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Sono davvero molto contento di poter rilasciare Insostenibile. Le ragioni profonde della decrescita. In primo luogo perché nasce dal tentativo di recuperare lo sforzo congiunto che io, Manuel Castelletti, Giulio Manzoni e Daniele Uboldi profondemmo con lo sfortunato L’avvocato e la lumaca (approdando però a qualcosa di molto diverso), poi perché cerca di venire incontro a una proposta, quella della ‘faq della decrescita’, consigliatami da Paolo Cacciari durante i lavori della Scuola estiva della decrescita 2015.
Ma che cos’è Insostenibile? Chiarisco subito che non si tratta di un contributo sulla decrescita, bensì sulla crescita. Insostenibile nasce dal desiderio di confrontarsi con i critici della decrescita cercando però di invertire i ruoli abituali della discussione. Dall’introduzione:
Lo sforzo si rivela necessario perché, negli ultimi anni, la decrescita è stata attaccata non solo attraverso dichiarazioni sporadiche di politici, economisti e intellettuali, ma anche tramite la pubblicazione di alcuni libri – in Italia abbiamo avuto La decrescita infelice di Bruno Tomasich, Critica della decrescita di Giovanni Mazzetti, Contro la decrescita di Luca Simonetti – la cui caratteristica saliente, tra critiche pretestuose e superficiali mescolate ad altre obiettivamente degne di nota, è di concentrarsi quasi esclusivamente sul versante della pura doxa. Nelle rappresentazioni dei detrattori della decrescita, il pianeta Terra e le sue problematiche ecologiche vengono quasi del tutto emarginate, sostituite da ragionamenti astratti in difesa dell’esistente o degli ideali di sviluppo e progresso. Ma è sensata l’apologia dell’industrialismo e della crescita economica quali vettori di promozione sociale – ostentando per lo più successi del passato, in una sorta di riconoscimento dell’onore delle armi – se le fondamenta su cui poggiano si stanno sgretolando? “Rallentare non è la soluzione”, recita il sottotitolo di Contro la decrescita, ma ‘accelerare’ è possibile? Da qui la necessità di riportare in primo piano la biosfera e le sue ragioni, cercando di distinguere i fatti dalle opinioni, senza ovviamente rinunciare a queste ultime ma formulandole a partire da riscontri concreti o quantomeno dalle ipotesi più probabili…
Prima di entrare nel vivo della discussione, è bene sgombrare il campo da possibili equivoci. Innanzitutto, nonostante il punto di vista dichiarato di chi scrive, emergente soprattutto nelle pagine conclusive, non si intende ‘convertire alla decrescita’ il lettore, facendo riferimento a quell’insieme di atteggiamenti e di pratiche note come decrescita felice o serena. Ancor meno si vuole proporre un sistema di pensiero che, attraverso una dialettica pseudo-marxista, voglia dimostrare l’inevitabilità storica della società della decrescita vagheggiata da Latouche, Pallante e altri intellettuali. Semmai, volendo riprendere una simpatica espressione di Michael Foucault, si ricorre a una sorta di ‘cassetta degli attrezzi’ per inserire dati e analisi di vario genere in uno schema interpretativo, al fine di delineare un quadro d’insieme coerente. Il cammino verso la decrescita felice, invece, può avvenire solo tramite riflessioni esistenziali e prese di coscienza che travalichino la mera constatazione del problema ecologico e dell’impossibilità di perpetuare determinati paradigmi economici. Ben inteso, abbandonare il miraggio della crescita esponenziale non esime dall’interrogarsi seriamente sulla sostenibilità di utopie alternative, quindi rappresenta un punto di partenza e non certo di arrivo di un percorso molto più articolato e complesso.
