Critica della ragione agroindustriale #9: una transizione oltre la tecnica (seconda parte)

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(Critica della ragione agroindustriale #1, #2, #3, #4, #5, #6, #7, #8)

Le alternative all’agroindustria

Concluse le dovute premesse, possiamo finalmente presentare i sistemi di coltivazione alternativi all’agroindustria. A livello mediatico, sotto la generica espressione di ‘agricoltura biologica’ si fanno ricadere pratiche tutte accomunate dal rifiuto dell’uso di input chimici ma presentanti in realtà sostanziali differenze. Ecco una breve carrellata di quelle che, nell’insieme, possiamo chiamare agricolture organiche:

  • l’agricoltura biologica propriamente detta riconosce come padre putativo Albert Howard (1873-1947), botanico britannico che, rivalutando la conoscenza contadina tradizionale alla luce delle acquisizioni delle scienze naturali, propose metodi alternativi ai ritrovati di sintesi che cominciavano a prendere piede già alla sua epoca;

  • l’agricoltura biodinamica, sorta negli anni Venti del Novecento sotto l’influsso delle teorie antroposofiche di Rudolf Steiner (1861-1925), attua un approccio fortemente olistico influenzato dall’omeopatia, dove si ritiene che le fasi lunari e altri fenomeni cosmici condizionino la crescita delle piante;

  • l’agricoltura naturale o sinergica, ideata dal giapponese Masonabu Fukuoka, rifiuta qualsiasi lavorazione del terreno a eccezione della pacciamatura ed enfatizza il ruolo della biodiversità nella crescita delle piante;

  • la permacultura, fondata da Bill Mollison (1928), rappresenta per molti versi un’evoluzione dell’agricoltura sinergica incentrata sull’idea di non limitarsi semplicemente a coltivare terreni, per studiare invece il contesto ambientale allo scopo di progettare adeguatamente veri e propri paesaggi antropizzati;

  • con l’espressione agricoltura conservativa non si intende invece un modello agricolo a sé stante quanto un insieme di tecniche tendenti a preservare la fertilità del suolo coltivato, ad esempio riducendo al minimo l’azione meccanica sul suolo, pacciamando e ruotando le colture.

E’ interessante osservare come nessuna di esse si possa bollare come ‘arcaica’ o ‘medievale’ (sono state tutte concepite nel Novecento) né come reazione alla Rivoluzione Verde (sorta successivamente).

L’agricoltura biologica si è imposta maggiormente forse perché presenta caratteristiche più simili all’agricoltura convenzionale pre e post Rivoluzione Verde, come la possibilità di intervenire con procedimenti invasivi sul terreno quali aratura e dissodamento. Ha ottenuto un riconoscimento istituzionale a livello nazionale e sovranazionale, per cui è possibile fregiarsi del marchio ‘bio’ solo conformandosi a particolari disciplinari di produzione, inserendo quindi un elemento di carattere burocratico non sempre di facile gestione.1

Tutte queste agricolture condividono l’approccio di partire dalla problematica della fertilità del terreno per giungere al rapporto con la natura. Esiste però una disciplina che si propone l’orientamento esattamente opposto, iniziare cioé dall’analisi ecologica per definire successivamente una pratica agricola.

L’avvento dell’agroecologia2

Il termine “agroecologia” è emerso per la prima volta agli inizi del XX secolo. Da allora in poi, sia la sua definizione che la sua diffusione si sono sviluppate in modo significativo. Questo percorso può essere correlato all’evoluzione delle due discipline da cui l’agroecologia deriva, agronomia e ecologia, ma è anche dovuto allo sviluppo delle conoscenze della zoologia, della botanica, della fisiologia vegetale e delle loro applicazioni agricole e ambientali.

