La decrescita può salvare l’Appennino

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(La provincia di Parma. In verde chiaro sono evidenziate le valli del Taro e del Ceno, incuneate tra Emilia Romagna, Liguria e Toscana – Mia elaborazione con software QGIS su dati shapefile ISTAT)

Uno dei tanti aspetti problematici del territorio italiano è rappresentato dalla distribuzione della popolazione. L’Italia conta circa 61 milioni di persone, molte delle quali sono concentrate nelle grandi e medie città e nei rispettivi comuni di “cintura”.
Leggendo i numeri dell’ISTAT possiamo apprendere che una città come Sesto San Giovanni (MI) , con  una superficie di circa 12 km/q, ha una popolazione di 83.000 abitanti, pari a 6.916 ab/km2. Mentre un paese come Bardi (PR) ha una superficie di 191 km/q, una popolazione di 2.337 abitanti (Censimento 2011), con una densità di 12,3 ab/km2. Bardi, al censimento del 1861 aveva oltre 10.000 abitanti. Dunque, in poco piu’ di 150 anni, questo comune ha perso il 76,6% della sua popolazione. Tutte e due le valli del Taro e del Ceno soffrono, da secoli, il fenomeno migratorio.

E’ sconcertante leggere le statistiche e i documenti prefettizi riguardanti la migrazione dei fanciulli; spesso al seguito di giostrai, venditori di inchiostro, orsanti che, con le loro chincaglierie, scimmie e orsi appresso girovagavano per l’Europa (fino ed oltre i confini con la Russia) in cerca di fortuna. I ragazzi venivano “affittati” per pochi soldi. Di questi molti non sono tornati e se n’è persa ogni traccia. Eppure non è stato sempre così.

A guardare i dati si vede come, a ridosso degli anni dell’Unità d’Italia, sino all’inizio del Fascismo, la montagna abbia resistito alle grandi ondate migratorie ed abbia rappresentato un rifugio per le popolazioni; al riparo dagli eventi bellici e, in parte, anche da terribili pandemie, come la celebre “spagnola” che, nel mondo , tra il 1919 e il 1920, fece oltre 10 milioni di morti.

Il grafico che segue mostra il trend demografico nelle tre aree in cui è suddivisibile la provincia di Parma: area montana, area di pianura e Città di Parma.

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Si noti come la popolazione montana dell’appennino parmense, cioè in gran parte quella delle valli del Taro e del Ceno, per tutto il periodo che va dal 1861 (anno del primo censimento ufficiale ) al al 1931, sia costantemente in crescita. Dal 1931 in poi diminuisce sino a ridursi ai minimi storici attorno al 1991. Tale emorragia, per altro, è tutt’ora in corso, come vedremo coi grafici successivi.

Parimenti la città di Parma vive una situazione del tutto opposta: la popolazione cresce, soprattutto per via delle costanti immigrazioni, fino al 1991, per poi diminuire di qualche migliaio di unità. La pianura ha un andamento demografico che si colloca a metà strada (in tutti i sensi) tra quanto avviene in montagna e a Parma città.

Come vivevano le famiglie che abitavano la montagna fino al 1931, cioè nel periodo in cui la popolazione cresceva ed il saldo naturale era positivo?

Ogni nucleo famigliare, spesso allargato ai genitori, aveva un alloggio in propriatà che, per quanto misero o molto sobrio, consentiva di avere un tetto sopra la testa. La legna dei boschi serviva per scaldarsi. In alcuni casi si utilizzava il faggio per la produzione di carbone. Non erano poche le famiglie dedite a questa attività. Il bosco, poi, ricco di castagneti, offriva alle famiglie castagne: un frutto nutriente, ricco di vitamine e sali minerali.

I prati garantivano il fieno necessario all’allevamento bovino. Una parte delle famiglie possedeva almeno un paio di mucche, da cui otteneva latte, burro e, più di rado, le carni. Non mancavano gli allevamenti di animali da cortile: come le galline, i conigli. Molti avevano anche il maiale. Gli orti domestici garantivano l’approvvigionamento degli ortaggi; almeno per la bella stagione. La vita era comunque grama, l’economia essenzialmente di autoconsumo. La campagna non bastava a garantire la sopravvivenza delle famiglie, spesso numerose. Per cui la popolazione “arrotondava” arrangiandosi come poteva. Nelle due valli parmensi vi erano molti dediti alla vendita di semenze o chincaglierie.