Questo contributo si sforza di comprendere quali siano le ‘regole del gioco’ a cui tutti quanti, al di là delle sensibilità personali, dobbiamo volenti o nolenti attenerci. In questo senso, è sicuramente nostra intenzione invertire i ruoli abituali del dibattito e costringere gli apologeti dello sviluppo a sostenere l’onere della prova riguardo alla fattibilità del business as usual e di tutte le ricette economiche basate sulla crescita continua. Nella speranza di dimostrare che una certa forma mentis, per quanto radicata nell’immaginario collettivo, nell’unico mondo che abbiamo e che abbraccia tutti quanti a prescindere dalle opinioni, è semplicemente insostenibile.
Per quali ragioni qualcuno dovrebbe impiegare il proprio tempo con il contributo di un dilettante totale, quale io sono? Innanzitutto, il lavoro che ho compiuto in Insostenibile è quello di nano sulle spalle dei giganti che cerca di mettere insieme dei dati, come se questi fossero tessere di un mosaico da assemblare. Il componimento finale potrà non essere granché, ma ciascuna singola tessera merita di essere apprezzata, in quanto frutto dell’opera di ricercatori autorevoli e capaci, a prescindere da qualsiasi mia opinione personale.
In definitiva, LEGGETE INSOSTENIBILE SE:
- aderite alla decrescita e pensate che essa si fondi su ragioni profonde che travalichino le vostre legittime scelte personali, tali da coinvolgere tutti a prescindere dalle opinioni, ragion per cui è necessario un confronto più ampio ma anche più onesto possibile;
- non aderite alla decrescita e magari la vedete pure con il fumo negli occhi, ma siete intellettualmente curiosi e forse avete la sensazione che ci sia qualche crepa nell’attuale modello di sviluppo.
NON LEGGETE INSOSTENIBILE SE:
- aderite alla decrescita pensando che sia soltanto una questione personale, siete già soddisfatti del vostro microcosmo e vi sembra assurda l’idea di confrontarsi con chi la pensa diversamente e/o non potete concepire un contributo sulla decrescita dove Latouche e Pallante non compaiono in bibliografia e/o non si parli di autoproduzione e tematiche correlate;
- non aderite alla decrescita e pensate che il mondo stia bene come sta, se farà un po’ più caldo aumenterete la potenza del condizionatore e per tutto il resto c’è il centro commerciale sempre pieno di ogni ben di Dio.
PS: chiedo perdono per gli inevitabili refusi nel testo presenti malgrado ripetute revisioni; prego di segnalarmeli in modo da poter correggere ogni cosa!
Ciao Igor
Ti faccio i miei complimenti per l’ottimo lavoro fatto (ma non ho ancora terminato di leggerlo).
Quando leggo un articolo cerco di vedere eventuali dati sbagliati (molte volte perché riportati male dalla fonte). Per quanto riguardo il tuo lavoro a prima vista non ho notato niente di “anomalo” anche se non ho fatto una un vero e proprio controllo dei valori numerici riportati. Mi riprometto di farlo successivamente: alle volte i critici della decrescita approfittano di una svista per criticare tutto il senso del discorso, quindi è meglio non dare nessuna occasione.
Comunque ho notato due piccole imprecisioni: a pag. 48, nella nota sta scritto: “A titolo di paragone, la stazza della nave da crociera Costa Concordia (114.000 tonnellate) era superiore al peso dell’intera produzione di terre rare del 2013 (meno di 103.000 tonnellate, fonte: Reichl, Schatz, Zsak 2015) 65Goeller”. La stazza (espressa in tonnellate di stazza) fa riferimento al volume della nave (una tonnellata di stazza corrisponde a m3 2,832) per cui bisognava fare il confronto col peso della nave (che si dice “dislocameneto”) che mi pare sia di 56.000 tonnellate.
A pag. 72 viene fatto riferimento a Claudio Della Volpe (l’ho conosciuto personalmente): è un chimico non un fisico
Ti saluto cordialmente
Armando
Ciao Armando, SPERO che tu ti riferisca alla copia che avevo diffuso nel gruppo ‘segreto’ di Facebook, la versione definitiva in download prevede tra l’altro la correzione del titolo di Della Volpe e una integrazione/correzione del capitolo sullo sviluppo sostenibile, per il resto solo correzione refusi.
