Nel 1990, a un congresso internazionale dell’Associazione Internazionale di Linguistica Applicata (AILA), tra i relatori più in vista, i cosiddetti keynote, figurava Michael Halliday, nome di assoluto prestigio e noto a tutti coloro che si occupano di linguistica. Halliday è l’autore della grammatica sistemico-funzionale, il modello grammaticale più noto e utilizzato al mondo dopo quello chomskyano, da cui si distingue, in estrema sintesi, per la focalizzazione sul contesto, sulla funzione e sul ruolo sociale del linguaggio, laddove invece i cognitivisti privilegiano l’aspetto mentale e biologicamente fondato di questa facoltà umana. Vorrei scrivere un breve intervento su DFSN, senza entrare in tecnicismi eccessivi, per comunicare a voi lettori una scoperta che, come linguista, ho trovato interessante: il fatto che, già 25 anni fa, in un contesto abbastanza insolito per una discussione sull’ambiente e sulla (de)crescita economica, quale può essere un importantissimo convegno di linguistica1, un relatore di chiara fama abbia affrontato il tema della decrescita.
Occorre una breve premessa per capire chi sia Halliday e come questo suo riferimento alla decrescita si integri nel suo pensiero linguistico.
Per Halliday, il linguaggio è semiotica sociale (1978), cioè consta di una serie di sistemi di risorse dotati di potenziali di significato, che vengono attivati dai parlanti sulla base di configurazioni contestuali tra loro interconnesse in base a tre variabili di registro: il campo (la frase come rappresentazione, ossia: che cosa succede in un determinato evento?), il tenore (la frase come scambio, ossia: chi sono i partecipanti a questo evento?) e il modo (la frase come messaggio, ossia: quali sono gli aspetti della testualità in questo evento?). Il concetto di base, che contraddistingue la grammatica di Halliday da altri modelli, è quello di scelta: tutta la grammatica sistemico-funzionale si articola, anziché attraverso gli alberi di chomskyana memoria, attraverso reti di sistemi, che propongono un connubio di scelte espressive e semantiche a disposizione del parlante, in modo alternativo o simultaneo. Il pensiero hallidayano pone al centro la scelta anche nel suo approccio ai sistemi della testualità: notissimo, non solo agli addetti ai lavori, è lo studio della coesione testuale (1976), ossia come fa un testo a “stare insieme”, e che cosa fa di una sequenza di parole e frasi un testo, anziché una serie sconnessa di scarabocchi o suoni senza senso. Quando i ragazzini, sui banchi di scuola, si arrovellano su anafora, catafora, ellissi, congiunzioni, tema, rema e vari altri parametri della coesione testuale, il modello che c’è dietro è quello sistemico-funzionale, in base a cui linguaggio, testo e contesto (1985) sono strettamente interconnessi e reciprocamente necessari.
La straordinaria libertà di scelta che il linguaggio ci pone di fronte, secondo Halliday, è comunque almeno in parte vincolata, poiché dipende sempre dal significato che si intende esprimere quale funzione nel contesto (Firth 1957). In questo senso, comunque, la grammatica sistemico-funzionale è assai operativa a livello di applicazioni pratiche in altre scienze sociali: ecco perché sociologia, traduttologia, didattica e altre discipline che hanno bisogno dell’apporto della linguistica tendono ad attingere al modello sistemico-funzionale anziché ad altri modelli teorici e grammaticali altrettanto validi sul piano metodologico e teorico, ma meno applicativi.