Non era raro trovare persone che, a piedi, percorressero molte decine di chilometri, su e giù dai colli, per recarsi nel vicino entroterra ligure ( Varese Ligure, Sarzana) o nella confinante Toscana ( Pontremoli). I giovani spesso emigravano nelle provincie vicine, a fare lavori edili o lavori domestici presso famiglie agiate.

Il punto di rottura che rende problematica, se non insopportabile, la vita in montagna, è ravvisabile, come ho già sottolineato in altro articolo, nel sistema di ereditarietà.

Con il Còde Napòleon viene stabilita l’uguaglianza in diritto degli eredi. Dunque, mortis causa del possessore (padre o madre), la terra passa in capo agli eredi: al coniuge sopravvissuto e ai figli. Il già risicato patrimonio famigliare viene smembrato, nei beni immobili, mobili e nei terreni. Ragione per la quale la ridotta disponibilità di mezzi, più che dividere la ricchezza moltiplica la povertà.

La situazione, molto probabilmente, era già insostenibile prima del 1931 ma, vuoi per gli eventi legati alla Prima Guerra Mondiale, vuoi per le politiche fasciste contrarie all’emigrazione, la popolazione venne in qualche modo costretta a rimanere in montagna.

Le cose cambiano nella fase della ricostruzione, dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’emigrazione verso la provincia (pianura e città di Parma) e, più ancora, l’emigrazione verso Francia, Regno Unito, Belgio divennero fenomeno di massa. E oggi?

L’immagine che segue rappresenta la provincia di Parma. Entro i cerchi bianchi sono riportati l’indice di vecchiaia (primo dato in alto nel cerchio) e l’età media.

E’ facile vedere come, allontanandosi da Parma e dai comuni di cintura del capoluogo (pianura) andando verso l’appennino, l’età media aumenti considerevolmente; così come l’indice di vecchiaia. E’ eclatante il dato di Monchio Delle Corti, dove l’indice di vecchiaia è di 742,6 e l’età media 56,4 anni; contro il dato del comune di Mezzani (cintura di Parma) con un indice di vecchiaia di 126,1 e una età media di 41,9 anni.

L’indice di vecchiaia è dato dal rapporto tra numero di ragazzi con età inferiore ai 15 anni e anziani con età superiore ai 65 anni. Nel caso di Monchio significa che, per ogni ragazzo, ci sono 7,4 anziani.

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(fonte: mia elaborazione su dati ISTAT)

L’invecchiamento pone enormi problemi. La mancanza di ricambio generazionale condanna l’Appennino allo svuotamento. Fenomeno, che, in assenza di drastici correttivi, andrà a compimento nel volgere di un paio di decenni.

Il reddito delle persone è prevalentemente da pensione. Per gli Enti Pubblici diventa sempre più problematico erogare il welfare, a partire dall’assistenza ospedaliera. Calando vistosamente il numero degli abitanti, giocoforza si rischia lo scadimento delle prestazioni fornite, per tacere del rischio reale che molti presìdi vengano chiusi e concentrati nelle realtà di pianura.

Ho titolato questo articolo: “La decrescita può salvare l’Appennino“.

Con un pò di retorica possiamo affermare che la spinta propulsiva che ha originato il fenomeno migratorio si è esaurita. Le città, lungi dall’essere attrattive, sono percorse da innumerevoli problemi che intaccano la qualità della vita delle persone: mancanza di lavoro, mancanza di abitazioni, congestionamento della mobilità, alto costo della vita, inquinamento atmosferico e del suolo, problemi di sicurezza sociale, aumento della microcriminalità.

Per contro le aree appenniniche, e non solo quelle della provincia di Parma, hanno grandi potenzialità. Certo, serve un cambio di paradigma, affinchè si riconosca che aria buona, bellezze naturali, rarità di molte specie floreali, diversità della fauna, elevata diversità micologica costituiscano una assoluta ricchezza e patrimonio collettivo. Sono molte le attività che si possono sviluppare, in modo rispettoso, non invasivo, fuori dalle logiche predatorie.

In primo luogo possono essere eseguiti molti lavori di riordino del territorio, spesso degradato per via dell’abbandono. Un dato: l’Italia è primo consumatore di legna da ardere in Europa e primo importatore.

Servono dunque piani di coltivazione mirati, con abbattimenti selettivi e piantumazioni sostitutive, in modo da ringiovanire il patrimonio forestale.

