Prossimamente pubblicherò su DFSN una serie di contributi sul tema delle sementi transgeniche, intitolata ‘OGM: il re è nudo?’, sperando di presentare dati utili per comprendere il contributo reale di tali ritrovati alla grave problematica ecologica planetaria. Prima di tutto, però, sento l’esigenza di una premessa per smarcarmi dai dibattiti più in voga sull’argomento.
Mangiare è un atto estremamente intimo e invasivo della nostra persona, sostanze esterne a noi vengono assunte all’interno dell’organismo circolando nel sangue per diventare cellule e formare organi, pelle e ossa: pertanto, non solo è naturale preoccuparsi del cibo che ingeriamo, ma è legittimo mantenere un atteggiamento diffidente verso qualsiasi spiegazione semplicistica volta a rassicurarci sulla salubrità di processi alimentari manipolanti radicalmente i principi basilari della vita organica. Tutti gli esperti del mondo possono farsi grasse risate per la paura del cibo-Frankestein, ma sarebbe molto più preoccupante il contrario, se la gente accettasse passivamente dimenticandosi di precedenti pericoli sminuiti o occultati dagli scienziati, riguardanti ad esempio la chimica di sintesi o l’energia nucleare. Sono in ballo interessi miliardari che vedono coinvolte alcune delle multinazionali più influenti del pianeta, con enormi capacità di lobbyng sulle istituzioni della politica e della ricerca, non proprio la situazione ideale per un giudizio equilibrato e imparziale.
Detto ciò, sono nauseato dai consueti spettacoli mediatici, di vedere il Dario Bressanini di turno smontare l’allarmismo di attivisti in buona fede ma rei di essersi fidati di fonti poco affidabili o di aver tratto deduzioni troppo frettolose. Tra l’altro, ammesso e non concesso che la modificazione genetica provochi disturbi sanitari, eventuali evidenze scientifiche sarebbero riscontrabili solo tra decenni, a danno oramai ampiamente compiuto, similmente a quanto capitato con l’amianto, giusto per fare un paragone; stesso discorso per le contaminazioni dalle coltivazioni transgeniche alle convenzionali. Nel frattempo, a furia di dimostrare che la fragola con la lisca di pesce è solo un fotomontaggio, di spiegare che le sementi transgeniche non sono sterili o che il cotone BT ha ricoperto un ruolo marginale nell’ondata di suicidi di contadini indiani, ecc. il rischio di creare un clima di consenso intorno agli OGM è molto elevato, perché verità parziali sono sempre preferibili a bufale o mistificazioni, per quanto suggestive e parzialmente fondate.
Eppure tutto il dibattito compierebbe un enorme salto di qualità mutando radicalmente prospettiva e, invece di concentrarsi su fenomeni isolati come gli OGM (o il glifosato, anch’esso oggetto di discussioni infuocate) si mettesse sul banco degli imputati direttamente il paradigma agricolo industriale o, meglio ancora, l’intero sistema alimentare. La difesa – o sarebbe meglio dire l’apologia – dell’agro-industria, dialetticamente parlando, segue un canovaccio di questo tipo:
- la Rivoluzione Verde ha aumentato esponenzialmente le rese per ettaro da x a x+tot;
- negli ultimi 40 anni i denutriti sono diminuiti dell’y%;
- grazie alle tecniche più avanzate – ingegneria genetica inclusa – è stato possibile ridurre l’apporto di prodotti chimici dello z% aumentando contemporaneamente la capacità produttiva;
- l’agricoltura biologica è più costosa e rende meno, quindi non può raccogliere la sfida di nutrire una popolazione mondiale in espansione.
Partendo da questi presupposti non sorprende leggere affermazioni del tipo: “Poi esamini pure la questione dalla parte che più le piace: resta il fatto che il modello scientifico e quello tecnologico che ne deriva è quello che ha dimostrato di funzionare meglio e cioè di essere il più aderente alla realtà e talvolta di confermare con l’oggettività dei numeri la banale ovvietà del progresso” (commento di un anonimo su DFSN). Questa visione ammette tacitamente due assunti fondamentali: il primo è che non esiste alcun problema legato alle disponibilità di risorse necessarie per il buon funzionamento dell’agro-industria; il secondo è che, qualora sussistano esternalità negative, esse sono di lieve entità e facilmente affrontabili, i benefici soverchiano decisamente gli svantaggi e il perpetuarsi del sistema non corre alcun pericolo. Al massimo, sostengono alcuni neomarxisti quali l’autore de La Fame Martin Caparros, si tratta solo di ridurre l’influenza delle grandi corporation attraverso opportuni interventi pubblici (lo studioso spagnolo propone ad esempio di creare tante Monsanto statali che sviluppino biotecnologie per il bene comune, svincolate dalla logica del profitto).