Vi ho forse un po’ annoiati con questa introduzione, spero non troppo complessa per i non addetti ai lavori, e sicuramente troppo semplicistica per gli addetti ai lavori, per ritornare al tema fondamentale, che penso possa interessare i lettori di DFSN, ossia come Michael Halliday abbia introdotto il tema della decrescita nello scenario della linguistica applicata. Va detto anche che chi conosce la grammatica sistemico-funzionale come “materia di scuola”, ad esempio i miei studenti all’Università di Bologna, i quali la affrontano come disciplina da conoscere in tutte le sue più minute sfaccettature in vista del superamento di ben tre esami universitari, difficilmente di primo acchito la vede come un modello “decrescente”: basti pensare che le reti di sistemi in cui si articola, e a cui facevo riferimento poco sopra, sono spesso complessissime, molto più degli alberi chomskyani, e diversamente da questi ultimi non sempre risolvono in modo definitivo i problemi dell’analisi linguistica, lasciando aperta una molteplicità di interpretazioni. La grammatica hallidayana è quindi un sistema (anzi, un insieme di sistemi) molto complesso e nel quale da un’analisi tende a scaturirne una successiva (alternativa o simultanea), in una sequenza che all’apparenza non ha nulla di economico o decrescente. Benché quindi questa grammatica si definisca sistemico-funzionale, e quindi abbia delle ovvie connessioni con il pensiero sistemico (ad es. Capra & Luisi 2014) di cui si avvalgono anche le teorie economiche e sociali della decrescita, contiene al suo interno degli aspetti che decrescenti non sono, e che anzi tendono all’elefantiasi, mandando spesso in crisi non solo molti miei studenti, ma tutti coloro che hanno necessità o interesse a conoscere questo modello grammaticale nella totalità dei suoi dettagli. Anche per questa sua complessità, tuttavia, la grammatica di Halliday è più affine di altri modelli concorrenti al sentire contemporaneo intorno a concetti quali la società liquida (Bauman 2000) e il pensiero debole (Vattimo & Rovatti 2010): non è una grammatica che dà risposte, ma è una grammatica che apre scenari, sforzandosi di riflettere il più possibile il reale extra-linguistico.
Ed è così che si spiega il fatto che, già nel 1990, Halliday ebbe ad affrontare il problema del “culto della crescita” nelle società umane e il modo in cui questo culto, definito growthism (che suona un po’ come “crescismo”, se vogliamo provare a introdurre questo neologismo anche in italiano) si sia talmente sedimentato nelle modalità espressive non solo dell’inglese, ma di tante altre lingue, da dare l’idea che sia una verità incontestabile. Nel corso della sua keynote lecture, dedicata a Nuovi modi del significato, Halliday analizza un estratto di un articolo giornalistico, dal titolo già di per sé inneggiante alla crescita, “Air travel’s popularity to soar to new heights”, in cui si celebrano i fasti della società aeronautica Boeing. In questo articolo, scrive Halliday,
tutto … converge su un semplice messaggio: la crescita è bella. Molti è meglio di pochi, più è meglio di meno, grande è meglio di piccolo, crescere è meglio che diminuire, su è meglio di giù. Il Prodotto Interno Lordo deve crescere, il tenore di vita deve salire, la produttività deve aumentare.
Ma noi sappiamo che queste cose non possono succedere. Noi stiamo dando fondo al nostro capitale di risorse, e non solo ai combustibili fossili e minerali di cui (con buona pace della Boeing) potremmo anche fare a meno, ma anche alle sorgenti di acqua dolce e ai terreni agricoli, di cui non possiamo fare a meno2.
Citando Paul Ehrlich, Halliday spiega poi che, per invertire questa tendenza, bisogna intervenire sulla percezione pubblica della crescita come necessità e come bene assoluto, innanzitutto rendendosi conto di come tale percezione sia lessicalizzata in espressioni che soggiaciono a un plateale condizionamento sociale e ideologico di cui i parlanti ormai non si rendono più conto, oltre che a un condizionamento psicologico che, fin dall’infanzia, abitua i soggetti a vedere la crescita come un fatto positivo: il bambino, infatti, viene lodato dagli adulti per quanto è cresciuto, ponendo spesso in relazione i suoi consumi alimentari con la crescita del suo organismo (“mangia la carne, che diventi grande!”). Un passo successivo per combattere il “crescismo” nell’uso linguistico consiste nell’introdurre nuovi modi espressivi per parlare del nostro ruolo nel mondo, non in termini di crescita infinita, ma nella direzione di una maggiore integrazione con l’ambiente che ci circonda e di cui facciamo parte, contrastando in modo attivo questa
sindrome di aspetti grammaticali che cospirano … per costruire la realtà in un certo modo: ed è un modo che non fa più bene alla nostra salute in quanto specie.
