IL MITO DELLA TERZIARIZZAZIONE ECOLOGICA
L’ipotesi della cosiddetta ‘curva ambientale di Kuznets’ (dal nome del suo ideatore, Simon Kuznets) distingue due fasi dello sviluppo di una nazione:
– un primo momento in cui la crescita economica si basa prevalentemente sull’industria pesante, contrassegnata da un elevato inquinamento;
– un successivo periodo dove progresso tecnologico, trasformazioni dell’economia e presa di coscienza della cittadinanza riducono gradualmente l’impatto ecologico complessivo.
Superata quindi una soglia critica, inquinamento e crescita economica seguirebbero traiettorie divergenti: contrariamente alle idee della decrescita, per risanare l’ambiente bisognerebbe auspicare un incremento continuo del PIL.
La crescita economica duratura comporterebbe il graduale passaggio da una società industriale a una post-industriale o terziarizzata, dove il settore economico principale non è più l’industria ma quello legato ai servizi, basato in gran parte sugli strumenti ‘smaterializzati’ e pertanto meno impattanti dell’informatica. Come testimonianza di ciò, vengono portati i dati relativi alle emissioni di CO2 di USA e paesi europei, che sono calate dal 1990 a oggi nonostante la crescita del PIL: sarebbero la prova dell’effetto decoupling, ossia della capacità di aumentare la produttività riducendo l’input di energia e materia. Il perfezionamento continuo del decoupling dovrebbe assicurare una crescita economica sempre più in armonia con la natura.
Perché siamo di fronte a un ragionamento fuorviante? Innanzitutto, solo pochi agenti inquinanti hanno seguito realmente una traiettoria simile a quella della curva di Kuznets, i tassi di abbattimento (quando si sono effettivamente verificati) sono stati molto più contenuti. Inoltre, si tende a sottovalutare l’onere di energia e risorse per realizzare gli strumenti alla base della società dell’informazione (computer, rete Internet, ecc.), molto meno ‘smaterialiazzata’ di quanto comunemente si pensi.
Ma è soprattutto la rappresentazione del mondo che ne viene fuori a non reggere alla prova dei fatti: si ragiona come se ciascuna nazione fosse autosufficiente e autarchica. Gli stati che hanno raggiunto la fase della terziarizzazione, invece, alla tradizionale dipendenza da importazioni agricole aggiungono anche quella da prodotti dell’industria manifatturiera, delocalizzata in Cina, India e altri paesi emergenti. Che cosa accadrebbe, ad esempio, se le emissioni di CO2 dei prodotti esportati in Occidente e Giappone fossero conteggiate alle nazioni importatrici?
Salterebbe fuori che i presunti campioni dell’ecologia sono in realtà i peggiori inquinatori del pianeta.
Il modello della società terziarizzata non è generalizzabile, prevede anzi che un gruppo consistente di nazioni rimanga in uno stato di subalternità per garantire quei prodotti alimentari e industriali che la civiltà ‘più avanzata’ non riesce più a prodursi in quantità sufficiente. Alla prova dei fatti, siamo di fronte a un gigantesco trasferimento di esternalità ecologiche e sociali non giustificabile né sul piano etico né su quello ambientale.