della natura, e troveranno il modo di perpetuarlo, anche dopo. Stile di vita prima imposto, poi vagliato e scoperto e ora abbracciato inseparabilmente come intimamente proprio.

Molti altri, invece, si lasceranno rapidamente inglobare di nuovo, senza resistenza alcuna, nella centrifuga dell’abbondanza tanto smisurata quanto vana, e il peggio è che la saluteranno come una liberazione.

Fonte Foto: Agnese Mariotti

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Docente universitaria, divulgatrice scientifica e autrice (https://www.goodreads.com/author/show/10794700.Agnese_Mariotti). Tendo spontaneamente a ricercare un equilibrio dinamico in ogni aspetto della vita, con un alternarsi di crescita e decrescita che si alimentano a vicenda, portando all’evoluzione della mente e dello spirito umani.

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