Contemporaneamente può risultare assai remunerativa la raccolta delle materie prime-seconde; come le ramaglie di risulta, la segatura, per il confezionamento di biomassa e pellet da combustione. Pulire i boschi significa restituire bellezza al paesaggio, ricostruire le vecchie mulattiere e strade interpoderali, pulire  gli alvei dei ruscelli evitando così di aggravare il già precario equiibrio geomorfologico : tutte occasioni per attività sportive e del tempo libero, in grado di richiamare un turismo rispettoso e sensibile ai temi ambientali.

A ciò si possono affiancare attività di visite guidate, tipo appostamenti in capanno per  foto naturalistiche o l’osservazione del lupo e delle sue tracce. Il lupo, per esempio, è ancora oggetto di preoccupazione. Recentemente 19 sindaci della zona hanno scritto una lettera nella quale esprimono preoccupazione per il ritorno del temuto predatore. I primi cittadini ritengono che possa nuocere al bestiame ed essere pericoloso per la popolazione.

Il vecchio spauracchio del lupo cattivo è duro a morire; mentre la realtà è ben diversa: è più di un secolo e mezzo che non si ha notizia di vittime umane provocate da lupi. In compenso, sono innumerevoli gli incidenti di caccia, con numerosie vittime tra i cacciatori che si sparano a vicenda e tra ignari cercatori di funghi che hanno la sfortuna di capitare nel bosco durante le battute di caccia al cinghiale. Così come non sono rari gli incidenti domestici, con conseguenze anche gravi, provocate dai cani.

Per contro il lupo è un ottimo bioindicatore di salubrità ambientale e, nel novero di un progetto ambientalista mirato, costituisce sicuramente piu’ una risorsa che un problema. Lo slow food, il cibo come cultura e contenitore di saperi antichi, è un’altro mezzo per attrarre turismo interessato a provare il piacere di cibi sani, del tutto diverso dal cibo industriale che si trova nei supermercati.

La logica che deve sottendere i progetti utili a favorire un ritorno all’appennino deve essere quella dell’economia “chiusa”: un po’ sulle orme del “Maso Chiuso” del Tirolo, sia pure in un contesto storico-culturale-sociale del tutto diverso.

L’idea del sistema “chiuso” punta all’autosufficienza, basata sullla produzione per autoconsumo, sulla valorizzazione dello scambio e delle sinergie entro le comunità locali. Per fare questo bisogna favorire forme di aggregazione che, in qualche modo, cancellino l’obbrobrio dello spezzatino della terra.

Tramite le Comunalie, i Consorzi Forestali è possibile conciliare l’interesse dei proprietari dei terreni e l’interesse generale delle comunità. Questa è la sola via per sconfiggere l’abbandono connaturato al progressivo invecchiamento della popolazione e conseguente decremento demografico.

Per anni l’isolamento, la distanza dalle realtà sviluppate del fondo valle è stato un handicap. I montanari sono famosi per essere chiusi , taciturni, alacri quanto conservatori nelle abitudini e tradizioni.

In realtà il problema dell’isolamento e della distanza, ai giorni nostri, può essere anche un grosso vantaggio: lontano dall’antropizzazione la natura si è conservata pressochè intonsa. Parimenti, grazie a internet, alla banda larga, sono possibili forme nuove di telelavoro, o sviluppo di attività di studio e monitoraggio ambientale, i cui risultati scientifici possono benissimo correre in rete, senza bisogno di presenziare fisicamente a forme di lavoro tradizionale.

Dunque le leve da azionare sono essenzialmente due:

1) sviluppo di attività “chiuse” in grado di rendere le comunità locali il più possibile autosufficienti

2) sviluppo di attività di ricerca, di monitoraggio ambientale, di forme possibili di telelavoro.

La “mano pubblica” anzichè pensare a forme stantie di crescita che, oggettivamente, hanno portato all’attuale situazione di crisi strutturale dell’economia italiana, può e deve favorire l’economia solidale. La logica non deve essere quella assistenziale ma, al contrario, deve incoraggiare la moltiplicazione di forme economiche solidali e partecipate.

Restare sul territorio, manutenerlo tramite attività virtuose, è anche un modo per mettere in sicurezza aree a forte rischio geologico. Investire in prevenzione è il modo migliore per risparmiare. La sola Regione Emilia Romagna, grazie all’accordo con l’Unione Europea, ha a disposizione, come Fondi Strutturali di Investimento, per il periodo 2014-2020, la bella somma di un miliardo e 300 milioni di euro, per finanziare progetti che facciano da volano all’economia, In considerazione anche del fatto che la Regione Emilia Romagna è stata la prima a dotarsi di una legge sull’economia solidale; non sarebbe male che traducesse i buoni propositi in azioni concrete.