Halliday va successivamente a descrivere questa “sindrome”, attraverso una disamina degli aspetti dell’uso linguistico che maggiormente si prestano a far sedimentare determinate ideologie nell’espressione quotidiana, senza che i parlanti, anche quelli più colti ed esperti, ne siano consapevoli. Tra questi aspetti, Halliday cita
1) le parole numerabili e non numerabili (ad es. parlare in generale di “suolo”, di “petrolio” e di “acqua”, senza fare alcun riferimento alla loro quantità, veicola l’idea implicita che queste risorse siano inesauribili);
2) la preminenza della polarità positiva su quella negativa (ad es. quando si parla della “qualità” di un oggetto, o della sua “mole”, se non si specifica il contrario si intende che siano elevate, per cui è implicito che “un oggetto di qualità” sia un oggetto di alta qualità; se invito il mio interlocutore a osservare “la mole di questo edificio”, intendo che è di grandi dimensioni ecc.);
3) l’agentività degli esseri animati, in particolare quelli umani, che fa sì che l’uomo sia tendenzialmente rappresentato nell’uso linguistico come Attore, mentre l’ambiente è piuttosto l’Obiettivo dei Processi in cui l’uomo agisce3;
4) la dicotomia, grammaticalizzata in inglese attraverso il sistema pronominale, tra “umano” (he/ she) e non umano (it).
Questi e altri aspetti della sedimentazione delle ideologie all’interno del linguaggio sono stati ripresi in vari modi da diverse scuole del pensiero linguistico contemporaneo: la più nota ai non addetti ai lavori è probabilmente quella che ha dato adito al politically correct language, ossia il tentativo di “depurare” il lessico dalle sue connotazioni razziste e sessiste. Tuttavia, da un punto di vista sistemico-funzionale, un intervento sul lessico in quanto tale non ha grosse probabilità di modificare in maniera sostanziale il modo di pensare dei parlanti, poiché lessico e grammatica, secondo Halliday, sono un tutt’uno inscindibile, ed è sugli aspetti più grammaticali, che non strettamente lessicali, che si articola veramente la connessione più profonda tra linguaggio e ideologia.
Ad avere lavorato più alacremente su questo tema è l’analisi del discorso critica, una teoria linguistica di derivazione marxista, che ha tra i suoi maggiori esponenti Norman Fairclough, Teun van Dijk e Ruth Wodak e che si riunisce intorno a una rivista di settore molto quotata, dal titolo Discourse & Society, nella quale si affrontano le interconnessioni tra lingua, ideologia e società, con particolare attenzione alla costruzione discorsiva dell’egemonia. È soprattutto all’interno dell’analisi del discorso critica che si iscrive la cosiddetta ecolinguistica, le cui origini sono tracciate dai suoi rappresentanti (ad es. Alexander & Stibbe 2014) proprio alla keynote lecture di Halliday che ho riassunto per sommi capi. A dire il vero, gli ecolinguisti riconoscono a Halliday solo il ruolo di avere per primo portato alla luce queste problematiche nell’analisi linguistica, mentre gli rimproverano un certo pessimismo sulle effettive possibilità di cambiare la lingua in modo da contrastare al suo interno il pregiudizio della crescita come bene assoluto. A sua discolpa possiamo dire che Halliday è un teorico: pertanto il suo compito non è “indicarci la luce” e dirci cosa fare, ma sollevare problemi ai quali compete poi agli studiosi applicati trovare le soluzioni.
