L’agricoltura che non sfama

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Quante volte sentiamo ripetere che, in considerazione della crescita demografica planetaria e dell’aumentato tenore di vita nei paesi in via di sviluppo, nei prossimi 20-30-50 anni occorre aumentare la produzione agricola dell’ X%? Ciò generalmente viene impiegato per giustificare un’ulteriore espansione dell’agricoltura industriale e l’implementazione su vasta scala degli OGM, il tutto condito da (ipocriti) appelli alla salvaguardia dell’ambiente grazie all’impiego delle tecniche a maggior rendimento.

Queste analisi si caratterizzano per il fatto che non mettono assolutamente in discussione il sistema alimentare attuale, come se esso non fosse perfettibile. In realtà, presenta molti elementi discutibili, non solo per quanto riguarda l’odiosa tendenza allo spreco di cibo (globalmente, ne va perduto quasi il 30%).

Esiste infatti una quota consistente di agricoltura che è destinata a usi diversi dall’alimentazione umana e sui quali occorre seriamente ragionare. Ad esempio, poco più del 40% della produzione globale di cereali è destinato a sfamare le persone, una quota quasi analoga è assegnata all’alimentazione animale:


Fonte: FAO Outlook 2017

Se si considera specificatamente il consumo di cereali a grana grossa, allora assistiamo a un netto sorpasso da parte del consumo animale:

Fonte: FAO Outlook 2017

Negli Stati Uniti, meno del 10% della produzione di mais è destinato a consumo umano:

 

Anche molti semi oleosi sono largamente impiegati nella dieta animale, come la soia.

 

Se si sommano i terreni adibiti a pascoli con le coltivazioni dedicate alla nutrizione animale e li si paragona con quelli per l’alimentazione umana, queste ultime costituiscono solo una piccola nicchia nell’agricoltura attuale:

 

Ovini e bovini sono biologicamente adatti a vivere di erba, mentre suini e polli sono onnivori. Riportare gli animali ai pascoli (in considerazione anche della loro spropositata vastità) è imprescindibile, anche perché diversi studi hanno dimostrato che gli animali allevati a cereali restituiscono sotto forma di carne, uova e latte meno cibo di quanto assumono, con conseguente enorme spreco energetico (secondo un articolo del 2003 di The American Journal of Clinical Nutrition, sei chilogrammi di proteine vegetali ne producono una animale). Ovviamente il cambiamento di pratiche si rifletterebbe sulla produzione globale di carne ma – e sto ignorando volutamente qualsiasi ragionamento etico animalista – è ampiamente provato che in una dieta sana l’apporto di proteine animali debba essere moderato. E’ importante inoltre notare che, anche immaginando una resa della coltivazione di cereali a biologico molto più molto bassa di quella convenzionale (ipotizziamo inferiore del 40%), già oggi la conversione d’uso da consumo animale a umano sarebbe sufficiente per nutrire la popolazione planetaria.

Le coltivazioni dedicate ai biocarburanti rappresentano un’altra parte del problema, anche perché incentivano spesso massicce opere di deforestazione in America latina, Africa, sud-est asiatico. Ragionando in un’ottica ecologica (tralasciando quindi considerazioni di tipo geopolitico e simili), il loro utilizzo può trovare giustificazione se, come minimo, si dimostra un impatto ambientale considerevolmente inferiore a quello dei combustibili fossili. Ricerche dell’istituto elvetico EMPA, verificando l’intera filiera delle varie fonti di biocarburanti, sono giunte alla conclusione che quelli più comunemente impiegati (derivati da colture di mais, soia, canna da zucchero e palma) inquinano di più del gasolio convenzionale a basso tenore di zolfo.

I dati forniti dalla UE sono un po’ più benevoli, ma condannano senza appello olio di palma e soia (impattanti quasi come le sporchissime sabbie bituminose) dando qualche chance a mais e canna da zucchero, i cui oneri ecologici sono comunque abbastanza rilevanti e fanno riflettere seriamente sull’opportunità di sfruttarli creando competizione con l’alimentazione umana.

In conclusione, la metafora del secchio bucato di Pallante in riferimento all’energia è forse ancora più calzante se adoperata per l’agricoltura. La mentalità produttivista, volta alla difesa del business as usual, mira a intensificare la diffusione delle pratiche agroindustriali (nonostante i dubbi che oramai attanagliano persino la FAO) e punta sulla transgenesi allo scopo di aumentare le rese per ettaro, cercando di mettere la polvere sotto il tappeto finché si può per tutelare interessi consolidati. In realtà, prima di tutto bisognerebbe analizzare le tante inefficienze del sistema alimentare globale, che sarebbe scellerato continuare a ignorare, pensando soprattutto all’aggravarsi del degrado ambientale e all’esaurimento di importanti materie prime non rinnovabili che hanno letteralmente drogato le prestazioni dell’agricoltura figlia della Rivoluzione verde. In caso contrario, ci attendono dolorosissime crisi di astinenza.

Fonte immagine in evidenza: www.sciencetrends.com

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