Vanagloria ecologica agroindustriale

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Sul gruppo Facebook di MDF, un utente ha postato un articolo dell’agronomo Luigi Mariani pubblicato su Agrarian Sciences, tuonante contro l’agricoltura biologica. Leggendolo sono rimasto particolarmente colpito dai seguenti passaggi:

Bio è sostenibile sul piano ambientale: è falso poiché se con una decisione sciagurata si decidesse di elevare tali agricolture a uniche agricolture a livello mondiale il risultato sarebbe che si dovrebbero raddoppiare le terre coltivate con effetti ambientali catastrofici (addio boschi e praterie). Siamo infatti parlando di una tecnologia che produce se va bene il 50% in meno di quella convenzionale, per cui i conti sulle necessità di suolo sono presto fatti. 
Bio combatte i cambiamenti climatici: è falso. Se si fosse tradotto in legge il sogno di tutti i seguaci del bio e cioè quello di fermare le tecnologie in agricoltura a quelle in uso negli anni ‘60, per soddisfare l’aumento di domanda indotto dal passaggio dai 3 miliardi di abitanti del pianeta del 1960 agli oltre 7 miliardi odierni gli arativi sarebbero dovuti passare dagli 1,5 miliardi di ettari attuali a 3,2 miliardi di ettari e le emissioni annue del settore agricolo sarebbero salite dagli 1,4 miliardi di tonnellate di carbonio attuali a ben 6 miliardi, secondo stime effettuate da Burney et al. (2010).

Prima di entrare nel merito delle osservazioni, sono sorpreso (positivamente, ci mancherebbe) nel constatare tanta attenzione per il cambiamento climatico, dal momento che Mariani è un collaboratore del sito Climatemonitor, noto per la sua acerrima avversione alle preoccupazioni dei climatologi verso il global warming e in generale contro chi “demonizza la CO2”.*

Tralasciando ciò, è alquanto bizzarro dipingere i sostenitori dell’agroecologia come persone che “vogliono tornare agli anni Sessanta”. Lo studio segnalato da Mariani di fatto non riguarda un’analisi comparata tra agricoltura industriale e biologico, bensì delinea i miglioramenti di efficienza compiuti dalla Rivoluzione Verde dagli albori (anni Sessanta appunto) al 2005. Effettivamente, se non fossero intervenuti progressi tecnici, gli impatti ambientali sarebbero stati maggiori; c’è da rallegrarsene? Sì, nel senso che, come si dice in Romagna, “piuttosto che niente meglio piuttosto”. Si tratta però di un risultato unico nel suo genere? Assolutamente no; pur non essendo un ingegnere meccanico, mi sento di affermare  con sufficiente certezza che, mutatis mutandis, se il parco vetture attuale fosse composto da vecchie FIAT 600 e altri veicoli osboleti, la situazione dell’inquinamento atmosferico sarebbe decisamente peggiore; ma tale argomento difficilmente potrebbe essere usato come apologia dei SUV e delle auto di grossa cilindrata. Più che altro, si direbbe che agricoltura e industria automobilistica siano accomunate da un medesimo destino: lo sviluppo dell’efficienza è stato significativo nel periodo intercorso tra crisi petrolifera e primi anni Novanta, per poi andare incontro a ritorni decrescenti e plafonarsi (si veda la documentazione riportata in un altro articolo).

In ogni caso, questo ragionamento condotto all’interno dell’agroindustria non sembra  pertinente per un confronto con il biologico, la cui filiera ha uno ‘zaino ecologico’ totalmente diverso. Se passiamo al setaccio la storia produttiva dei fertilizzanti chimici, troviamo infatti un giacimento di gas (per la successiva estrazione di azoto), una miniera di fosforo e una di potassio, svariati impianti per la raffinazione e la sintesi; tutte attività che occupano territorio, consumano energia e risorse  e impattano considerevolmente sull’ambiente sotto forma di emissioni di gas serra e di altri inquinanti. Per quanto riguarda la disparità nelle rese, la prestigiosa rivista Nature presenta dati decisamente migliori di quelli di Mariani, in base ai quali mediamente la differenza a favore del metodo industriale si attesterebbe intorno al 25%. Quindi sì un minor impiego di suolo, ottenuto però tramite un pesante fardello di attività minerarie e industriali… che cosa si direbbe del proprietario di una Tesla che vantasse le qualità ecologiche della propria vettura alimentata con elettricità prodotta da una centrale a carbone?

Ora vi propongo un piccolo giochino. Leggete la prossima dichiarazione e cercate di indovinare chi l’ha pronunciata:

“And yet, I am optimistic for the future of mankind, for in all biological populations there are innate devices to adjust population growth to the carrying capacity of the environment. Undoubtedly, some such device exists in man, presumably Homo sapiens, but so far it has not asserted itself to bring into balance population growth and the carrying capacity of the environment on a worldwide scale. It would be disastrous for the species to continue to increase our human numbers madly until such innate devices take over. It is a test of the validity of sapiens as a species epithet.