Per quanto riguarda la Costa Concordia, effettivamente mi intendo zero di nautica, mi ero fidato del dato che appare come ‘stazza lorda’ sulla pagina wikipedia relativa https://it.wikipedia.org/wiki/Costa_Concordia. Mi ero fatto prendere dal paragone navale per via degli esempi che erano riportati in quel capitolo! 🙂 Cmq vabbeh, era solo un paragone fatto per far capire quanto sono ‘rare’ le ‘terre rare’.
Sarei contento che il contributo sopravvivesse al tuo occhio di lince: diciamo che il suo punto forte è proprio il fatto che mi limito a fare da assemblatore, i dati sono sempre di fonti attendibili e al massimo io li ho incrociati tra loro. Invito tutti a fare come Armando, Insostenibile è pensato apposta come un work in progress. Grazie ancora!
Sono solo alle prime pagine del bellissimo lavoro di Igor e già non resisto alla tentazione di commentare.
Stritolata tra doxa ed epistème c’è la povera vocazionalità; cioè il desiderio di un territorio e del suo popolo di seguire la propria indole, a sua volta connaturata coi cicli naturali, con la realtà oggettiva dell’epistème.
Una mia professoressa di geografia diceva sempre: ” se vi interrogano su un certo paese e voi siete impreparati, chiedete di potere consultare l’atlante. Se avrete acquisito il metodo dell’analisi, sicuramente di quel dato paese non saprete tutto, ma potrete dire molte cose”. Come darle torto? Se un territorio è un’isola, sicuramente avrà una pesca sviluppata. Se si trova a certe latitudini, per esempio al centro del Mediterraneo, avrà certi prodotti spontanei della terra, quali il fico d’india, il corbezzolo, le macchie di levisco. L’agricoltura sarà vocata alla produzione di agrumi e via dicendo.
La prima violenza alle popolazioni e al territorio è quella di disconoscere la vocazionalità,il decidere a tavolino che tutto ciò che la provvida natura mette a disposizione sia inadeguato, insufficiente, al piu’ complementare ad uno sviluppo del tutto diverso.
Così fu nell’Italia di fine ottocento, dove, soprattutto nel meridione, si diede corso ad una industrializzazione forzata. Ecco i marziani che sbarcano sulla Terra e impiantano qualcosa di alieno.
Vengono estirpati gli agrumenti, distrutte le foreste, sbancati milioni di metri cubi di suolo per ampliare il porto di Taranto, per fare spazio allo stabilimento siderurgico; a quell’ILVA di cui tanto si parla ai giorni nostri, per i gravi danni alla salute delle popolazioni che vivono vicino a questa fabbrica, per l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo.
Le classi dirigenti di allora hanno ritenuto che l’Italia dovesse assomigliare ai paesi mitteleuropei, diventare come la Germania, copiarne il poderoso sistema industriale. Ma la Germania, anche grazie alla guerra franco-prussiana aveva una produzione mineraria ( di carbone soprattutto) notevolissima; ragione per la quale poteva anche ritenere che le proprie merci avrebbero avuto sempre un basso costo per unità prodotta. In Italia le cose erano ( e sono) diverse: questo paese non ha materie prime; può solo lavorare quelle che acquista. Questo fatto non è da poco, in quanto, già in partenza, restituisce manufatti con un elevato costo per unità prodotta. Ecco allora la genialata: i dazi doganali, per potere rendere competitive le merci italiane. Il risultato dell’industrializzazione del sud, dopo la crisi del 1908, portò a una caduta verticale delle vendite e a notevoli giacenze di magazzino. Per cui le scelte, delle due l’una, o si sarebbe dovuto ridimensionare la capacità produttiva, oppure trovare il modo di aumentare il consumo interno. Una mano insperata venne dall’assassinio di Sarajevo, dalla rottura della Triplice Alleanza con Germania e austro-ungheria, dalla neutralità ( che affari d’oro quando si è neutrali e si può vendere cannoni ad amici ed ex nemici!).Ma nemmeno questo bastò e di li appresso, ILVA. Ansaldo, FIAT, coi martellamento dei loro giornali, fecero in modo che Salandra e Sonnino risolvessero per la dichiarazione di guerra all’ Impero Austro-ungarico.
