Per capire dove va la società italiana bisogna seguire le tracce che lascia dietro di sé il modello economico. L’Italia è un paese in bilico, tra vocazioni di media potenza e paese arretrato. Lo è, perlomeno, dalla seconda metà dell’ottocento. Se vogliamo essere pignoli, dobbiamo spostare il “paletto” della storia addirittura al tardo ‘700, quando l’Italia ha smesso di essere il punto di riferimento per la civiltà di tutto il mondo. Da metà del XIX secolo in poi, dopo l’Unità, le élite si accorgono che l’Italia è un paese rurale arretrato, quando, soprattutto nei paesi della Riforma, le classi dirigentI avevano effettuato grandi investimenti strutturali per ammodernarsi, sia nell’industria che in agricoltura. Attorno al 1880 inizia il periodo di sviluppo industriale e vedono la luce FIAT, Ansaldo, ILVA, tre aziende a bassa capitalizzazione e forte indebitamento con le banche. Questo capitalismo straccione ha da subito bisogno dello Stato. Invoca i dazi doganali a protezione delle merci, ma il sistema non riesce a difendere due eccellenze: la produzione di canapa e quella della seta (sia produzione che trasformazione in filati e tessuti), grazie alle quali l’Italia primeggiava nel mondo. Dopo la crisi del 1907 – nonché il drastico calo della domanda estera, il rincaro delle merci d’importazione – la nascente industria, per soddisfare la pretesa delle banche di onorare i debiti, operò per la rottura del patto della Triplice Alleanza con Germania ed Austria, per appoggiarsi a Francia e Inghilterra.Lo fa con una martellante propaganda, grazie alle maggiori testate giornalistiche, di cui si era garatita le proprietà. Tutti eventi che portarono prima alla neutralità, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale e poi all’ingresso nell’evento bellico. Da allora in poi, l’Italia ha sempre avuto bisogno di una “stampella” per tirare avanti: la guerra, il piano Marshall, l’inflazione competitiva della moneta…… In estrema sintesi, possiamo dire che le fasi espansive dell’economia sono state drogate da eventi esterni (le commesse di guerra, i soldi americani, le manovre monetarie), mentre le fasi recessive sono sempre state connotate da un Paese che agisce in proprio, facendo i conti con le proprie possibilità. Nelle fasi espansive si ha buona ridistribuzione della ricchezza, come emerge anche dagli studi di Stefano Fenoaltea per la Banca d’Italia; in quelle recessive, si hanno fasi di “restituzione” e concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi. Dunque l’Italia è sempre andata avanti così: a espansioni “drogate” e contrazioni quando ha camminato con le proprie gambe. Sul piano sociale, questi cicli economici sono stati caratterizzati da forti movimenti migratori. La prima migrazione iniziò nell’ultimo ventennio dell’800. La trasformazione del paese, da rurale a agricolo-industriale comportò un esubero di manodopera, di almeno il 20% della forza lavoro disponibile. Nella seconda emigrazione italiana (a ridosso degli anni ’60 del novecento) il fenomeno riguardò non piu’ le migrazioni trans-oceaniche, ma movimenti interni: dal Sud verso il Nord. Città come Sesto San Giovanni, dalla quale provengo, videro raddoppiare la popolazione nel volgere di un decennio (1960-1970), con tutti gli enormi problemi di integrazione che ne seguirono; per la verità, ben governati dalle giunte di sinistra. In questo contesto si innesta il ruolo dei partiti. L’Italia ha avuto il piu’ forte partito comunista dell’Occidente, dopo quello tedesco, annientato dal partito nazista dopo la Repubblica di Waimar. Parimenti ha avuto il piu’ importante partito di ispirazione cattolica che, per oltre un ventennio, è stato praticamente egemone dell’azione di governo. Benché questi due partiti abbiano determinato una vocazione pressochè bipolare degli orientamenti elettorali, va sottolineata, per così dire, una certa univocità pedagogica. Ai tempi non era raro sentire espressioni come: “l’operaio comunista” o “l’operaio democristiano”; in quanto essere comunisti o democristiani non era solo un fatto di