A ricorrervi per primo fu l’agronomo russo Bensin, che suggerì il termine ‘agroecologia’ per descrivere l’uso di metodi ecologici nella ricerca sulle piante coltivate. Lo scienziato italiano Girolamo Azzi, prima cattedra in Ecologia nel 1924 a Perugia e che visitò nel 1934 in Russia il prof. Nikolai Vavilov – oggi considerato uno dei giganti della genetica agraria per avere per primo riconosciuto il ruolo dei centri di origine delle piante coltivate e a comprendere l’importanza della conservazione dell’agrobiodiversità –, definì [5,6] l’ecologia agraria come lo studio delle caratteristiche fisiche dell’ambiente, principalmente clima e suolo, in relazione allo sviluppo delle colture agrarie, guardando, ad esempio, alla qualità e alla quantità delle rese. Negli anni ’50, l’ecologista e zoologo tedesco Tischler scrisse diversi articoli in cui apparve

il termine, fino a pubblicare il primo libro intitolato proprio ‘Agroecologia’. Egli analizzò i diversi componenti dell’agroecosistema, le loro interazioni e l’impatto su di essi della gestione agricola, in ultima analisi, quindi, quanto determinato dall’intervento antropico; si tratta di un approccio che unisce nei fatti ecologia e agronomia.

Un’altra importante opera per lo sviluppo dell’agroecologia fu pubblicata negli Stati Uniti dall’agronomo Klages, che analizzò i fattori ecologici, tecnologici, socio-economici e storici che influenzano la produzione, dimostrando una visione molto più ampia di quella degli zoologi. Tuttavia, i primi scienziati che hanno introdotto l’agroecologia erano radicati nelle scienze biologiche, soprattutto la zoologia, l’agronomia e la fisiologia delle colture. È dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso al 2000 che si osserva un crescente interesse a considerare l’ecologia come chiave di lettura dei processi agricoli. Il concetto base di agroecosistema emerse dall’ecologo Odum, inquadrando gli “ecosistemi addomesticati” come intermedi tra ecosistemi naturali e artificiali. Negli anni ‘80, l’agroecologia assume un quadro concettuale distinto, che impiega metodi olistici per lo studio di agroecosistemi.

Identificando quattro principali proprietà degli agroecosistemi, quali produttività, stabilità, sostenibilità ed equità, Conway sviluppò ulteriormente il concetto. Dai primi anni ‘80, vengono avviati programmi accademici di ricerca e di formazione e pubblicati diversi libri di testo, in particolare negli Stati Uniti ma anche in Italia, dove l’Università della Tuscia (Viterbo) e di Firenze sono pionieri. Recentemente, programmi di istruzione superiore in agroecologia vengono offerti in tutto il mondo, principalmente in Sud America, Stati Uniti ed Europa.

Le numerose definizioni e descrizioni dimostrano come l’agroecologia abbia cambiato il suo ambito di studio, passando dalla scala di campo (dal 1930 al 1960) a quella aziendale, fino a quella di territorio, dagli anni ’70 al 2000. L’agroecologia viene quindi definita come un metodo per proteggere le risorse naturali, che fornisce le linee guida per progettare e gestire gli agroecosistemi sostenibili.

È nell’ultimo decennio che l’agroecologia – soprattutto come disciplina scientifica – ha conosciuto un forte cambiamento, orientando la sua attenzione su tutto il sistema alimentare, definito come una rete globale di produzione alimentare, distribuzione e consumo. In questo quadro, Gliessman la definisce come “la scienza di applicare concetti e principi ecologici per la progettazione e gestione di sistemi agro-alimentari sostenibili”.

Questa dimensione richiede un approccio multi-scala, metodi transdisciplinari e attenzione all’interazione tra le diverse componenti, tecniche e socio-economiche, del sistema. Attualmente, l’agroecologia può essere pertanto interpretata sia come una disciplina scientifica sia come un movimento politico-sociale, oltre a essere identificata con una serie di pratiche agricole (fig. 46).

Figura 46. Fonte: Barberi, Migliorni, Ciaccia (2017)

Figura 47. Fonte: Barberi, Migliorni, Ciaccia (2017)

La sfida a carte truccate delle rese produttive

E’ facile accusare l’agricoltura biologica di presentare un carattere di nicchia e ‘radical-chic’, molto più complesso è riconoscere come ciò sia il risultato inevitabile di precise scelte politiche. Senza una chiara presa di posizione per il superamento dell’agricoltura intensiva, il biologico è condannato alla condizione di gioiellino valido al massimo per ostentare buoni propositi ambientalisti, ma senza reali capacità di operare un vero cambiamento. Credere che, grazie a qualche incentivo, sia possibile competere con un modello supportato da cinquant’anni di ricerca pubblica e privata, lautamente sovvenzionato e non obbligato a risarcire per i danni che provoca, è come pensare che Davide con mani e braccia legate possa sconfiggere Golia armato di bazooka.