Riepiloghiamo: si distrugge la produttività agricola per fare posto all’industria, si mette in piedi un gigante dai piedi d’argilla perchè non può essere competitivo sui mercati per via dell’assenza di materie prime, si impongono dazi doganali per rendere competitive le merci, si fanno scelte opportunistiche, da voltagabbana, in politica estera, per avere qualche vantaggio immediato sui mercati e, infine, si dichiara una guerra agli ex alleati perchè le imprese italiane possano vendere allo Stato il materiale bellico. Ecco, questa è la crescita. Poi arriverà il fascismo che inventerà la Religione della Patria, per onorare gli eroi che, mostrando il fiero petto al fuoco del nemico, perchè altro non anelavano che morire per l’unità e il bene della Nazione. I marziani non avrebbero potuto fare di peggio.
A tuo modo Daniele hai delineato una specie di storia entropica dell’Italia! Potrebbe essere l’idea per un prossimo contributo!
Ciao Daniele, solo una riga veloce per dire che è importante capire da dove sono velnute le scelte e se sono di orgine italica o endogena…
Mi intrometto per dire la mia: penso che l’Italia faccia parte di un processo storico più grande di lei, ma anche che le classi dirigenti avrebbero potuto fare passi decisivi per cercare di governarlo.
Francesco, condivido quest’ultimo pensiero espresso da Igor. Sicuramente l’Italia, da sempre ha avuto condizionamenti esterni, connaturati intimamente alle varie fasi storiche. Però le classi dirigenti italiane ci hanno abbondantemente messo del loro e non sempre in termini positivi.
Dopo l’Unificazione è prevalsa, per lunghissimo tempo, l’idea che essere un paese prevalentemente agricolo, come lo era l’Italia, fosse un fatto negativo; soprattutto nel momento in cui l’industrializzazione nel resto d’Europa procedeva a passo veloce.Non solo, la nostra agricoltura era giudicata arretrata, poco competitiva, non tecnologica.
Certo, se l’ottica è quella di un’agricoltura industriale, con basso impiego di manodopera, sfruttamento intensivo del suolo, allora quella italiana era sicuramente arretrata. Però, a un secolo di distanza, vediamo i disastri in cui versa la produzione agricola nella parte di mondo tecnologicizzato. Vediamo la qualità del cibo, gli inaridimenti dei terreni e l’esigenza di ricorrere a sementi modificate geneticamente per adattarsi alle avversità ambientali e agli attacchi degli insetti. Allora l’agricoltura di prossimità che in buona parte soddisfaceva le esigenze locali, peraltro garantendo forti esportazioni, come nel caso di olio, vino, agrumi, non era poi così male.
Per contro, la scelta di rovesciare il rapporto economico agricolo-industriale in industriale-agricolo, fu tutta una scelta casereccia e, a mio modo di vedere, sciagurata.
Igor, ma perché sei stato così sgarbato con Latouche ?
Io non sono un fanatico del suo pensiero, anche se ho letto quasi tutto di lui, però faccio fatica a concepire una buona formazione pro-decrescita senza conoscere quel che ne ha scritto Latouche. Inoltre bisognerebbe anche capire (e certamente tu lo capisci) che Latouche è un filosofo, per cui una certa dialettica, che tu definisci irrispettosamente pseudo-marxista (no, leva pure pseudo) è inevitabile.
Io sono uno che leggerà con attenzione “Insostenibile” pur non rientrando nelle categorie che tu hai indicato. Non penso affatto che alla Decrescita sia sufficiente un’adesione personale, anzi….
