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Impronta ecologica, global warming e fantascienza tecnologica: il crollo definitivo del castello di carte
L’impronta ecologica (o ambientale), concetto ideato da Mathis Wackernagel e William Rees, misura l’area biologicamente produttiva di terra e di mare necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti (1); così è possibile stimare quanti ‘pianeta Terra’ servirebbero per sostenere l’umanità, qualora tutti vivessero secondo un determinato stile di vita, determinando se essa si trova in ‘debito’ o ‘credito’ con il proprio pianeta. La carrying capacity (letteralmente “capacità di carico”), è invece la capacità di un ambiente e delle sue risorse di sostenere un certo numero di individui. La versione più nota della carryng capacity è quella espressa attraverso l’equazione I = P x C x T, dove I sta per ‘impatto sul pianeta’, P per ‘popolazione’, C per ‘consumo pro capite’, T per ‘fattore tecnologico’.
Simonetti, in poche righe, sminuisce del tutto il contributo di questi concetti per lo studio del degrado ambientale:
Insomma, così come l’Età della Pietra è finita, ma non perché siano finite le pietre, anche l’era del petrolio un bel giorno finirà – ma non perché si esaurirà il petrolio. Analoga risposta va data a tutti quelli (e sono molti) che richiamano concetti come l”impronta ambientale’, la ‘sostenibilità’ o la ‘carryng capacity’, per sostenere tesi catastrofiste sulla prossima fine della civiltà industriale. Se si tratta di ribadire che occorre ridurre inquinamento e spreco di risorse, benissimo. Ma spesso si giunge a feticizzare concetti che invece sono dinamici: ciò che oggi può sembrare insostenibile, potrebbe non esserlo domani (e viceversa, ovviamente). (pag. 66-67)
L’attacco all’impronta ambientale e alla carryng capacity è abbastanza strano (a parte il fatto di ricorrere spesso nei discorsi della decrescita). Tali concetti furono ideati proprio allo scopo di smentire teorie ‘statiche’ sulla sovrappopolazione della Terra: il numero massimo dei suoi abitanti cambia a seconda dello stile di vita e della capacità delle tecnologia di sfruttare efficacemente le risorse. Se l’impronta ambientale o la carryng capacity superano la capacità di carico, a seconda del punto di vista che adotto, posso dedurne o che la Terra sia sovrappopolata, o che i consumi siano eccessivi, o che il livello di sofisticazione tecnologica sia insufficiente; semplificando parecchio, la prima sarà l’opinione di un neomalthusiano, la seconda di un decrescente, la terza di un economista neoclassico. Uno stile di vita statunitense non può sostenere più di un miliardo e mezzo di individui, uno più sobrio o addirittura povero consente ovviamente di mantenerne di più. Il concetto è quindi di per sé altamente dinamico.
Come spiegare l’affondo polemico di SImonetti? Nella nota al segmento di testo appena riportato, si rimanda a questo articolo: Schwartzman, P. and Schwartzman, D., 2007, ‘Is the world overpopulated?’.
Gli Schwartzman in quest’articolo fanno chiarezza sui risultati degli studi di Wackernagel e Ress, dopo i quali molti avevano gridato impropriamente alla sovrappopolazione terrestre:
Since so many are able to live far from where resources are found, this begs the question, “Are we living beyond the carrying capacity at the global level.”
Recent work by Wackernagel and Rees on human’s ecological footprint suggests “yes,” we are—and this evidence seems to be just what the population reductionists have been looking for as proof of “global overpopulation.” However, carrying capacity is a dynamic concept, something these reductionists overlook. Specifically, if the 6+ billion humans on the planet today were to shift from using heavily polluting energy sources to clean ones, our collective impact would be less. Cleaning up polluted environments would likewise increase the carrying capacity of the planet.
…despite the conflicting evidence presented, it is commonly believed that overpopulation is some absolute phenomenon and will only get worse in the future. There are two fundamental reasons why this conclusion is highly misleading. One, the root cause for widespread misery and environmental degradation is the mode of production and consumption we have in the U.S. and the global system that maintains it. Two, the overpopulation myth leads to the promotion of policies that are terribly unjust and inhumane.