Concludo questo mio breve contributo segnalando alcune ricerche, connesse ai temi dell’ecolinguistica, su cui mi sto documentando in questo periodo e che credo possano incontrare l’interesse anche di alcuni lettori di DFSN. Gli studi sull’ideologia e sull’egemonia in rapporto all’espressione linguistica, da non molti anni, si sono estesi al rapporto uomo-animale, anche in risposta alle nuove sensibilità sui diritti degli animali e alle nuove4 riflessioni sullo specismo quale forma particolare di discriminazione e di razzismo. Molte riflessioni in questo ambito propongono un paragone tra razzismo/ sessismo e specismo per quanto riguarda la loro costruzione discorsiva, ossia il modo in cui pratiche quali l’allevamento intensivo, la vivisezione, la caccia e il consumo quotidiano di carne e derivati vengano implicitamente legittimati attraverso strategie non soltanto retoriche, ma anche lessicogrammaticali, non troppo diverse da quelle adottate per legittimare le discriminazioni sociali ai danni delle donne e dei migranti. Interessantissimi a questo riguardo, e anche accessibili entro una certa (ma ampia) misura a un pubblico di non-linguisti, sono gli studi di Arran Stibbe e di un team di studiosi, tra cui Guy Cook, Alison Sealey e Chris Pak, che si riunisce intorno al progetto triennale (2013-2016) ‘People’, ‘Products’, ‘Pests’ and ‘Pets’, The Discursive Representation of Animals del King’s College London e dell’Università di Lancaster, finanziato dal Leverhulme Trust.
Se interessa, in futuro proporrò con piacere ai lettori di DFSN una bibliografia ragionata su queste e altre tematiche ecolinguistiche, più o meno direttamente legate alla decrescita.
Bibliografia
Alexander, R. & Stibbe, A. (2014). “From the analysis of ecological discourse to the ecological analysis of discourse”, Language Sciences 41, p. 104–110.
Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Cambridge: Polity Press.
Capra. F. & Luisi P. L. (2014). The systems view of life. A unifying vision. Cambridge: Cambridge University Press.
Cook, G. (2015). “‘A pig is a person’ or ‘You can love a fox and hunt it’: Innovation and tradition in the discursive representation of animals”, Discourse & Society 26 (5), pp. 587-607
Fairclough, N. (1995). Critical Discourse Analysis: The critical study of language. London: Longman.
Firth J. R. (1957). “A Synopsis of Linguistic Theory, 1930–1955”. In: Studies in Linguistic Analysis (Special volume of the Philological Society). London: Blackwell, p.1-31. [ristampa in in F.R. Palmer, 1968 [Ed.] Selected Papers of J R Firth, 1952–1959. London: Longman, p. 168–205].
Halliday, M.A.K & Hasan, R. (1976). Cohesion in English. London: Longman.
Halliday, M.A.K. (1978). Language and Social Semiotic. The social interpretation of language and meaning. Maryland: University Park Press.
Halliday, M.A.K. & Hasan, R. (1985). Language, context, and text: Aspects of language in a social-semiotic perspective. Oxford: Oxford University Press.
Halliday, M.A.K. (1990). “New ways of meaning. A challenge to applied linguistics”, Journal of Applied Linguistics 6, p. 7–36 [ristampa in Webster, J., 2003 [Ed.] On Language and Linguistics, Collected Works of M.A.K. Halliday, Volume 3. London: Continuum, p. 139-174].
Halliday, M.A.K. & Matthiessen, C.M.I.M. (2004). An Introduction to Functional Grammar. Third Edition. London: Arnold.
Pak, C. (2015). “The discursive representation of foxes and bees in the Twittersphere”. Intervento all’Ottavo convegno internazionale di Corpus Linguistics 2015, Lancaster University, Gran Bretagna, 21-24 luglio 2015.
