Curare le parole che usiamo, e ancor di più il loro senso culturale profondo, è fondamentale per uscire dalla triplice crisi attraverso un cambiamento di prospettiva desiderabile.
Senza alcun dubbio, ci sono parole che oggi vengono abusate, strumentalizzate, schiavizzate all’insegna della crescita senza tregua. Tra queste svettano sicuramente termini come: ecologico, green, ecosostenibile, biologico e via discorrendo. Questi termini sono molto pericolosi, perché difficilmente vanno ad associarsi con qualcosa che abbia davvero a che fare con relazioni armoniose e sostenibili con l’ambiente, piuttosto sono stratagemmi di marketing per trovare nuovi spazi sul mercato. Sebbene siano belle parole e con connotati di buon costume e buone intenzioni, spesso sono usate impropriamente o sfruttate per il loro fascino ammaliante e per il loro essere così in voga. Perciò, con tutto il rispetto che si può avere per queste belle parole, è bene comunque stare molto all’erta e non cadere in facili tranelli.
Alcuni termini oggi sono pericolosi perché sono usati come sinonimi e spesso confusi, come se una loro relazione, anche se non stretta e dipendente, sia sufficiente a identificarle l’una nell’altra, di modo che richiamando l’una subito associamo automaticamente l’altra. Ciò è tra le cose più tossiche della nostra crisi culturale: è la perdita del discernimento, della direzione che vogliamo intraprendere, è il non rendersi conto che esiste sempre un’alternativa.
Alcuni esempi di questi binomi oggi erroneamente considerati sinonimi sono: ricchezza-abbondanza, sobrietà-povertà, semplice-arretrato, contentarsi-insoddisfazione, sviluppo-crescita, economico-conveniente, nuovo-migliore, vecchio-superato, progresso-modernità, limite-ostacolo, bene-merce, concorrenza-competizione, ecc.
È ovvio che confondere tali termini deriva da un impoverimento culturale sostenuto dai media e dal consumo di massa e rinforzato da credenze distorte basate su verità illusorie. Tra queste detiene una posizione di rilievo l’illusione che la ricchezza sia un accumulo materiale senza limiti e quindi legata al concetto di abbondanza, ovvero di eccesso, come condizione indispensabile per la felicità e il benessere. Tale concezione non solo non prevede il senso del limite, ma lo ritiene dannoso e ostile allo sviluppo della vita stessa. L’abbondanza richiama all’eccesso e al sovrappiù, quindi ci esorta a eccedere, a non tenere in considerazione le risorse primarie, la loro propria natura, e a non rispettare la loro fragilità e finitezza. La ricchezza vista come abbondanza è una visione distorta della realtà perché tiene in considerazione solo l’aspetto quantitativo, non qualitativo, e riguarda principalmente l’aspetto materiale, delegando ad esso quello spirituale, visto più che altro come una condizione interiore di appagamento esteriore. Invece la visione della ricchezza come il livello di varietà, di diversità (come è definita in biologia), acquisisce oltre che valori quantitativi e materiali, senz’altro importanti, anche valori qualitativi, morali e spirituali: un vero e proprio valore aggiunto non visibile che accompagna e arricchisce, nel senso più vero della parola, l’uomo di una condizione interiore elevata.
Detto ciò, se pensiamo al binomio limite-ostacolo possiamo fare tantissimi esempi nella vita di tutti i giorni per capire tale ricorrente accostamento. Mai più di oggi il limite viene visto come ostacolo. Nell’antichità i limiti erano temuti, rispettati per pavidità, e solo pochi temerari e superbi osavano valicarli, come Ulisse le colonne d’Ercole. Oggigiorno invece i limiti non sono più temuti, anzi, sono considerati dei veri e propri ostacoli da valicare per far strada al progresso inarrestabile dell’Uomo, della sua illimitata capacità di dominare e controllare il suo ambiente. Tutti i limiti vengono messi in discussione, alcuni addirittura ignorati perché scomodi a tale visione positivista. Il limite per antonomasia, la morte, diventa una cosa dalla quale rifuggire, dalla quale si può e si deve tentare di allontanarsi o che si deve dominare e sconfiggere. I limiti stessi del nostro pianeta sono ostacoli, quindi barriere che si possono e si devono superare, con cieco ottimismo e forzato coraggio.
La differenza tra sobrietà e povertà o indigenza è notevole e spesso ignorata. Sobrietà non è associabile con la rinuncia, con il sacrificio o con l’autolimitazione, invero è riferita alla consapevolezza dei limiti fisici esistenti e della incapacità, superata una certa soglia, di trovare soddisfazione nell’appagamento dei soli bisogni materiali o nell’accumulo di oggetti come mezzo per realizzare se stessi e raggiungere felicità e benessere. È la consapevolezza che dentro di noi esistono illimitate potenzialità per godere di una vita piena e appagante, che oltre ai bisogni primari è necessario soddisfare e curare anche i bisogni relazionali dai quali, in ultima analisi, il nostro sostentamento dipende. In ultima analisi la sobrietà è la consapevolezza che tutto è interconnesso, che non c’è fenomeno isolato. Pensare alla sobrietà come a un ritorno alle fatiche, alle privazioni, alla scarsità di risorse significa avere una visione distorta, significa non concepire alternative, significa aver limitato il proprio senso della possibilità. Mentre la povertà è legata intimamente con lo sfruttamento, con la violenza, con il contrasto, con l’avidità, con l’ignoranza, con l’odio, la sobrietà è piuttosto relativa alla compassione, alla consapevolezza, al buon senso, all’equilibrio, all’armonia, alla saggezza.