Per i due ricercatori la vera causa del sovrasfruttamento della Terra è evidente:
Is “overpopulation” driving most global environmental problems?” Note that nearly 25% of all the CO2 emitted into the atmosphere comes from the U.S . (and the bulk of the rest of it comes from other rich countries). How can invasive species proliferation, which is decimating habitats all over the planet, be blamed on “overpopulation” when its primary cause, globalization, is being driven largely by transnational corporations in their insatiable appetite for profit at the expense of nature? Can synthetic chemicals which make our rivers, oceans and airways toxic to us and other life forms be attributed to overpopulation when nearly all of these are produced by the same transnational corporations?” Is “overpopulation” responsible for the over fishing of our planet’s oceans when much of the fish caught is being consumed by affluent people far away from the point of catch? Doesn’t this all suggest that something other than population size is at the root of many of the significant environmental problems we face?…
In conclusion, we should look beyond the mantra of “overpopulation” as the dominant agent of human and environmental damage. If the Earth is too crowded right now, it is because we have too many billionaires.
Verificati i contenuti dell’articolo, la polemica di Simonetti sui ‘feticisti di impronta ambientale, carryng capacity e sostenibilità’ non si capisce esattamente verso chi sia diretta (i neomalthusiani?), di certo non può essere mossa ai decrescenti. Nel Breve trattato della decrescita serena, che Simonetti sostiene di aver letto, al paragrafo ‘Una falsa soluzione: ridurre la popolazione’, Latouche riassume sostanzialmente lo stesso concetto degli Schwartzman.
Una volta chiarito l’equivoco e messe da parte le polemiche, le ipotesi sullo sviluppo tecnologico ‘capace di rendere sostenibile domani quello che oggi è insostenibile’, possono essere inserite in una cornice più empirica – e realistica. L’ultimo rapporto sull’impronta ecologica disponibile, il Living Planet Report 2014, indica un valore globale per l’impronta ambientale di 2,60 ha pro capite, contro una biocapacità terrestre di circa 1,70 ha pro capite: significa quindi che la Terra si trova in overshoot per circa il 50% delle risorse. Immaginiamo un piano di ammortamento di questo debito ecologico in un lasso di tempo ragionevolmente lungo, ad esempio 20 anni: a prima vista, sembrano esserci i tempi e i modi per un miglioramento tecnologico adeguato. Tuttavia, questo calcolo presuppone che la popolazione e il consumo di risorse restino stazionari, cosa che (salvo catastrofi epocali) sicuramente non accadrà al primo dei due fattori, perché il World population prospects dell’ONU stima che tra vent’anni la popolazione terrestre assommerà a 8,3 miliardi di individui. Se a ciò dovesse aggiungersi un sostanziale aumento dei consumi (molto prevedibile nei BRICS e nei paesi in via di sviluppo), allora abbiamo trasformato in realtà il famoso paradosso di Zenone, dove però Achille deve inseguire un ghepardo, non più una tartaruga.
I Rapporti sullo Sviluppo Umano del 2011 e 2013 (RSU) hanno sostenuto che i disastri ambientali potrebbero non solo rallentare lo sviluppo umano, ma persino invertirlo. Il cambiamento climatico potrebbe diventare il maggiore ostacolo alle ambizioni degli obbiettivi di sviluppo sostenibile e dei programmi di sviluppo per dopo il 2015. Le minacce ambientali evidenziano potenziali contrasti fra il benessere delle generazioni attuali e future. Se l’attuale consumo supera i limiti imposti dal nostro pianeta, le scelte delle generazioni future e presenti verranno seriamente compromesse. Se un paese o una comunità si trova in un percorso di sviluppo sostenibile dipende dalla sua posizione in relazione alle soglie locali e globali. Una soglia locale è in relazione alle risorse disponibili all’interno dei confini di un paese, mentre un soglia globale abbraccia una prospettiva più ampia considerando i limiti planetari. Per esempio, il consumo di risorse naturali di un paese potrebbe essere al di sotto della propria soglia locale – a causa dell’abbondanza di risorse entro i propri confini – ma il suo consumo pro capite può avere conseguenze dannose entro ed oltre i confini, quindi è importante esaminare in che modo equilibrare i limiti locali e globali.
