Marco Ponti, Professore ordinario di Economia applicata, Politecnico di Milano, ha scritto un interessante articolo su Il Fatto Quotidiano, a proposito di EXPO 2015 e la Carta di Milano, sul quale vorrei fare alcune osservazioni.
Penso e spero che il prof. Ponti non se ne avrà a male se esprimo un punto di vista diametralmente opposto al suo. Però, prima di esporre i punti sui quali dissento, vorrei dire quali sono gli aspetti sui quali convergo volentieri.
Ponti ha ragione quando afferma, sia pure in modo garbato, che il “manifesto” di Milano è intriso di ipocrita compiacenza: un modo per cercare di accontentare tutti e di tenere conto di posizioni contrapposte. Questo modo salomonico di agire lascia indenni tutti i nodi che, viceversa, andrebbero sciolti.
Non basta infatti fare alcune generiche quanto lapalissiane affermazioni sul diritto alla nutrizione sana o a una non meglio precisata “difesa del suolo” per deciderequali debbano essere le politiche in proposito.
Dopo questo incipit doveroso, per il resto, col Prof. Ponti sono in totale dissenso.
Alcuni giorni fa l’ISPRA ha pubblicato una relazione sul consumo di suolo in Italia, valutando in senso dinamico il fenomeno. Sono molteplici le cause per le quali il suolo diviene esausto e non più disponibile per le pratiche agricole; a cui si accompagnano le sottrazioni dovute a diversa destinazione d’uso, la più nota delle quali va sotto il nome di “cementificazione”. A quest’ultima causa specifica, dice l’ISPRA, va ascritta la perdita del 25% delle aree costiere, rispetto al precedente quinquennio.
Non basta.C’è dell’altro.
Il consumo di suolo coincide anche con la mancanza di fruibilità, a causa di arature profonde, utilizzo monocolturale con cattive rotazioni delle colture, utilizzo eccessivo di nutrienti e diserbanti. E’ noto, per esempio, il fenomeno dell’eutrofizzazione dei mari (in testa l’Adriatico) dovuta all’immissione di percentuali eccessive di composti azotati e fosforici.
La perdita di fertilità del suolo dipende anche dalla salinizzazione, dalla distruzione della frazione humica, dal depauperamento della fauna edafica.
Tutti questi fenomeni sono conseguenti alle politiche agricole dell’ultimo cinquantennio.
Ponti, che immagino attento lettore dei dati ISTAT, potrà rintracciarne molti, forniti dai Censimenti Generali dell’Agricoltura.
In particolare gli suggerisco la lettura di quelli riguardanti i censimenti 1961-2011.
E’ fin troppo facile notare che:
1) le superfici coltivate (in migliaia di ettari) nel cinquantennio 1961-2011 si sono pressochè dimezzate;
2) la redditività per ettaro è pressochè raddoppiata;
3) molte coltivazioni, come quelle di segale, orzo, lenticchie, avena, ceci, rape, sono pressochè sparite o ridotte a numeri insignificanti;
4) l’occupazione, manco a dirlo, nel periodo risulta più che decimata ( nel senso di ridotta di un ordine di grandezza)
In altre parole, in questi dati, possiamo leggere quanto è avvenuto in Italia nell’ultimo mezzo secolo: espulsione di manodopera (braccianti, piccoli contadini, mezzadri); in buona parte riassorbita dalle industrie del nord. Si evidenzia come la meccanizzazione spinta abbia trasformato radicalmente il settore agricolo.
Parimenti altri numeri, del tutto analoghi, ci informano come le aziende agricole siano state anch’esse decimate di numero e come siano diventate poche e industrializzate.
Le keywords di questo cinquantennio sono state: “innovazione”, “investimenti”, “espulsione di manodopera”, “competitivià”, “mercato”, “integrazione nelle politiche agricole europee”.
Non di meno, sicuramente manca un’altra parola chiave, del tutto trascurata, a cui gli economisti sono spesso allergici: “feedback”.
Un’economia che non sappia guardare al medio e lungo periodo, che non sappia riesaminare i processi e il complesso sistema di cause-effetto che ne derivano, indi adottare le necessarie azione correttiv, è un’economia sbagliata.
Non basta essere efficaci ed efficienti: serve minimizzare gli “effetti collaterali” e porvi rimedio.
Ciò è avvenuto in questo cinquantennio? Mi pare di no.
Un aspetto che gli economisti trascurano volentieri è quello delle varianze: cioè quegli aspetti fastidiosi connessi al “sistema”, gestite, assai spesso, come la colf gestisce i residui di polvere che non riesce a raccogliere con la paletta; ossia nascondendoli sotto il tappeto.
In questo mezzo secolo, prima e nonostante la Legge Merli, molti nostri fiumi si sono trasformati in cloache a cielo aperto, nei quali le industrie hanno scaricato liquami velenosi; per tacere di quelli interrati, con la complicità dei poteri criminali.