Sealey, A. & Oakley, L. (2013). “Anthropomorphic grammar? Some linguistic patterns in the wildlife documentary series Life”. Text and Talk 33 (3), p. 399–420.
Stibbe, A. (2012). Animals erased: discourse, ecology, and reconnection with the natural world. Middletown, CT: Wesleyan University Press.
van Dijk, T. (2001). “Critical Discourse Analysis”. In D. Tannen, D. Schiffrin & H. Hamilton (Eds.), Handbook of Discourse Analysis. Oxford: Blackwell, p. 352-371.
Vattimo G. & Rovatti, P.A. (2010) (Eds). Il pensiero debole. Milano: Feltrinelli.
Wodak, R. (1996). Disorders of discourse. London: Longman.
1 Quello dell’AILA è uno dei convegni principali per gli studiosi di linguistica applicata e si tiene ogni tre anni, cercando di alternare le parti del mondo in cui ha luogo, per riflettere la vocazione mondialista dell’Associazione.
2 Traduzione italiana e corsivi sono miei. Il grassetto è di Halliday.
3 Qui Halliday fa riferimento al Sistema della Transitività che si trova al centro della sua grammatica della frase come rappresentazione, all’interno della variabile di registro denominata “campo”, cfr. supra.
4 “Nuove” solo per i media generalisti, in quanto la letteratura di settore affronta il tema dello specismo almeno dagli anni Settanta, come spiega bene Cook 2015.
Immagine in evidenza. M.A.K. Halliday (fonte: Wikipedia)
Discorso molto interessante che estenderei fino alla possibilita` che il culto della crescita sia insito nel nostro istinto e nel programma genetico presente nelle nostre cellule. In tal caso il linguaggio non puo` che rispecchiare tale polarizzazione che si presenta in tutta la sua forza nella divisione tra Bene e Male tipica della cultura e religioni occidentali. Si puo` pero` osservare che altri paesi, tipicamente all’estremo oriente, pur riconoscendo una polarizzazione tra due tipi di comportamenti (Yin e Yang) non hanno una chiara identificazione di quale sia il maligno e quale il beningno… sarei curioso quindi di sapere se il culto della crescita e` intrinseco anche nelle lingue orientali o meno.
Andrei molto piano con questa idea Giulio, perché di fatto significherebbe dire che la logica dell’industrialismo è connaturata alla natura umana, invece rappresenta soltanto un paio di secoli su migliaia di storia umana che neanche sapevano cosa fosse la logica della crescita esponenziale. Piuttosto Halliday è un esponente del funzionalismo, secondo cui il significato linguistico riflette l’uso, quindi serve per veicolare particolari costrutti sociali e ideologici. L’antropologia seria ha dimostrato che l’homo oeconomicus e le sue perversioni logiche esistono soltanto nei manuali di economia.