Il principio universalista fornisce un buon punto di partenza per mettere insieme equità nell’uso di risorse ambientali e di altro tipo all’interno e fra generazioni. La scienza fornisce un’idea delle soglie globali per risorse specifiche, mentre la giustizia sociale richiede che tutti abbiano eguale diritto alla risorsa disponibile all’uso da parte della generazione presente. Questo ci permette di identificare i paesi che si trovano su strade di sviluppo insostenibile, in particolare su certi indicatori ambientali. Anche se l’ambiente è una dimensione chiave che condiziona le scelte delle generazioni presenti e future, non è l’unica. Ciononostante, soglie della sostenibilità ambientali globali stabilite ragionevolmente bene permettono valutazioni più formali. Molti paesi, specialmente quelli che rientrano nei gruppi di alto sviluppo umano, ora seguono percorsi di sviluppo insostenibile. Dei 140 paesi dei quali si dispone di dati, 82 hanno impronte ecologiche al di sopra della capacità di carico globale. Di conseguenza, l’impronta mondiale pro capite è significativamente maggiore della soglia di sostenibilità globale. Le emissioni di biossido di carbonio di 90 di 185 paesi superano la soglia globale e le loro emissioni sono sufficientemente alte da spingere le emissioni globali pro capite oltre la sostenibilità globale. I prelievi di acqua potabile di 49 dei 172 paesi dei quali si dispone di dati a loro volta superano la soglia globale. Complessivamente, c’è una correlazione positiva fra i risultati dei RSU e le impronte ecologiche insostenibili e le emissioni, mentre il consumo d’acqua è insostenibile in tutti i paesi sviluppati e in via di sviluppo”.
Il prossimo diagramma illustra senza dubbio la correlazione diretta tra sviluppo umano e insostenibilità:
Impronta ambientale e carryng capacity vengono decisamente maltrattate in Contro la decrescita, ma quantomeno vengono menzionate; si rimane invece stupefatti per la pressoché totale assenza di riferimenti a quello che oggi è universalmente pubblicizzato come il più grave problema ambientale che l’umanità debba fronteggiare, ossia il riscaldamento globale del pianeta dovuto all’eccessiva concentrazione di gas serra nell’atmosfera. Se il rapporto tra il progressivo esaurimento delle risorse e le difficoltà economiche per sfruttarle è ancora una questione di nicchia accademica, il problema del global warning viene oramai trattato anche a livello della scuola primaria. Ed è una problematica abbastanza scabrosa per le concezioni industrialiste tradizionali, perché ci segnala ad esempio che, quantunque le risorse petrolifere fossero abbondanti e a buon mercato o addirittura fosse vera la teoria abiotica sull’origine del petrolio (per cui si genererebbe spontaneamente dal centro della Terra), la cosa migliore sarebbe lasciarlo sottoterra, non potendo eccedere ulteriormente con emissioni di anidride carbonica.
In 2052, Randers prevede un aumento delle emissioni di CO2 fino al 2030, stimando che, nel caso successivamente l’umanità agisse drasticamente contro i cambiamenti climatici, forse si riuscirebbe a evitare il temutissimo aumento globale medio della temperatura di 2°C, capace di ingenerare conseguenze irreversibili per il pianeta. Il quinto rapporto dell’IPCC (aprile 2014) è meno ottimista e chiede una riduzione delle emissioni di CO2 almeno del 40% (relative al 2010) entro il 2050, anche se l’ideale sarebbe arrivare al 70%, perché l’effetto serra sembra seguire un andamento esponenziale e non lineare, per cui si innescano meccanismi di feedback tali da velocizzare il fenomeno una volta raggiunti certi punti critici. (2) Simonetti, nell’aprile del 2014, non poteva probabilmente più aggiornare il libro, tuttavia anche il rapporto IPCC rilasciato nel 2013 non era meno allarmante.
Proviamo allora a ragionare sul rapporto tra anidride carbonica e PIL, per capire di quanto si debba ‘ripulire’ il prodotto interno lordo. Assumiamo come riferimento un’ipotesi stazionaria e una basata sulle previsione di crescita di Randers (raddoppio circa del PIL nel 2052 rispetto al 2010-12)
Con un andamento stazionario dell’economia, nel 2050 (ipotizzando di contenere la riduzione di emissioni solo al 40%) il rapporto CO2/PIL dovrebbe migliorare del 42% in quarant’anni; considerando che nel ventennio 1990-2010 il miglioramento si è attestato intorno al 25%, non sembrerebbe una possibilità inverosimile. Ma con la previsione di crescita di Randers – per quanto estremamente modesta, secondo i canoni economici mainstream – bisognerebbe arrivare al 72%, ossia la stessa percentuale dell’ipotesi stazionaria basata sulla riduzione delle emissioni più prudente.