Spero converrà il prof. Ponti che l’analisi della varianza del “modello” industriale italiano, a iniziare dalla componente agricola, mostra parecchi residui e mancanza di adattamenti.
Suoli che, dopo un cinquantennio diventano indisponibili per le colture, non appartengono a una buona economia. La debacle demografica, lo spoppolamento di metà delle aree del paese, non è buona economia.
Infatti, quantomeno, “questa” economia non sa trovare un punto di equilibrio tra uso e abuso. La logica del massimo profitto, del “mordi e fuggi”, mostra tutti i suoi effetti devastanti.
E’ un po’ come per gli antibiotici: chi può dire che non servano? Non di meno l’OMS denuncia l’esistenza di nuovi ceppi batterici resistenti agli antibiotici, quali effetto di un abuso di questi farmaci; anche quando si tratta di patologie virali. Questo è un caso tipico in cui il rapporto causa-effetto è sottovalutato e mal gestito.
Le cronache di questi giorni ci informano anche sul fatto che, nell’allevamento animale, spesso e volentieri, gli antibiotici sono utilizzati a scopo preventivo ed entrano nelle procedure degli allevamenti industriali.
Per l’economista, interessato al ROI, al B.E.P., all’esigenza di battere la concorrenza, gli “effetti collaterali” di tali comportamenti hanno ben poco significato. In fondo, quello che conta sono i fatturati, la salute delle imprese, la loro capacità di generare ricchezza e competere sul mercato globale.
Si è ingenerata una mentalità del tutto pericolosa che si può riassumere con la frase: “facciamo, poi vediamo”. Prima si fa, poi si scarica sulla collettività l’onere di occuparsi delle “varianze”.
Credo non sfugga a nessuno che un’agricoltura di sussistenza, basata essenzialmente sull’autoconsumo e consumo di prossimità, sia cosa del tutto diversa dall’agricoltura industriale, pensata su larga scala per soddisfare bisogni di molte migliaia di persone.
Alla logica della divisione del lavoro “tutti noi produciamo per il mercato”, si può contrapporre la logica del: ” io faccio questo per me, tu fai quello per te e poi ci scambiamo i prodotti”. Comprendo che per l’economista parole come “baratto”, “banca del tempo”, “scambio solidale”, “bene comune”, provochino forti allergie cutanee.
Eppure la terra ai contadini, coltivata secondo le leggi di madre natura e non logiche di profitto, non provocano inaridimenti, desertificazioni.
Esiste un’idea “altra”, a cui molti economisti sono risolutamente contrari, che fa capo proprio alla posizione di Vandana Shiva: “piccolo è bello”. Certo, piccolo significa piccoli numeri, significa destabilizzare il sistema, rifiutare le standardizzazioni, sottolineare le differenze, ritenere la globalizzazione una iattura, concepire la biodiversità come un bene comune da valorizzare: sostanzialmente facendo in modo che si riduca drasticamente l’impatto antropico.
Naturalmente ben pochi economisti possono aderire a queste idee, perchè sono rivoluzionarie e, appunto, immaginano un mondo “altro” che assomigli piu’ al Bhutan che agli Stati Uniti.
Eppure l’approccio all’argomento offre una certa pletora di punti di vista. Mi pare che le idee di Amartya Sen, per cui sia l’economia al servizio dell’uomo e non viceversa, induca a ripensare profondamente l’idea ( sarebbe meglio dire l’ideale) consumista e quello della crescita infinita.
Gli economisti obiettano, e lo fa anche il prof. Ponti, che questa non-economia moltiplica la povertà anzichè ridurla. Ponti invita a leggere dentro alla povertà, a valutarne le cause.
Gli si può facilmente rispondere che l’economia che ha governato il mondo, almeno dalla Rivoluzione Industriale a questa parte, più che risolvere problemi ne ha creati.
Ha creato l’esplosione demografica, ha creato profonda inequità nello sviluppo, complice il colonialismo, ha dissipato risorse non rinnovabili, ha aumentato di tre ordini di grandezza l’emissione di anidride carbonica in atmosfera.
Ogni economista conosce bene il ciclo di vita di un prodotto e l’evoluzione assomiglia molto a quella sottesa alla curva di Gauss. Per cui c’è una fase in introduzione, una fase di sviluppo, una fase di consolidamento e una fase di declino.
Ciò che gli economisti spesso non considerano è che non sempre si possono fare uscire conigli dal cilindro, emendare gli errori e ripartire con nuovi progetti.
Esisono fasi irripetibili: ciò che è dissipato lo è per sempre e l’entropia non si riassorbe.
EXPO 2015 poteva essere l’occasione giusta per ragionare di tutto questo, dei costi/benefici delle attuali politiche agroalimentari e delle possibili alternative di come sfamare il pianeta: magari fuori da logiche consumistiche e del profitto.
Gli economisti ci insegnano, e questo va a loro merito, che la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Ciò vale anche nel caso delle politiche per il cibo. Business is business.
Immagine in evidenza: Prof. Marco Ponti