Penso invece che sbatteremo la faccia contro un mondo “insostenibile” (nel senso di invivibile). Forse non direttamente noi, ma certamente i nostri figli e nipoti. Ed allora non serviranno più né i distinguo tra sostenitori della crescita sostenibile (colossale stupidagine), gli assertori delle capacità taumaturgiche della tecnologia (non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere…) e i fautori dei microcosmi rispettosi dell’ambiente e di un’equa distribuzione delle risorse. Sarà un mondo alla madmax, inospitale, crudele e selettivo. Oppure non sarà niente.
Di fronte al commento di Danilo si rende necessaria un’importante precisazione. La ‘dialettica pseudo-marxista’ non è un riferimento a Latouche (che non accuso di questo) bensì a… me. Il disclaimer leggi/non leggi di fatto è una sintesi pensata per tutte le accuse che ho ricevuto, sia in campo decrescente che avverso alla decrescita. I critici della decrescita mi accusano di seguire una logica (appunto pseudo-marxista) di questo tipo: la crescita non può proseguire QUINDI è inevitabile la società della della decrescita felice. Magari: penso invece che essa sia una delle possibilità (non certo la più probabile, ma neppure impossibile), altre ipotesi sono scenari da incubo in stile Mad Max appunto, fascismi ecologici, ecc. Molti decrescenti, invece, hanno liquidato come stupido il mio tentativo di dialogo con i critici della decrescita e ritengono inevitabile una chiusura nei propri microcosmi. Forse non capiscono che io non voglio convincere costoro a farsi piacere la decrescita felice: a me sta benissimo che a uno piacciano la società dei consumi, gli OGM, ecc. diverso invece è sostenere che queste cose siano sostenibili oltre che piacevoli; e di fronte all’insostenibilità della crescita, voglio costringerli a trovare un’alternativa migliore della decrescita felice.
Il mio giudizio su Latouche è ottimo, credo che abbia superato virtuosamente il marxismo, anzi se guardi sul nostro canale Youtube trovi un video che ho caricato io dove prende bonariamente in giro Diego Fusaro su questa questione https://www.youtube.com/watch?v=NPUpN8u5_HQ. Insostenibile, visto però il suo scopo, non era il contributo ideale per Latouche o Pallante; e forse sarà inutile per i nostri figli o nipoti, ma credo che qualcosina da dire oggi come oggi ce l’abbia. Spero di aver chiarito bene il mio pensiero.
Ciao Igor
Da qualche giorno ho terminato di leggere questo tuo lavoro: è davvero straordinario sia per l’impegno che ha richiesto che per i tanti e complessi temi trattati.
Per quanto riguarda i dati inseriti mi è sembrato abbastanza anomalo il valore dell’EROEI indicato a pag. 124. Viene indicato per il petrolio e il gas (il riferimento mi pare sia solamente agli USA) il valore di 1200:1 per l’anno 1919. Sono andato a vedere l’articolo originale (della lingua inglese però conosco solamente qualche parola) ed effettivamente indica il valore 1.229,48 per il 1919, 295,26 per il 1939 e 61,10 per il 1954 ( questi valori si trovano a pag. 1874 nella numerazione indicata nel documento che ho consultato sul WEB). In tutti gli articoli che in passato ho letto ricordo che si parlava di un alto valore dell’EROEI nei primi periodi dell’estrazione petrolifera ma ho letto che c’erano valori di 100:1 (nell’articolo si parla però di petrolio e gas e il riferimento mi pare sia solamente agli USA).
Ciao
Armando
Ti ringrazio ancora Armando, anche perché come ho già detto precedentemente hai un occhio di lince su certe cose e non è facile uscirne indenni! 🙂 I valori di EROEI del 1919 sono sembrati anche a me decisamente abbondanti, però gli esperti sono loro e il dato in sé nell’economia del contributo è di scarsa importanza: che fosse 1000:1 o 500:1 o 100:1, la realtà è che le risorse attuali viaggiano su valori nettamente più bassi scompaginando le visioni tradizionali.