Buongiorno, Giulio, e grazie per il commento! Purtroppo non parlo nessuna lingua orientale, quindi le considerazioni che posso svolgere su questo argomento sono puramente teoriche. Sicuramente ci sono differenze nelle modalità argomentative delle lingue orientali e di quelle occidentali, e molte discendono dalle radici culturali (ad es. Taoismo e Confucianesimo a Est; retorica aristotelica, Vecchio e Nuovo Testamento a Ovest): infatti, Arran Stibbe, che ho citato nel mio breve intervento (e che, diversamente da me, sa il giapponese!) ha lavorato anche sul linguaggio degli haiku, proprio come esempio di una concezione dell’ambiente più olistica e diversa da quella propugnata dal pensiero dominante occidentale. C’è però anche una serie studi secondo i quali la globalizzazione ha diffuso i “valori occidentali” (tra cui quello della crescita) anche a Oriente, e quindi la differenza (almeno in alcuni settori della società, come quello delle grandi aziende) non è più così apprezzabile. Sul fatto che il culto della crescita sia insito nel nostro DNA, sarei invece più scettica, sia perché queste teorie teleologiche (ad es. la crescita serve all’evoluzione/ progresso umano) e deterministiche (ad es. facciamo così perché è scritto nel ns. DNA) sono metodologicamente molto deboli (= non si possono dimostrare empiricamente), sia perché l’attuale concezione della crescita economica come potenzialmente infinita e sempre positiva è relativamente recente (nasce, credo, dalla Rivoluzione Industriale). Detto questo, indubbiamente, la positività del concetto di crescita è in qualche modo codificata nell’uomo a livello cognitivo, e quindi si ritrova tale e quale, o molto simile, in culture diverse: ecco perché un’espressione come “mi sento su di morale” funziona metaforicamente in italiano, inglese, e anche in cinese e in giapponese. Si tratta di metafore che sono in qualche modo legate all’esperienza umana in generale, ad es. l’idea secondo cui “happy is up”, secondo George Lakoff e Mark Johnson (riferimenti autorevolissimi in materia di metafora), dipende fisiologicamente dalla postura eretta assunta dall’uomo. Ci andrei cauta però a “universalizzare” questi concetti, perché l’uomo è sempre soggetto anche a pressioni contestuali e sociali nelle sue modalità espressive, che anzi probabilmente oggi prevalgono su quelle biologiche. Grazie ancora per il suo interesse su questi temi e a presto
Cari Igor e Sabrina,
finalmente abbiamo di nuovo un dibattito interessante su queste pagine… era dai tristi tempi del Simonetti che non si discuteva cosi` 🙂 Ma son certo che ora faremo molto meglio e con piu` piacere !
Riassumo per chiarezza le due domande che Sabrina mi ha stimolato con il suo scritto:
1) La crescita e` in qualche modo intrinseca all’essere vivente ? Se si, in quale modo e misura ? Ed in quale maniera diventa aberrazione (domanda a cui credo tutti concorderemo sulla risposta)
2) Le civilta` orientali, prima di venir corrotte dall’occidente, hanno un’attitudine meno “crescente” ? Se ne puo` trovar traccia nel loro linguaggio ?
Ecco, pur andandoci piano, direi che sono questioni che meritano discussione e risposta, ma prima di entrare nel dibattito (che mi piacerebbe sviluppare in un paio di articoli dedicati) possiamo concordare sulle domande ?
Grazie, ciao
Giulio
Tristi tempi? Beh, soprattutto per il mio fegato! 😀 [spoiler: a breve dovrei riuscire a fare qualcosa per rendere meno spiacevoli quei tempi…] Penso Giulio che preliminarmente bisogna sgombrare gli equivoci spiegando che il problema non è la ‘crescita’ in sé, che può essere positiva, bensì la ‘crescita esponenziale’, che invece è la logica del tumore.
La ricerca dello straordinario, la crescita e la decrescita
Intervengo in questo interessante scambio di idee per esporre un punto di vista che, spero, serva ad arricchire il dibattito intorno al tema introdotto da Giulio (e collegandomi anche all’interessante e originale articolo di Sabrina).
Penso che ci sia una costante universale nell’uomo (in tutti gli uomini e in tutti i tempi) che è la ricerca dello straordinario, cioè il superamento della vita quotidiana. Ciò nella storia è avvenuto in molti e interconnessi e interdipendenti modi: è avvenuto con l’attività economica (che è caratterizzata dalla crescita), con la religione, con le arti, con le droghe e in tanti altri modi (si veda al riguardo il mio http://www.decrescita.com/news/il-futuro-straordinario/ )
Succede però che negli anni settanta del XX secolo la crescita (che è crescita di spazio, cioè di popolazione, produzione, consumo di risorse naturali, ecc.) intercetta il tempo (per la precisione entra in rotta di collisione coltempo), cioè la possibilità che quella crescita possa continuare per molto tempo. Gli anni settanta del XX secolo possono considerarsi una nuova età assiale nella storia umana (si veda al riguardo il mio http://www.decrescita.com/news/gli-anni-settanta-xx-secolo/ ). Fu negli anni settanta del secolo scorso che un gruppo di scienziati del MIT di Boston, in un rapporto commissionato dal Club di Roma, predisse le conseguenze della continua crescita della popolazione, della produzione agricola e industriale e del connesso inquinamento sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana: entro i successivi cento anni si sarebbe avuto un crollo improvviso della popolazione umana, della produzione industriale e agricola e un degrado delle condizioni di vita dell’umanità.