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Originario della provincia di Sondrio, ho vissuto per molti anni a Sesto San Giovanni (MI) occupandomi di Garanzia della Qualità, prima come dipendente poi come libero professionista. Da otto anni vivo in una frazione del comune di Compiano (PR). Quando ci siamo tutti siamo in tredici persone. Cerchiamo , mia moglie ed io, di autoprodurre tutto quello che ci serve e di condividere con gli amici del GAS, del quale facciamo parte, acquisti e filosofia di vita. Sono laureato in Scienze Statistiche. Mi occupo di biodiversità come ricercatore. Sono coordinatore del Centro ISPRA dell'Appennino Parmense, per lo studio del suolo e degli effetti dell'impatto antropico.

12 Commenti

  1. Bell’articolo. Grazie.
    Penso anch’io che la soluzione di molti problemi che ci troviamo ad affrontare passi attraverso un cambiamento della polarità della calamita culturale dalla città dei consumi alla campagna solidale.
    Il punto è come far tornare gli investimenti pubblici e privati verso la campagna?
    Gli investimenti seguono il rendimento: come possiamo far rendere di più il denaro investito in piccoli e medi appezzamenti di terra in montagna rispetto ad un investimento in azioni industriali?
    Se io, per esempio, avessi diecimila euro da investire mi si presentano mille occasioni per investirli nel settore industriale e dei servizi ma,anche volendo, non saprei come investirli in agricoltura solidale.
    Attuare un piano di risanamento della montagna e delle superfici agricole richiede un impegno economico molto importante e duraturo superiore ai finanziamenti che può garantire lo Stato o l’Europa.
    Credo che lo strumento dei consorzi di piccoli/medi contadini possa essere la molla per far ripartire un sistema produttivo alternativo alla agricoltura industrializzata ma contestualmente deve avviarsi un sistema finanziario alternativo in grado di raccogliere risorse anche da piccoli investitori che vogliono provare a costruire un futuro migliore per i loro figli uscendo dalle grinfie dei bancarottieri che hanno il solo obbiettivo di arricchirsi alle stalle dei risparmiatori.
    Questo nuovo mercato finanziario dovrebbe essere promosso dallo Stato offrendo anche le garanzie che servono a sorreggerlo. Le banche etiche non potrebbero essere il braccio finanziario della decrescita?
    Chi ha conoscenze di sistema finanziario dia il suo contributo!

  2. Ciao Giancarlo,
    nel mondo dell’economia di mercato, il meccanismo è chiaro.
    Chi vuole intraprendere deve disporre di capitali propri e dei soci.. A concorrenza può utilizzare anche capitali di terzi, tramite azioni o finanziamenti bancari.
    Dunque se tizio vuole fare il contadino , si compra la terra, i mezzi agricoli, magari un capannone per il ricovero delle derrate alimentari………..

    Ma noi parliamo di decrescita.
    Prima del denaro vengono i valori: cioè quella categoria di beni a cui è difficile, se non impossibile, dare un valore monetario.
    Quanto vale conquistare una comunità all’idea di un progetto condiviso?
    Quanto vale decidere di condividere, tramite forme consorziate, i terreni per coltivarli assieme, utilizzare assieme i mezzi di produzione esistenti, produrre quanto basta alla comunità e fuori da logiche mercantili?

    Certo, senza denaro tutto si complica: bisogna imparare a razionalizzare, risparmiare, riciclare, condividere, divenire solidali. Al denaro si può sostituire, in ampia misura, lo scambio : io metto a dimora le patate, tu i pomodori e i cavoli e poi scambiamo il surplus rispetto al fabbisogno famigliare.
    Parlo per esperienza perchè coi miei vicini, già faccio così.
    Inoltre, l’appartenenza al GAS ci consente di allargare la cerchia delle condivisioni.