opinione, ma una scelta di vita. Il comunista e il democristiano costruivano, oltre che i propri orientamenti politici, anche stili di vita coerenti col loro pensiero. Il senso di appartenenza era forte e, in larga misura, abbassava di molto la soglia critica verso la propria area di appartenenza. Nel partito si battagliava, perchè le correnti e le sensibilità sono sempre esistite, ma, verso l’esterno, si faceva quadrato, per difendere valori e modi di agire condivisi Questi grandi partiti hanno potuto affermarsi perchè irrobustiti nella Lotta di Liberazione, nelle battaglie per la ricostruzione post-bellica, nelle strategie economiche presenti nelle rispettive impostazioni politiche. La forte contrapposizione tra i due “blocchi” favorì il consolidamento di entrambi. La crisi economica dopo il 1973,viceversa, ha logorato entrambi. Si dice che a fare crollare il vecchio sistema dei partiti siano stati la caduta del muro di Berlino e “mani pulite”. Io credo che questi due eventi abbiano fatto da corollario ma che, in verità, il crollo sia avvenuto perchè sono venute meno le condizioni economico-produttive sulle cui fondamenta sorgevano questi due grandi partiti. La grande trasformazione italiana, senza volere sminuire l’importanza delle fasi precedenti, ha una svolta significativa con la guerra del Kippur e la successiva crisi dei prezzi del petrolio. Finite le politiche monetarie, sganciato il Tesoro dalla Banca d’Italia e avviate nuove dinamiche circa la spesa pubblica e le relative coperture del debito, tramite emissione di titoli di Stato, va a esaurirsi anche la stagione espansiva. Il periodo fine anni ’60 sino a oltre la metà degli anni ’70 fu all’insegna della crescita dei salari reali e della stagione dei diritti (divorzio, interruzione di gravidanza, nuovo diritto di famiglia, emancipazione della donna, statuto dei lavoratori). Tutte conquiste successivamente erose o messe in discussione: con le delocalizzazioni e precarizzazione del lavoro. I nuovi partiti, per quanto riguarda la sinistra il passaggio da PCI a PDS-DS-PD, videro la convergenza del pensiero riformista (con la crescente ostilità, da Craxi in poi, dei socialisti), con quello cattolico-popolare. Giunse, tardi e male, a compimento quel disegno che, in buona misura, ebbe come protagonisti Moro e Berlinguer. Percorso interrotto, come sappiamo, con il rapimento e uccisione dello statista democristiano, ad opera delle Brigate Rosse. Lo stragismo e la “strategia della tensione” prima e il brigatismo poi, furono le due grandi provocazioni atte a “disturbare” le manovre delle classi politiche dirigenti, tese, in qualche modo, a trovare convergenze: prima “parallele”, poi di “non sfiducia”, sino a quello che pareva un possibile discorso di unificazione, approdato poi nell’esperienza dell’Ulivo. Noi, in questo sbrigativo riassunto storico-politico, non dobbiamo perdere di vista l’economia italiana che, secondo le mie convinzioni, resta la vera chiave di lettura di tutti i processi sociali che ne sono derivati e ne derivano. Il PD arriva nel momento piu’ basso di credibilità della politica, dopo le manipolazioni mediatiche del senso comune, ad opera dell’azione berlusconiana, lungo un ventennio. Questo partito della sinistra arriva tardi e male. Arriva rinunciando, sostanzialmente, alla lotta di classe. Arriva quando ormai è spappolato e destrutturato il Movimento Operaio. Questo passaggio è cruciale, perchè tutte le conquiste degli anni ’70 sono avvenute sulla scorta della spinta di questo movimento. Con la crisi, cade questo blocco sociale e la società diventa “liquida”, per usare una espressione di Bauman. Cessa di esistere il “partito pedagogico” e si fa largo il partito d’opinione: per lo piu’ di cattiva opinione, del tutto mutevole, a seconda delle situazioni contingenti. Tutto ciò non è stato scevro da effetti. Negli anni dell’espansione dei diritti, prevalgono la socializzazione, la condivisione, il senso del bene comune, la bellezza del fare insieme. Negli anni della “restituzione”, prevalgono i semi-dei, gli egoismi, la