È necessario che si passi dal primato dello spazio (crescita della popolazione, della produzione, del consumo di risorse naturali, ecc.) al primato del tempo (la possibilità per tempi lunghissimi [e in buone condizioni] della vita umana). Ma lo spazio e il tempo (come insegna la fisica moderna) sono legati indissolubilmente, si determinano a vicenda, per cui dove lo spazio si contrae, il tempo si dilata e, viceversa, dove il tempo si contrae, lo spazio si dilata. Questo significa che per aumentare le chances di vita, il tempo di vita (e in buone condizioni) dell’umanità sarà necessario contrarre lo spazio, cioè ridurre la popolazione, la produzione e il consumo: sarà necessario decrescere!!
Non sappiamo se la decrescita avverrà in modo cruento o in modo pacifico; una cosa è certa: avverrà di sicuro!!
Vi saluto cordialmente
Armando
Grazie Armando, lo “straordinario” e` un elemento molto importante per capire la necessita` di crescere.
Cerchero` di elaborare una nota al proposito cosi ne possiamo discutere…
Mi associo nel benvenuto a Sabrina che, come si vede dall’esordio, è una “tosta”, da cui, almeno io, avrò molto da imparare.
So poco o nulla di linguistica. Però, leggendo quanto Sabrina ha scritto, mi sono reso conto che, in fondo, gli stessi concetti presenti nella logica della linguistica sono presenti anche nei metodi statistici, o, per meglio dire, in quelli geostatistici; dove il dominio si concretizza nello spazio-tempo multidimensionale , il cui metodo di misura non è piu’ basato solo su scale metriche, ma anche non metriche. E’ il caso del MDS ( multi dimensional scaling), col quale si misurano e dimostrano le somiglianze e le differenze tra gli elementi di un insieme. Oppure delle reti neurali o, ancora piu’ di tecniche di analisi fattoriale, quali l’Analisi delle Corrispondenze. In fondo, sia che si tratti di linguistica, come di metodi statistici, la ricerca è mirata all’individuazione di corrispondenze; a loro volta individuate dalla maggiore o minore “distanza” tra i caratteri delle variabili indagate. E’ simile ciò che è meno distante e, viceversa,è piu’ distante ciò che ha in comune meno caratteri; per cui si riduce la confusione, intesa come con-fusione, cioè la condivisione di caratteri che, indifferentemente, possono stare nel soggetto “A” come nel soggetto”B”.
Come compito per le vacanze mi rileggerò con attenzione i due articoli di Sabrina.
P.S. nel secondo articolo ho rintracciato un termine che mi ha fatto sorridere: “cornutopismo” che, tradotto un po’ in malomodo, sta per ottimismo nella crescita continua.
Chissà perchè mi ha fatto venire in mente un avvocato, un noto avvocato, a cui le lumache risultano indigeste.
Cordialmente,
Daniele
A seguito della pubblicazione di questo articolo, mi è giunta la segnalazione di Hildo Honorio do Couto, docente dell’Università di Brasilia, che gestisce i seguenti siti insieme a un nutrito gruppo di suoi studenti:
http://www.meioambienteelinguagem.blogspot.com
http://aarvinha.blogspot.com
http://ilinguagem.blogspot.com
http://ecosystemic-linguistics.blogspot.com
Ringrazio molto Hildo per la segnalazione e invito chi di voi conosce il portoghese a consultare queste sue pagine, molto interessanti.