    Diverso è il discorso per quanto riguarda l’Ente Pubblico.
    Il denaro pubblico è dei cittadini. Lo si può sprecare in iniziative poco efficaci se non dannose, oppure lo si può impiegare, in modo mirato per investimenti che assecondino la logica di valorizzazione delle realtà locali. Ciò vale, soprattutto, per le comunità di montagna.
    Quanti soldi si spendono per tentare di rimediare alle calamità naturali?
    Molti dei disastri sono prevenibili, prendendosi cura del territorio, evitandone il saccheggio, manutenendolo con dovizia.
    Il nostro sistema democratico funziona tramite delega a degli eletti; ai quali attribuiamo il compito di amministrare a nostro nome.
    Di questi tempi non si può dire che tale funzione sia sempre assolta al meglio.
    Sarebbe importante, per esempio, che fossero le comunità a esprimere pareri su come investire sul proprio territorio. Chi meglio delle comunità locali sa cosa serve per il bene comune?
    Non sono affatto contrario alle classi dirigenti ma queste funzionano bene se si crea un circuito virtuoso tra raccolta delle proposte e sintesi coordinata con l’interesse generale.

    Quindi, concludendo, prima ancora di parlare di denaro da investire, serve un vero e proprio cambio di mentalità; tanto piu’ urgante quanto le misure economiche per la paventata ripresa si dimostrano inefficaci e, spesso, un inutile spreco di denaro pubblico.

  3. Grazie Uboldi per gli stimoli. Abito in collina da sei anni, ma i miei primi 50 anni li ho vissuti in città, dove ancora lavoro. Ora so cosa significa vivere della campagna e ora so che ce la potrò fare, soprattutto per i legami che, nel frattempo ho instaurato con il vicinato. Ecco, credo che, questo debba essere il passaggio fondamentale. In montagna ci sono ancora tracce di una umanità che ha resistito alle sirene della vita in città, o quanto meno, che non ha tagliato i ponti con il passato. Sarebbe molto utile ripartire da loro, aiutarli a tenere i figli in loco o a farli rientrare in famiglia. E poi creare le condizioni perchè siano i cittadini ad avvicinarsi a loro, perchè no, con la logica dello scambio, aiuto in cambio di prodotti. Dobbiamo ripartire da chi ha resistito perchè essi sono i custodi dei luoghi e delle risorse della montagna, cosa si sta facendo per loro?

  4. Il mio percorso verso la decrescita è cominciato in campagna, fino all’età di venticinque anni, dopo la città, per lavorare, fino a cinquanta, quindi la campagna di nuovo, pur continuando a lavorare. Adesso, a sessanta, vorrei smettere di lavorare e dedicarmi solo alla mia campagna, che nel frattempo è stata inglobata dalla città. Vista anche la mia dislocazione cittadina e la mia disponibilità di animali di diverse specie, asini in particolare, vorrei dedicare una parte del mio tempo ad accogliere persone, specialmente bambini, per insegnare loro che si può vivere anche in un altro modo e trasmettere quei valori di solidarietà, autoproduzione, condivisione che io sento da sempre e che mi legano ai miei vicini terricoli.
    Non credo che questo sia in contrasto con il manifesto della decrescita.Non sarà una attività da “puristi della decrescita” ma è pur sempre un tentativo di fare qualcosa per cambiare la propria vita ed aiutare quella degli altri. Per intendersi non intendo fare questo a scopo di lucro ma solo per condividere la mia esperienza.
    Per fare questo, però, occorrono alcuni investimenti di base; un luogo coperto e i bagni in particolare, ed io li farò a mie spese, ma questo trovo che sia sbagliato! Finchè sarà necessario fare tutto a proprie spese temo che ogni iniziativa rimanga nelle mani di pochi “borghesi illuminati” e non possa diventare un fenomeno di massa. Per questo motivo credo che anche il problema del finanziamento solidale debba trovare posto nella discussione per consentire anche ad un operaio senza risparmi da investire di tornare alla terra e cercare di cambiare la propria vita. Per fare un passo indietro occorrono un sacco di soldi. Credo che chiunque l’abbia fatto possa confermarlo.

    • Ciao Giancarlo, sono d’accordo con te.
      Per cambiare vita, radicalmente, occorrono delle basi economiche molto salde. Mi sembra una valutazione pratica.
      Non è un caso che i vari esempi di downshifting, di cui tanto si è parlato, siano in buona sostanza dirigenti, professionisti e affini che, avendo maturato una certa stanchezza della vita modernamente intesa e un congruo conto in banca, hanno abbandonato i fasti a cui erano abituati e si sono dati alla semplicità.
      Vi sono poi altri casi in cui il cambiamento sentito come necessario è stato supportato dalla richiesta di onerosi finanziamenti pubblici: la mia prima esperienza di decrescita realmente vissuta è stata di “turismo rurale”. Un giovane ricercatore, nell’intento di proseguire i suoi studi e, per poterlo fare, di presidiare il territorio (il Cilento), ha messo su una sorta di agriturismo a “prova di decrescita”.
      Acquisto di un rudere e del terreno intorno, materiali superbio per la ristrutturazione, impianti per il riciclo dell’acqua, ecc. Una bella spesa iniziale. E ti assicuro che ci si vive, ma non ci si arricchisce con attività del genere.
      Realizzare i propri sogni, anche quando si decide di vivere con poco, in una società burocratizzata e monetizzata come la nostra, ha un costo. E non è solo quello delle rinunce.
      Non credo affatto che realizzare un sogno semplice, come il tuo, sia in contrasto con la decrescita.
      E’ in contrasto con la società in cui viviamo, in cui ciò che è semplice deve essere reso difficile…altrimenti, il controllo, dov’è?