Per avere un termine di paragone con la realtà, basti pensare che nel ventennio 1990-2010 i paesi dell’area OCSE (quelli cioé più avanzati sul piano tecnologico) non sono andati oltre il 30% nell’efficienza; e questo – è bene ricordarlo, prima di elaborare ardite curve di Kuznets – in un periodo in cui tali nazioni hanno delocalizzato le loro attività industriali più inquinanti. Pensare che i paesi emergenti, per di più con il fardello di queste produzioni, possano negli anni a venire uguagliare o addirittura migliorare i risultati delle nazioni più ricche e tecnologicamente avanzate, è pura fantascienza. Se poi aggiungiamo che oggi l’82% dell’energia primaria mondiale deriva ancora da fonti fossili, allora si sconfina pure nel fantasy. (3)
Sulla base di queste riflessioni, nella prossima e ultima puntata cercheremo di riflettere sul significato profondo di Contro la decrescita e dell’ideologia che lo sottintende, spiegando molte contraddizioni.
(1) Il concetto di impronta ecologica ha ricevuto delle critiche non per il suo carattere ‘catastrofista’, ma perché è un’approssimazione per difetto della reale impronta ecologica umana, non calcolando, ad esempio, il consumo di acqua o l’immissione nella biosfera di inquinanti organici persistenti.
(2) Siccome lo scopo di questa analisi è testare la metodologia di Simonetti, non approfondiamo la complessa problematica del riscaldamento globale. Infatti, l’andamento delle variabili climatiche non è lineare (tanta andride carbonica è stata assorbita ieri, tanta ne sarà assorbita domani) ed esistono effetti soglia le cui conseguenze sono irreversibili (ad esempio nell’estate del 2007 si è sciolto il 30% dei ghiacciai dell’Artico, fenomeno che nemmeno il più pessimista dei climatologi aveva previsto, mentre nell’estate del 2012 si è assistito a un nuovo minimo, con il 40% dell’Artico che non c’era più). Alcuni dei nuovi studi (ad esempio Natura in bancarotta, di Wijkman e Rockstrom) sono più allarmanti e dimostrano come anche la totale riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2050 (ipotesi piuttosto irrealistica) potrebbe non bastare per contenere il riscaldamento globale, a causa della minor capacità di assorbimento della anidride carbonica da parte di oceani e foreste e anche del cambiamento dell’albedo dei ghiacci dovuto alla presenza di inquinanti o allo scioglimento del permafrost, tanto per citare alcuni effetti piuttosto prevedebili. Altra nota sul riscaldamento climatico: la soglia dei 2°C non è una misura rigorosamente scientifica in grado di salvaguardarci dal peggio, ma una mera soglia politica (tendente al ribasso) frutto di mediazione tra gli interessi divergenti in seno alle Nazioni Unite e le analisi dei climatologi (anche se viene riportata nell’IPCC è più un risultato politico che scientifico).
(3) Dati dello IEA Energy Key World 2014.
Tutte le citazioni presenti nell’articolo di opere protette da diritto di autore fanno riferimento alla legge 22 aprile 1941, n.633, art.70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.
E’ ovvio che bisogna fare una corretta analisi della situazione in merito all’esaurimento dei combustibili fossili, ai cambiamenti climatici e ad altri problemi connessi ma personalmente in merito mi attengo a questo pensiero di Aurelio Peccei:
““Non cercate cifre esatte, dati matematicamente sicuri. Non ne abbiamo, e quando li avremo sarà troppo tardi.”
Nel paragrafo “La devastazione della natura” nel cap.III “La sindrome della decadenza” nel testo “Cento pagine per l’avvenire” pag. 78 di Aurelio Peccei
Ciao
Armando
Immagino che l’atteggiamento di Peccei sia quello che viene chiamato ‘catastrofismo’, che si potrebbe così riassumere: “se adotti un comportamento negativo e specialmente lo perpetui, le conseguenze saranno negative”.