diffidenza verso il diverso, il conflitto tra e contro gli ultimi. Il PD sceglie di abbandonare, definitivamente, la lotta di classe. Il problema non è piu’ ipotizzare strategie di superamento del capitalismo, ma quello di impostare migliori politiche socialdemocratiche di ridistribuzione ed erogazione del welfare. Il tutto, si noti, non in una fase espansiva, ma recessiva; quando alle esperienze socializzanti si sostituiscono quelle egoistiche ispirate dalle paure. Il PD nasce tardi, male e, per giunta, cagionevole di salute, in un contesto economico ben poco favorevole alle politiche espansive. Con Renzi arrivano le promesse che, in verità hanno un taglio continuistico rispetto a quelle berlusconiane, a loro volte interrotte dal breve intermezzo del Governo Monti, col quale le élite cercano di rendere piu’ realistico il quadro delle compatibilità col contesto economico e politico internazionale. Il grande errore del PD è stato quello di immaginare una rappresentanza per politiche espansive, in un momento di politiche recessive. Di conseguenza, a mio avviso, il PD si è trovato a rappresentare quel target sociale meno esposto alle conseguenze della crisi. Quella porzione di popolazione meno piegata dal bisogno e scarsezza di mezzi che ha agito da variabile dipendente, in un contesto decisamente involutivo. Cioè il partito che ha fatto dire, nel contesto di crescente qualunquismo, apparendo una spocchia di intellettuali ed espressioni elitarie di chi non sta col popolo e i suoi bisogni. Dunque il PD è diventato i partito di chi è disponibile all’impegno per estendere i diritti, quando il resto del “mondo” apparecchia agli egoismi, al mantenimento a denti stretti dei sempre piu’ angusti spazi raggiunti. La sofferenza del Paese ha dato esiti sfociati a destra, sia dai movimenti di protesta, come il Cinque Stelle, sia da quelli involuti verso palesi forme xenofobe, come la Lega; mentre il PD, in beata solitudine, ha continuato a parlare un linguaggio sempre piu’ incomprensibile per gli strati della popolazione più esposti alla crisi, i quali sapevano cogliere elettoralmente i frutti avvelenati della disgregazione sociale e della rabbia montante. A questo punto resta da capire come uscirne. Il PD è morto. Pace all’anima sua. Una sinistra che voglia ricostruirsi, non può che partire da una rigorosa analisi dello stato del Paese e, in termini realistici, delle possibilità di attuare svolte positive quanto lungimiranti. Ancora una volta, il focus va posto sull’economia. Nessuna soluzione è possibile, infatti, se non si chiariscono i possibili percorsi futuri. Le crisi economiche, e non certo da oggi, hanno esiti a destra ed espongono le società a pericolosi avventurismi, spesso tragici. Per uscire dalle attuali e persistenti criticità sistemiche occorre ripensare profondamente metodi e indirizzi. Il liberismo ha fallito. Il mercato non è in grado, come qualcuno ha teorizzato, di “regolare” e rimodellare le società apportando nuovo benessere, sia pure a prezzo di transitori sacrifici che, guarda caso, sono sempre gli stessi a pagarne i prezzi. L’idea della crescita infinita in un mondo finito, è oltre che folle, estremamente col fiato corto. Decrescere, possibilmente in modo “felice” è l’unica via: quella a minore impatto sociale e maggiore azione perequativa. E’ imperativo parlare e mettere in pratica l’economia circolare; dal tema delle risorse e il loro uso passa ogni idea di ricomposizione futura delle attuali lacerazioni. Non sono cose che si possono fare dall’oggi al domani, per cui è prevedibile che vi sarà un aggravamento della crisi economica con ricadute sociali pesantissime, con il rischio di minare la coesione e la coesistenza. Non di meno, una sinistra di volenterosi che voglia ripartire in modo illuminato non può che avere la decrescita come punto di riferimento. Riproporre ancora la vecchia e logora idea della crescita quale panacea per i mali italiani sarebbe insostenibile e una grande perdita di tempo, proprio nel momento in cui il Paese non ne ha certamente da perdere.