Since man is potentially a rational being, however, I am confident that within the next two decades he will recognize the self-destructive course he steers along the road of irresponsible population growth and will adjust the growth rate to levels which will permit a decent standard of living for all mankind.”.

Un discorso in favore del contenimento demografico e del mantenimento dell’impronta ecologica all’interno dei vincoli planetari… chi potrebbe averlo proferito? Forse uno scienziato del Club di Roma? Paul Ehrlich, autore de La bomba demografica? O magari Georgescu Roegen, uno dei fondatori della decrescita?

Che ci crediate o no (verificate di persona eventualmente) avete appena letto uno stralcio della lectio magistralis di accettazione del premio Nobel di Norman Borlaug, niente meno che il padre della Rivoluzione Verde. Due anni prima dell’uscita de I limiti dello sviluppo, lo scienziato statunitense con queste affermazioni si dimostrava consapevole della dipendenza della sua innovazione da risorse non rinnovabili e degli inevitabili impatti sull’ambiente, una visione difficilmente compatibile con la piega successivamente presa dall’agroindustria, assurta a rimedio miracoloso per bypassare qualsiasi argine alla crescita esponenziale.

Quando Borlaug morì nel 2009, la società umana era evoluta in direzione ben diversa dalle speranze espresse il giorno del Nobel, con la popolazione praticamente raddoppiata e con un’impronta ecologica ampiamente oltre la capacità di carico. E che parabola aveva preso la sua Rivoluzione Verde? Rispetto agli esordi, la produzione era più che raddoppiata, al prezzo però di un consumo di fertilizzanti triplicato, dove i miglioramenti di efficienza, fagocitati dal dogma della massima resa, sono inevitabilmente incappati nel paradosso di Jevons.

Fonte: Burney et al. (2010)

In compenso, rispetto agli anni Settanta si sono aggiunti problemi quali il global warming, il picco del petrolio, il picco del fosforo, una produzione di gas dove la quota dello shale, ottenuta con l’impattantissima tecnica del fracking, diventa sempre più considerevole… e tanti altri.

Alla luce di tutto ciò, la Rivoluzione Verde poteva essere una buona idea se impiegata secondo gli intenti originari di Borlaug, cioé una sorta di medicina per rafforzare il sistema alimentare, anziché somministrata come una vera e propria droga per massimizzare i rendimenti. L’agricoltura industriale, per affrontare seriamente le sfide del mondo che cambia, dovrebbe accantonare la ricerca degli ennesimi exploit produttivi intraprendendo a strettissimo giro un percorso che non si limiti a semplici perfezionamenti nell’impiego di input provenienti da risorse non rinnovabili, bensì progettando un vero e proprio percorso di graduale emancipazione da essi; altrimenti, per quanto oggi possa mostrare orgogliosamente i muscoli, si condanna a non avere alcun futuro se non si dimostra capace di sbarazzarsi dei suoi effimeri agenti dopanti.

In definitiva, gli agronomi alla Mariani fanno benissimo ad analizzare i limiti di biologico, biodinamico, permacultura, ecc. purché mantengano un atteggiamento ragionevole e costruttivo, coscienti che, se l’agroindustria non dovesse invertire radicalmente e rapidamente i propri trend, sarebbero le pratiche agroecologiche a doversi accollare l’onere di sfamare il pianeta. Malgrado tutti i loro difetti, non possiamo proprio permetterci di sputarci sopra.

*A titolo di esempio, recensendo un articolo di Patrick Moore Mariani condivide l’idea dell’ecologo americano sulla necessità di aumentare (non di ridurre) le emissioni antropiche per scongiurare il rischio di una nuova era glaciale. Eccone uno stralcio: “Moore ammette poi che l’aumento della CO2 atmosferica da 280 a 400 ppmv registrato dall’inizio dell’era industriale sia dovuto in prevalenza alle emissioni antropiche. Tuttavia in tale fenomeno Moore intravede qualcosa di provvidenziale in quanto contrasta due tipi di rischio di catastrofe, uno nel breve e uno nel lungo termine. La catastrofe nel lungo termine (e cioè nei prossimi 1-2 milioni di anni) sarebbe legata all’intrappolamento in rocce carbonatiche della CO2 atmosferica che dovrebbe spingere i livelli di tale gas al di sotto di quelli minimi necessari per la fotosintesi, provocando carestie ed estinzioni in massa di specie viventi. La catastrofe nel breve termine è data dall’innesco di una nuova era glaciale, nella quale le basse temperature e i bassi livelli di CO2 metterebbero a repentaglio l’agricoltura e dunque le fonti di cibo per l’umanità e per gli ecosistemi”.

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