Eppure l’evidenza ecologica contraddice nel modo più categorico tali convinzioni e anzi ci rimprovera la ‘banale ovvietà’ di insistere con comportamenti palesemente insostenibili solo per raccoglierne i frutti nel breve termine, nascondendo finché si può la polvere sotto il tappeto; atteggiamento condiviso da gran parte degli agronomi e dei genetisti, troppo impegnati a estrarre più produttività possibile dalle sementi, costi quel che costi. Per una disamina completa delle problematiche ecologiche del paradigma agro-industriale rimando alla lettura di un libro come L’alimentazione in ostaggio. Le mani delle multinazionali su quel che mangiamo di Josè Bové e Gilles Luneau oppure al capitolo dedicato all’agricoltura di Insostenibile. Le ragioni profonde della decrescita. In questa sede sintetizzo per sommi capi le problematiche più rilevanti e urgenti:
- dipendenza da risorse non rinnovabili e talvolta pericolosamente prossime al picco di produzione, quali idrocarburi e minerali da cui estrarre fosfati e sali di potassio, necessari per il funzionamento dei macchinari e la produzione di fertilizzanti;
- sfruttamento eccessivo di risorse rinnovabili, come l’acqua;
- massiccia emissione di gas serra: globalmente, l’agricoltura incide per il 24% nel computo totale delle emissioni (fonte: IPCC 2014), più dell’industria e quasi il doppio del settore dei trasporti;
- erosione dei terreni a seguito di pratiche troppo invasive;
- diffusione di fitofarmaci nelle falde acquifere e alterazione del ciclo naturale dell’azoto e del fosforo, con gravissime ricadute sugli ecosistemi (consiglio la lettura di un ottimo articolo di Vincenzo Balzani e Margherita Venturi pubblicato su Ecoscienze).
Giusto un paio di esempio per chiarire che non siamo di fronte a cassandrate destinate a manifestarsi solo in un futuro lontano. Il primo riguarda l’Arabia Saudita e altri paesi mediorientali, i quali erano riusciti a sviluppare un’agricoltura abbastanza fiorente sfruttando la cosiddetta ‘acqua fossile’, costituita da falde acquifere sfuggite al normale ciclo dell’acqua e rimaste intrappolate nel sottosuolo anche per milioni di anni: si tratta a tutti gli effetti di una risorsa non rinnovabile, che è stata sovrasfruttata fino a causarne un rapido esaurimento, e oggi la produzione di cereali saudita rispetto a inizio anni Novanta è tre volte e mezzo più bassa; per ovviare a tale perdita, lo stato arabo si è impegnato in una massiccia campagna di accapparramento di terre (land grabbing) in Africa, insieme ad altre nazioni del Golfo come Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Il secondo esempio invece ha assunto un rilievo planetario, la crisi alimentare del 2008 provocata dal brusco aumento del prezzo del greggio tra il 2006 e il 2008 causato dal picco di produzione del petrolio convenzionale, testimoniante la stretta dipendenza dell’agricoltura dall’oro nero. Una crisi poi ‘risolta’ grazie agli investimenti nel petrolio non convenzionale, molto meno efficiente sul piano energetico e più impattante su quello ambientale, ma soprattutto molto più costoso, ragion per cui le imprese impegnate nel settore cominciano a mostrare gravi segni di cedimento.
Di fronte a tali enormità, quasi impallidiscono le legittime preoccupazioni sulla salubrità alimentare, urge trovare una strada che conduca alla sostenibilità ambientale, quella vera però. Se bastasse consumare e inquinare meno, allora anche un SUV meriterebbe l’appellativo di ‘sostenibile’, paragonando il suo rapporto potenza/consumo con quello di una utilitaria degli anni Cinquanta. La vera sostenibilità deve invece ottemperare a tre criteri formulati più trent’anni fa da Herman Daly:
1. Le risorse rinnovabili non devono essere usate più rapidamente di quanto si possano rigenerare;
2. Inquinamento e rifiuti non devono essere immessi nell’ambiente più rapidamente di quanto l’ambiente possa riciclarli e renderli innocui;
3. Le risorse non rinnovabili non devono essere usate più rapidamente di quanto i sostituti rinnovabili (usati sostenibilmente) possano essere sviluppati.
L’analisi che ho condotto sulle sementi transgeniche ha adottato questa prospettiva la quale, rispetto a una riflessione incentrata sulle criticità della manipolazione genetica o sulle ricadute sociali dell’oligopolio agroalimentare, ha un carattere molto più oggettivo e taglia definitivamente la testa al toro su tante questioni.* Non difendo quindi il modello agricolo attuale, valuto soltanto se l’alternativa è davvero più virtuosa e – soprattutto – se di vera alternativa si tratta, o se piuttosto non ci stanno proponendo un semplice ritocco dell’esistente. Qualora gli OGM mostrassero concretamente di instradarsi verso il percorso delineato da Daly, allora avrebbe senso incentivarli: se invece constatassimo una semplice riduzione del danno o un consolidamento dei trend dell’agricoltura convenzionale senza modificarne le criticità strutturali, allora staremmo bruciando vanamente miliardi, con buona pace degli exploit produttivi realizzati grazie alla ‘capacità di carico fantasma’ (che proprio come un fantasma è destinata a svanire nel nulla lasciandoci con un pugno di mosche in mano). Vi rimando ai prossimi articoli, anticipando che il verdetto dei numeri mi sembra abbastanza chiaro.
*Ovviamente non intendo negare l’importanza di tali problematiche. In particolare, l’ingegneria genetica è rimasta saldamente ancorata al principio del ‘dogma centrale’ un gene-una proteina, su cui oggi aleggiano parecchi dubbi, così come non sono ancora del tutto chiari gli effetti dell’uso di virus e altri vettori impiegati per alterare il DNA degli organismi da modificare.
Fonte immagine in evidenza: Wikimedia Commons.