Quanto sono realmente inferiori le rese dell’agricoltura biologica? Il modo apparentemente più oggettivo per scoprirlo, ossia esaminare i raccolti dei vari produttori calcolando una media statisticamente sensata, è in realtà molto fuorviante, per diverse ragioni.3Innanzitutto, proprio in quanto occupanti un piccolo segmento di mercato, i coltivatori biologici tendono a privilegiare la qualità alla quantità, per cui spesso non ritengono necessario investire in soluzioni che potrebbero aumentare le rese, essendo poi in molti casi il biologico una quota minoritaria (e quindi secondaria) sul totale dei terreni coltivati dell’azienda agricola; inoltre, il 95% delle sementi impiegate sono state studiate per la somministrazione di ingenti input di prodotti chimici, senza i quali patiscono elevati cali di rendimento che si potrebbero limitare impiegando specie selezionate ad hoc.4

Ma l’aspetto in assoluto più problematico è che, mentre per l’agricoltura convenzionale esiste un corpus consolidato di conoscenze agronomiche per massimizzarne le rese ampiamente adottato dagli agricoltori, solo una percentuale esigua di coltivatori biologici applica i ritrovati più avanzati dell’agroecologia, per altro disciplina in piena evoluzione e con meno capacità di penetrazione dell’agronomia tradizionale; spesso si scimmiottano le pratiche monocolturali e intensive, tarpando le ali al potenziale produttivo.

Uno studio pubblicato nel 2012 su Nature,5operando un confronto più ponderato tra biologico e convenzionale, ha calcolato un gap inferiore alle cifre normalmente strombazzate, mediamente intorno al 25%, con differenze molto marcate a seconda delle colture (-5% legumi, -3% frutta, -11% semi di oleaginose, -26% cereali, -33% ortaggi). Altre ricerche hanno constatato che, in regime di policoltura e rotazione, il gap si riduce a una quota compresa tra il 9% e il 4% e che addirittura, utilizzando i principi dell’agricoltura conservativa, dopo una rotazione completa (quattro anni) l’arricchimento del suolo permette rese analoghe alle convenzionali (figura 48); sono stati riscontrati inoltre ottimi risultati nella tutela della biodiversità e discrete performance nel controllo dei parassiti animali e nella resistenza alla siccità, mentre il nodo più critico rimane la gestione delle erbe infestanti.6

Figura 48. Fonte: Ponisio, Ehrlich (2016)

Le potenzialità produttive rispetto alla vulgata sono quindi evidenti, bisogna fronteggiare altri problemi: per far funzionare al meglio un’agricoltura a bassi input occorrono un know-how profondamente diverso da quello della Rivoluzione Verde e sementi adatte al contesto; se nel lungo periodo, venuto meno l’impiego dei prodotto di sintesi, è conseguibile un sensibile abbattimento dei costi, nei primi 1-3 anni gli agricoltori devono mettere in conto raccolti (e conseguentemente ricavi) inferiori a quelli convenzionali; le grandi imprese del settore alimentare stanno penetrando sempre di più nel biologico riproponendo le logiche tradizionali, in particolare la richiesta di un numero ristretto di prodotti standardizzati, limitando così le tecniche di diversificazione. Occorre quindi elaborare misure opportune a livello agronomico, politico, economico e sociale per tentare una svolta epocale dell’agricoltura.