      • Credo che l’aspetto dell’ “accesso” alla decrescita non sia meno importante dei valori stessi della decrescita: sui valori della decrescita non è difficile trovare una larga condivisione ( solo in Italia potremmo trovare centinaia di migliaia di persone disposte a condividere i valori della decrescita ) ma sul modo di realizzare il proprio progetto di decrescita le difficoltà sono molto maggiori. L’ interessante analisi di Daniele mette in evidenza il fenomeno dello spopolamento della campagna e della urbanizzazione della popolazione avvenuta nel secolo scorso: la decrescita deve attivare un fenomeno contrario di deurbanizzazione della popolazione e ripopolamento della campagna e della montagna attraverso la frammentazione della proprietà dei terreni agricoli consentendo alle famiglie di riappropriarsi di piccole superfici sufficienti all’ autosostentamento.
        Credo sia molto importante creare una rete “pilota” di famiglie consorziate in “villaggi decrescenti” in grado di dimostrare che il progetto funziona e di rappresentare un elemento di aggregazione e sostegno a chi volesse intraprendere il percorso della decrescita ma, oltre a questo, si devono pensare nuovi meccanismi di “finanza decrescente” che consenta di redistribuire i terreni agricoli e ricostituire i patrimoni di beni strumentali necessari alla coltivazione. Solo questo può consentire ai valori della decrescita di uscire dall’ambito elitario di una esperienza personale ( la decrescita non può essere roba da Accademia dei georgofili) per diventare un fenomeno sociale che rappresenti una alternativa pratica alla povera esistenza a cui ci siamo abituati consentendoci di tornare a vivere in armonia col resto della natura e provare a cercare la felicità anche fuori dai centri commerciali.

  5. Complimenti per l’articolo, hai centrato l’argomento.
    Da un punto di vista forestale (l’unico campo che conosco, mi occupo di pianificazione forestale da 20 anni) hai perfettamente ragione. Le opportunità sono enormi, sempre se viste ovviamente nell’ottica della decrescita.
    L’abbandono, o l’uso improprio dei boschi, riguarda superfici considerevoli ma il cambiamento non può che passare attraverso la decrescita. L’occhio “industriale” non può cogliere tali vie.

  6. Ringrazio collettivamente Giancarlo, Marcello e Gianluca.

    “two gustis is meglio che uan” diceva la nota pubblicità; figuriamoci che cosa possono fare tre persone (quattro, se aggiungo anche il sottoscritto), raccontando la propria esperienza e formulando proposte.
    In modo particolare mi intriga Gialuca e l’argomento “pianificazione forestale”.
    Vogliamo approfondire?

    • Per pianificazione forestale intendo tutte le attività connesse all’ecosistema bosco. Da quelle più strutturali tipo viabilità secondaria, allo sviluppo delle potenzialità che quell’area boscata ha. Si va dalle classiche rotazioni per l’ottenimento della legna da ardere a tutta quella serie di “nuove” attività che possono essere svolte in bosco: sentieristica e tutte le sue variabili (percorsi guidati, scuola del bosco, percorsi per diversamente abili…, percorsi botanici, fotografici), cambio di governo del bosco (conversioni da ceduo a fustaia, selvicoltura naturalistica…), sistemazioni idraulico forestali, pascolo in bosco……
      Partendo dal concetto che boschi vergini in Italia non ne esistono, è opportuno usufruire di tecniche antiche per accompagnare lo sviluppo del bosco nella direzione che vogliamo seguire, che fosse anche quella verso una rinaturalizzazione del bosco stesso.
      L’abbandono tout court non porta mai ai risultati sperati nei tempi “umani”. L’antropizzazione poi può essere talmente elevata che c’è bisogno di un aiuto selvicolturale.

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