Una proposta operativa: ripartire da Daly per la riconversione agroecologica

Non è ovviamente possibile attuare un passaggio repentino dall’agroindustria all’agroecologia. Tuttavia, si può progettare un percorso graduale in direzione della sostenibilità che si proponga come meta finale l’abolizione dei prodotti di sintesi chimica e più in generale una profonda revisione del sistema alimentare. Potrebbe delinearsi nei seguenti punti:7

  • abolire gli agrocarburanti;

  • eliminare, salvo rare e circostanziate eccezioni, le coltivazioni dedicate all’alimentazione animale quando coinvolgono colture utili per la nutrizione umana;

  • perfezionare gli strumenti di stoccaggio post-raccolto, puntando su di un livello di sofisticazione tecnologica sufficientemente basso da poter essere agevolmente impiegato nelle aree più disagiate dei paesi in via di sviluppo;

  • ridurre gradualmente il peso dell’azoto e del fosforo di sintesi, ad esempio attraverso l’ampliamento della coltivazione dei legumi e dell’uso del letame;

  • applicare pratiche per il recupero di fosforo da acque reflue e allevamenti;8

  • concepire l’uso della componente inorganica come integrazione e non sostituzione di quella organica;

  • similmente a quanto avvenuto con le emissioni di anidride carbonica, organizzarsi a livello internazionale per far fronte allo sconvolgimento del ciclo dell’azoto, programmando tagli nei consumi di fertilizzanti, vagliati in base alla situazione alimentare e all’avanzamento agronomico di ciascuna nazione;

  • nei paesi dove l’estrazione di metano ha da tempo raggiunto il picco (tra cui l’Italia), cessare lo sfruttamento dei pozzi, censirli e conservarli come riserve di sicurezza per la produzione di fertilizzanti in caso di emergenza alimentare;

  • aumentare considerevolmente gli stanziamenti pubblici per gli studi agroecologici e organizzare opportune forme di partnership a livello locale, regionale, nazionale e sovranazionale tra ricerca agronomica e organizzazioni contadine;

  • attraverso opportuni tavoli di confronto con le organizzazioni contadine, snellire l’iter burocratico per il riconoscimento della certificazione biologica, studiando contemporaneamente un sistema più efficiente di vigilanza e controllo;

  • stabilire un’IVA agevolata sui prodotti organici certificati;

  • condizionare l’elargizione di incentivi e sovvenzioni solo in presenza di precisi e riscontrabili impegni in favore di pratiche di coltivazione a basso impatto;

  • elaborare un sistema di incentivi per chi avvia un progetto di agricoltura organica volto a compensare il gap iniziale con le tecniche convenzionali;

  • rendere la rotazione delle colture una prassi abituale, sia in ambito organico che convenzionale;

  • usare strumenti di lotta agli insetti e alle piante infestanti che usino metodi di coltura agronomica e preferibilmente fisici invece che chimici, favorendo il ripristino del numero di insetti volanti, specialmente impollinatori;

  • introdurre il principio secondo cui chi produce esternalità ambientali deve partecipare alle spese del risanamento, proporzionalmente al danno creato;

  • intraprendere campagne di largo respiro per l’educazione alimentare volte a ridurre il consumo di carne, creando beneficio a salute umana, integrità ambientale e benessere animale. Parallelamente andrebbe avviato un dibattito realmente costruttivo e non ideologico sui temi del vegetarianesimo, del veganesimo e dell’antispecismo;

  • attraverso opportuni interventi sui meccanismi degli scambi internazionali, salvaguardare il mercato interno di colture fondamentali come i cereali contro la concorrenza straniera;

  • vietare la brevettazione privata delle nuove specie, rendendo pubblici e disponibili i risultati più importanti ed utili;

  • vigilare sul funzionamento delle borse dei cereali e sulle speculazioni finanziarie sulle commodity alimentari, imponendo rigide regolamentazioni.

1Bisogna rispettare un disciplinare anche per il biodinamico, essendo un marchio registrato in possesso della Demeter International.

2L’intero paragrafo è tratto da Barberi, Migliorni, Ciaccia 2017

3Comportandosi così (è il caso di Savage 2015) si ottengono le rese drammaticamente inferiori rispetto al convenzionale (anche del 40-60%), ripetutamente denunciate dai contestatori del biologico.

7Trattasi di integrazione di indicazioni citate in Della Volpe 2018.

8Icardi 2015

Fonte immagine in evidenza: ideegreen

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